Applicazione dell’art. 2043 c.c. in luogo dell’art. 2051 c.c.

Corte di Cassazione, sezione sesta (terza) civile, Ordinanza 18 luglio 2019, n. 19404.

La massima estrapolata:

L’applicazione dell’art. 2043 c.c. in luogo dell’art. 2051 c.c. impone che la responsabilità dell’ente si affermi solo previa individuazione del concreto comportamento colposo ad esso ascrivibile e cioè che gli siano imputabili condotte, a seconda dei casi, specificamente o genericamente colpose che abbiano reso possibile il verificarsi dell’evento dannoso. Di contro, slegando la responsabilità dell’Ente dal concetto di colpa la si farebbe transitare nell’alveo della responsabilità oggettiva da cose in custodia secondo le regole di cui agli artt. 2051, 2052 e 2053 c.c.

Ordinanza 18 luglio 2019, n. 19404

Data udienza 4 aprile 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE TERZA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 15478/2018 R.G. proposto da:
(OMISSIS), (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’Avv. (OMISSIS), con domicilio eletto in (OMISSIS), presso lo studio dell’Avv. (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
Comune di Mendicino e Confraternita di Misericordia;
– intimati –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Catanzaro, n. 2007/2017, depositata il 16 novembre 2017;
Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 4 aprile 2019
dal Consigliere Emilio Iannello.

RILEVATO

che:
1. Con la sentenza in epigrafe la Corte d’appello di Catanzaro, in riforma della decisione di primo grado, ha condannato l’ (OMISSIS) al pagamento, in favore della Confraternita di Misericordia dell’importo di Euro 9.706,13, oltre interessi, a titolo di risarcimento dei danni subiti dal mezzo di proprieta’ di quest’ultima in conseguenza del sinistro occorso in data 29/7/2007 causato dall’improvviso attraversamento della strada dallo stesso percorsa da parte di un cane randagio.
Ha infatti ritenuto che il sinistro fosse ascrivibile a colpa della Azienda sanitaria e non invece del Comune (all’inverso di quanto invece opinato dal primo giudice), per avere questa omesso di esercitare i poteri di vigilanza e controllo del fenomeno del randagismo ad essa attribuiti dalla Legge Regionale Calabria 5 maggio 1990, n. 41, articolo 12, comma 2, come sostituito dalla Legge Regionale Calabria 3 marzo 2000, n. 4, articolo 7.
2. Avverso tale decisione l’ (OMISSIS) di Cosenza propone ricorso per cassazione sulla base di tre motivi.
Gli intimati non svolgono difese nella presente sede.
3. Essendo state ritenute sussistenti le condizioni per la trattazione del ricorso ai sensi dell’articolo 380 – bis c.p.c., il relatore designato ha redatto proposta, che e’ stata notificata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.
La ricorrente ha depositato memoria ex articolo 380 – bis c.p.c., comma 2.

CONSIDERATO

che:
1. Con il primo motivo l’Azienda ricorrente denuncia violazione della Legge Regionale Calabria 19 marzo 2004, n. 11, articolo 1, del Decreto Legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, articolo 3 e del Decreto Legislativo 18 agosto 2000, n. 267, articolo 13, per avere la Corte d’appello attribuito ad essa odierna ricorrente i poteri di vigilanza e controllo del randagismo che invece – sostiene – sono ex lege di competenza esclusiva del Comune.
2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia altresi’ violazione della Legge Regionale Calabria n. 41 del 1990, articolo 2, lettera b) e articolo 13.
Sostiene che, in base alle norme richiamate, ad essa Azienda sanitaria spetta, per il tramite del servizio veterinario, solo la cattura dei cani randagi previa segnalazione del Comune interessato e che pertanto la responsabilita’ dell’incidente e’, nel caso di specie, addebitabile esclusivamente al Comune per avere questo omesso di effettuare, sul territorio di sua pertinenza, i controlli previsti ex lege al fine di programmare e pianificare, con la eventuale partecipazione degli enti competenti (tra i quali anche essa azienda sanitaria), le politiche contro il randagismo e di richiedere di conseguenza le misure e gli interventi idonei per l’accalappiamento dei cani.
3. Con il terzo motivo la ricorrente deduce infine violazione dell’articolo 2043 c.c., per avere la Corte d’appello affermato la responsabilita’ di essa azienda sanitaria omettendo di considerare che, come accertato dal primo giudice, nessun intervento di accalappiamento di cani randagi era stato richiesto dal Comune di Mendicino nei giorni dell’incidente.
4. I primi due motivi, congiuntamente esaminabili, sono infondati.
Come questa Corte ha in piu’ occasioni affermato, la responsabilita’ per i danni causati dai cani randagi spetta esclusivamente, nel concorso degli altri presupposti, all’ente, o agli enti, cui e’ attribuito dalla legge (ed in particolare dalle singole leggi regionali attuative della legge quadro nazionale 14 agosto 1991, n. 281) il compito di prevenire il pericolo specifico per l’incolumita’ della popolazione connesso al randagismo e cioe’ il compito della cattura e della custodia dei cani vaganti o randagi (v. ex aliis Cass. 18/05/2017, n. 12495; 26/06/2017, n. 15167).
Il principio non puo’ che essere qui ribadito poiche’ l’attribuzione per legge ad uno o piu’ determinati enti pubblici del compito della cattura e quindi della custodia degli animali vaganti o randagi (e cioe’ liberi e privi di proprietario) costituisce il fondamento della responsabilita’ per i danni eventualmente arrecati alla popolazione dagli animali suddetti, anche quanto ai profili civilistici conseguenti all’inosservanza di detti obblighi di cattura e custodia.
Poiche’ la legge quadro statale n. 281 del 1991 non indica direttamente a quale ente spetta il compito di cattura e custodia dei cani randagi, ma rimette alle Regioni la regolamentazione concreta della materia, occorre analizzare la normativa regionale, caso per caso.
In Calabria, come correttamente affermato nella sentenza impugnata, tale competenza risulta chiaramente attribuita al Servizio veterinario istituito, ai sensi della Legge Regionale Calabria n. 41 del 1990, articolo 3, come sostituito dalla Legge Regionale n. 4 del 2000, articolo 3, presso le unita’ sanitarie locali (ora aziende sanitarie).
La detta Legge Regionale n. 41 del 1990, articolo 12, comma 2, come sostituito dalla Legge Regionale n. 4 del 2000, articolo 7, dispone infatti: “i cani vaganti non tatuati devono essere catturati, con metodi indolori e non traumatizzanti, salvo i casi previsti dalla Legge Regionale 5 maggio 1990, n. 41, articolo 3, comma 2, dal Servizio veterinario competente per territorio, il quale tramite la sua Unita’ operativa adempie agli obblighi previsti dalla presente legge”.
Dalla chiara lettera di tale disposizione si evince dunque che la competenza in relazione alla cattura e custodia dei cani vaganti o randagi compete al Servizio veterinario dell’Azienda Sanitaria Provinciale.
5. Le censure svolte contro detta ricostruzione del quadro normativo si appalesano meramente assertive e prive di alcun fondamento.
Non puo’ in particolare giovare il riferimento, nel secondo motivo, ai provvedimenti adottati dal Commissario ad acta al Piano di Rientro del disavanzo in sanita’ (decreti nn. 197 del 2012 e 32 del 2015) e in particolare alla previsione ivi contenuta secondo cui “le unita’ di accalappiamento cani sono alle dipendenze e coordinati dai servizi veterinari di sanita’ animale ed operano sotto le direttive del Direttore del servizio che programma l’attivita’ sulla base delle esigenze territoriali e delle richieste dei sindaci del comprensorio”.
E’ agevole infatti rilevare che si tratta di provvedimenti successivi alla data del fatto lesivo e comunque di normazione secondaria che, come tali, non possono certamente assumere alcun rilievo, tantomeno limitativo, nella ricostruzione della disciplina ricavabile dalle norme di rango primario.
Inoltre il tenore letterale delle disposizioni, facendo comunque riferimento non solo alle richieste dei sindaci ma anche – e indipendentemente da queste – alle “esigenze territoriali” (suscettibili di autonoma rilevazione), non giustifica l’interpretazione proposta dalla ricorrente.
Tanto meno giova il riferimento ai precedenti giurisprudenziali richiamati, e segnatamente a quello di Cass. n. 12495 del 2017, atteso che, come detto, da questi si traggono esattamente gli stessi principi correttamente applicati nel caso de quo dalla sentenza impugnata, i quali tuttavia nei diversi casi esaminati dai detti arresti conducono ad esiti opposti per la semplice ragione che, riguardando essi fattispecie verificatesi in altre regioni, trovano applicazione le diverse regolamentazioni dettate dalle leggi regionali ivi vigenti.
6. E’ invece fondato il terzo motivo.
Come fondatamente evidenziato in memoria dalla ricorrente, questa Corte ha con recenti arresti (cfr. Cass. 11/12/2018, n. 31957; 28/06/2018, n. 17060; Cass. 14/05/2018, n. 11591; Cass. 31/07/2017, n. 18954) affermato il principio, cui questo Collegio intende dare continuita’, secondo cui, ai fini dell’affermazione della responsabilita’ per i danni cagionati da un animale randagio, non basta che la normativa regionale individui l’ente cui e’ attribuito il compito di controllo e di gestione del fenomeno del randagismo e neanche quello piu’ specifico di provvedere alla cattura ed alla custodia degli animali randagi occorrendo anche che chi si assume danneggiato, in base alle regole generali, alleghi e dimostri il contenuto della condotta obbligatoria esigibile dall’ente e la riconducibilita’ dell’evento dannoso al mancato adempimento di tale condotta obbligatoria, in base ai principi sulla causalita’ omissiva.
L’applicazione dell’articolo 2043 c.c., in luogo di quella di cui all’articolo 2052 c.c., quest’ultimo ritenuto invocabile nelle ipotesi in cui ricorre non tanto la proprieta’ (tant’e’ che in essa incorre anche il semplice utente) quanto il potere/dovere di custodia, ossia la concreta possibilita’ di vigilanza e controllo del comportamento degli animali (Cass. 25/11/2005, n. 24895), impone, infatti, che la responsabilita’ dell’ente si affermi solo previa individuazione del concreto comportamento colposo ad esso ascrivibile e cioe’ che gli siano imputabili condotte, a seconda dei casi, genericamente o specificamente colpose che abbiano reso possibile il verificarsi dell’evento dannoso.
Entro questo perimetro va verificato il tipo di comportamento esigibile volta per volta e in concreto dall’ente preposto dalla legge al controllo e alla gestione del fenomeno del randagismo, si’ da dedurne la eventuale responsabilita’ sulla base dello scarto tra la condotta concreta e la condotta esigibile, quest’ultima individuata secondo i criteri della prevedibilita’ e della evitabilita’ e della mancata adozione di tutte le precauzioni idonee a mantenere entro l’alea normale il rischio connaturato al fenomeno del randagismo.
Premessa la prevedibilita’ dell’attraversamento della strada da parte di un animale randagio, essendo esso un evento puramente naturale, la esistenza di un obbligo in capo all’ente che ne e’ gravato di impedirne il verificarsi avrebbe dovuto essere valutata secondo criteri di ragionevole esigibilita’, tenendo conto che per imputare a titolo di colpa un evento dannoso non basta che esso sia prevedibile, ma occorre anche che esso sia evitabile in quel determinato momento ed in quella particolare situazione con uno sforzo proporzionato alle capacita’ dell’agente.
Ebbene, pur considerando che nel caso di specie veniva chiesto alla P.A. di esercitare un controllo sugli animali randagi e, quindi, pur potendosi in astratto imputare alla stessa una colpa per l’evento dannoso occorso, quel che il giudice di merito non ha accertato – e dovra’ accertare in sede di rinvio – e’ se, tenuto conto di tutte le circostanze del caso concreto, come allegate e provate dall’attore in responsabilita’, esso fosse anche evitabile con uno sforzo ragionevole (tanto piu’ tenuto conto che, secondo quanto esposto in sentenza, l’impatto tra il Fiat Ducato della Confraternita di Misericordia ed il cane randagio avvenne fuori dal centro abitato: strada che da Mendicino conduce a Cerisano, nei pressi di Contrada Tivolille).
In tale corretta prospettiva, occorrerebbe dunque -esemplificando – che sia acquisita prova dell’esistenza di precedenti segnalazioni della presenza abituale di animali randagi nel luogo dell’incidente, lontano dalle vie cittadine, ma rientrante nel territorio di competenza dell’ente preposto, ovvero che vi fossero state nella zona richieste d’intervento dei servizi di cattura e di ricovero, demandati alla ASL e al Comune, rimaste inevase.
“Tanto nell’ottica – come e’ stato efficacemente rimarcato – che, se bastasse, per invocarne la responsabilita’, l’individuazione dell’ente preposto alla cattura dei randagi ed alta custodia degli stessi, la fattispecie cesserebbe di essere regolata dall’articolo 2043 c.c. e finirebbe per essere del tutto disancorata dalla colpa, rendendo la responsabilita’ dell’ente una responsabilita’ sottoposta a principi analoghi se non addirittura piu’ rigorosi di quelli previsti per le ipotesi di responsabilita’ oggettiva da custodia di cui agli articoli 2051, 2052 e 2053 c.c.”.
7. In accoglimento dunque del terzo motivo di ricorso, la sentenza deve essere pertanto cassata, con rinvio al giudice a quo, anche per il regolamento delle spese del presente giudizio di legittimita’.

P.Q.M.

accoglie il terzo motivo di ricorso; rigetta i primi due; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto; rinvia alla Corte d’appello di Catanzaro in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimita’.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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