Palazzo-Spada

Consiglio di Stato

sezione V

sentenza 30 dicembre 2015, n. 5863

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale

(Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 8645 del 2014, proposto dalla s.r.l. Ir. in liquidazione, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Pietro Grippaudo e Alessandro Tomassetti, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Pietro Grippaudo in (omissis);

contro

Roma Capitale (già Comune di Roma), in persona del sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Andrea Magnanelli, domiciliato in (omissis);

nei confronti di

Fallimento It. s.r.l. e Mi. s.r.l., non costituite;

per la riforma

della sentenza del T.a.r. per il Lazio – Roma – Sezione II, n. 3815 dell’8 aprile 2014.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio di Roma Capitale;

Viste le memorie difensive depositate da Roma Capitale (in data 6 e 18 novembre 2015) e dalla società appellante (in data 6 novembre 2015);

Vista la documentazione depositata dalla ricorrente in data 28 ottobre 2015;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 10 dicembre 2015 il consigliere Vito Poli e uditi per le parti gli avvocati Grippaudo e Magnanelli;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 FATTO e DIRITTO

1. L’oggetto del presente giudizio è costituito dalla determinazione dirigenziale del Comune di Roma – n. 61 dell’11 gennaio 2002 – recante l’esclusione della società Ir. s.r.l. (in prosieguo ditta Ir.) dal protocollo di intesa (approvato con delibera giuntale n. 2149 del 10 dicembre 1999), per l’erogazione di incentivi finalizzati all’acquisto di ciclomotori elettrici (protocollo cui la medesima società ha aderito in data 19 settembre 2000), nonché l’ingiunzione a restituire la complessiva somma di euro 1.085.882,65 indebitamente percepita a titolo di contributi.

1.1. Il provvedimento in contestazione è stato basato sulle seguenti circostanze di fatto acclarate all’esito di una istruttoria che ha rilevato:

a) la incongruità fra il prezzo di listino dichiarato (in relazione al quale ragguagliare il contributo), i costi di produzione e commercializzazione, il valore di mercato del ciclomotore elettrico Ec.Wa.;

b) la inidoneità tecnica del ciclomotore offerto dalla ditta Ir. a conseguire in maniera adeguata gli obbiettivi di sicurezza e qualità dell’ambiente e della circolazione stradale prefissati dall’amministrazione;

c) la mancata realizzazione da parte della ditta Ir., all’interno del c.d. anello ferroviario del comune di Roma, delle 22 stazioni per la ricarica elettrica richieste dal protocollo all’atto dell’adesione al medesimo.

Avverso il su menzionato provvedimento, la ditta Ir. ha proposto il ricorso n. 2970 del 2002 davanti al T.a.r. per il Lazio, articolando i seguenti sette autonomi motivi:

a) con il primo motivo (pagine 14 – 20 del ricorso di primo grado), è stata contestata: l’infondatezza delle ragioni che hanno spinto l’Amministrazione ad avviare una verifica dell’andamento delle vendite, nonché delle caratteristiche del ciclomotore elettrico; il giudizio di incongruità formulato dall’ente sulla base della perizia commissionata all’Università degli studi di Roma “La Sapienza” – Dipartimento di meccanica e aeronautica; la mancanza di disponibilità dei 22 punti di ricarica richiesti dal protocollo;

b) con il secondo motivo (pagine 20 – 37 del ricorso di primo grado), è stata lamentata: l’incompetenza dei professionisti che hanno redatto la perizia posta a base del provvedimento impugnato; la presenza di innumerevoli errori tecnici che affliggerebbero la perizia medesima (si contestano in particolare tutti i giudizi di inidoneità, anche ambientale, del ciclomotore, specie alla luce delle omologazioni rilasciate dal Ministero dei trasporti); la violazione degli scopi realmente perseguiti dall’amministrazione e la loro sostanziale individuazione da parte dei periti nominati dall’Università; la sottovalutazione del conseguimento degli obbiettivi di incremento oggettivo della “tecnologia elettrica” e della soddisfazione espressa dai circa mille acquirenti del mezzo in questione; l’erroneità delle stime, dei prezzi e dei costi, elaborate dall’ente; l’erroneità e l’improprietà dei raffronti eseguiti con altri ciclomotori e biciclette elettriche (omologate ovvero prive di omologazione); la sottovalutazione della diminuzione dell’inquinamento acustico; la mancata percezione degli straordinari requisiti qualitativi del ciclomotore Ec.Wa., apprezzati invece dal Corpo dei VV.UU.;

c) con il terzo motivo (pagine 37 – 38 del ricorso di primo grado), è stata censurata la mancata comunicazione dell’avvio del procedimento, in relazione alla mancata realizzazione dei 22 punti di rifornimento elettrico richiesti dal protocollo;

d) con il quarto motivo (pagine 38 – 39 del ricorso di primo grado), è stata lamentata la violazione dell’obbligo di preventiva comunicazione della richiesta di restituzione della somma asseritamente percepita in modo indebito;

e) con il quinto motivo (pagine 39 – 40 del ricorso di primo grado), è stata lamentata la violazione della mancata concessione di una congrua dilazione di pagamento, col risultato di mettere in crisi lo stato patrimoniale dell’azienda;

f) con il sesto motivo (pagine 40 – 41 del ricorso di primo grado), è stata criticata la mancata valutazione, da parte dell’amministrazione, della documentazione depositata in sede istruttoria, con la conseguente violazione dell’art. 10, l. n. 241 del 1990;

g) con il settimo motivo, infine (pagine 41 – 52 del ricorso di primo grado), è stata dedotta, sotto plurimi profili, l’illegittimità della relazione allegata (sub lett. B) al provvedimento impugnato, perché recante numerosi errori ed incongruità, specie avuto riguardo al fatto che tale relazione, a sua volta, ha recepito i contenuti (erronei) del provvedimento di sospensione della ditta Ir. dalla ulteriore erogazione di contributi, a suo tempo disposto dal Comune di Roma (in data 17 luglio 2001).

L’impugnata sentenza – T.a.r. per il Lazio – Roma – Sezione II, n. 3815 dell’8 aprile 2014 – ha respinto il ricorso, compensando fra le parti le spese di lite.

Con ricorso ritualmente notificato e depositato – rispettivamente in data 3 e 28 ottobre 2014 – la ditta Ir. ha interposto appello avverso la su menzionata sentenza, reiterando criticamente le censure di primo grado e sollevando articolate doglianze.

Si è costituita in sede di appello l’intimata Amministrazione, eccependo l’infondatezza del gravame in fatto e diritto.

La causa è stata trattenuta in decisione all’udienza pubblica del 10 dicembre 2015.

L’appello è sia inammissibile che infondato e deve essere respinto nella sua globalità.

7.1. L’appello è inammissibile nella parte in cui amplia il thema decidendum del giudizio che, anche in appello, è circoscritto necessariamente (ex art. 104 c.p.a.) dalle censure articolate in primo grado che, per ragioni di comodità espositiva, si prendono in esame direttamente (cfr. da ultimo Cons. St., Sez. V, n. 673 del 2015; Sez. V, n. 5253 del 2014); del pari inammissibile è il richiamo a doglianze nuove contenute nelle memorie difensive (in violazione della natura meramente illustrativa di queste ultime), e per giunta avuto riguardo a documenti prodotti in grado di appello e successivi alla data di emanazione del provvedimento impugnato, in relazione alla quale data si deve compiere in via esclusiva lo scrutinio di legittimità fra provvedimento e situazioni di fatto e diritto rilevanti (cfr. da ultimo Cons. Stato, Ad. plen. n. 8 del 2012).

7.2. Scendendo all’esame del ricorso di primo grado – le cui censure intimamente connesse possono essere scrutinate congiuntamente – il Collegio osserva che lo stesso è insuscettibile di favorevole esame, alla stregua delle seguenti considerazioni in fatto e diritto, nonché dei principi elaborati dalla giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. fra le tante Cons. Stato, Sez. V, n. 4929 del 2014; n. 1936 del 2014; n. 854 del 2014; Sez. V, n. 6196 del 2013; Sez. V, n. 5772 del 2012; Sez. IV, n. 3516 del 2009; Sez. VI, n. 4053 del 2006, cui si rinvia ai sensi degli artt. 74 e 88, co. 2, lett. d), c.p.a.):

a) in tema di partecipazione degli interessati al procedimento amministrativo, le previsioni contenute nell’art. 7, l. n. 241 del 1990, non possono essere interpretate ed applicate secondo una logica formale e meramente strumentale, bensì coerentemente con la loro finalità sostanziale, finalizzata all’emanazione di un provvedimento “giusto” e cioè conforme ai principi costituzionali di cui all’art. 97 Cost., così che alla loro violazione (o omissione) non consegue necessariamente l’illegittimità del provvedimento emanato quando il suo contenuto non sarebbe stato diverso, anche con la partecipazione degli interessati, ovvero anche quando questi ultimi non provino ovvero non forniscano elementi, ancorché indiziari, ma certi, precisi ed univoci che quella violazione o omissione non ha consentito la completa emersione degli interessi privati in conflitto ed il conseguente corretto, adeguato e completo accertamento del substrato materiale (e giuridico) su cui avrebbe inciso con i propri effetti il provvedimento amministrativo; sotto tale angolazione non si richiede che dal provvedimento stesso risultino formalmente esaminate le memorie e i documenti depositati nel corso del procedimento, ma che una tale valutazione sia stata sostanzialmente compiuta; sicché non è configurabile la violazione dell’art. 10, l. n. 241 cit., solo perché i documenti consegnati dal privato non sono stati esplicitamente menzionati nel provvedimento impugnato;

b) l’interesse pubblico alla revoca dell’illegittimo finanziamento prevale sull’eventuale affidamento ingenerato nel beneficiario, sicché l’annullamento in autotutela dell’illegittima ammissione al finanziamento assume natura sostanzialmente doverosa sotto il profilo delle responsabilità e della legittima gestione delle risorse pubbliche: non rileva nella specie, infatti, solo la validazione della spesa da parte dell’Amministrazione, ma anche la necessità stessa di ripristinare la legalità violata che ha originato una indebita (anche potenziale) erogazione di benefici economici comunque a danno delle finanze pubbliche;

c) la mancata comunicazione dell’avvio del procedimento amministrativo, avente per oggetto l’emanazione dell’atto vincolato di recupero di somme erroneamente corrisposte dall’amministrazione, non costituisce, pertanto, causa di illegittimità dell’atto stesso, ferma restando la possibilità per l’interessato di contestare errori di conteggio e la sussistenza dell’indebito, nonché di chiedere, nel termine di prescrizione, la restituzione di quanto trattenuto o richiesto; ciò rende superfluo l’accertamento relativo all’espletamento del suddetto obbligo di comunicazione, la cui mancanza non influisce sulla debenza o meno delle somme né sulla possibilità di difesa del destinatario;

d) sono inammissibili tutte le censure con cui la ditta ricorrente, in buona sostanza, sollecita il giudice amministrativo, al di fuori dei tassativi casi di giurisdizione di merito (oggi indicati dall’art. 134 c.p.a.), a sostituire le proprie valutazioni a quelle tecnico-discrezionali riservate all’amministrazione (cfr. da ultimo Cons. Stato, Ad. plen., n. 5 del 2015);

e) dall’esame di tutta la documentazione versata nel fascicolo di primo grado emerge che:

I) la ditta Ir. ha partecipato attivamente al procedimento amministrativo, culminato nell’adozione dell’atto impugnato, nel corso del quale ha potuto contro dedurre anche con riferimento alla mancata disponibilità, all’interno dell’anello ferroviario, dei 22 punti di rifornimento elettrico al momento della adesione al protocollo (cfr. relazione del Capo del Dipartimento VII del Comune di Roma in data 26 marzo 2002, da cui risulta che anche successivamente all’adesione al protocollo, pur essendo stato incrementato il numero dei punti di rifornimento, in ogni caso non è stato raggiunto il limite minimo richiesto dal protocollo medesimo);

II) la perizia affidata dal Comune di Roma all’Università La Sapienza è stata in concreto espletata da tre gruppi di esperti muniti tutti di elevata capacità scientifica e professionale (che del resto è stata solo genericamente contestata dalla ricorrente);

III) tutte le incongruità economiche e commerciali poste a base dell’impugnato provvedimento hanno trovato puntuale conferma;

IV) parimenti risultano assodate le mende di carattere tecnico, avuto riguardo al compendio degli obbiettivi avuti di mira dall’Amministrazione;

V) è irrilevante la ragione contingente o l’occasione remota che ha indotto l’amministrazione ad avviare un serio programma di verifica degli andamenti delle vendite del mezzo offerto dalla ditta Ir. nonché degli standard prestazionali, essendo decisivo l’esito di tali accertamenti, tutti compiuti nel rispetto sostanziale delle garanzie partecipative assicurate dalla l. n. 241 del 1990; del resto la stessa Procura della Repubblica di Roma, nella richiesta di archiviazione poi accolta dal G.I.P., ha evidenziato la doverosità dei controlli del Comune in ordine alla congruità dei prezzi di listino in relazione alle caratteristiche tecniche del ciclomotore, stigmatizzandone, semmai, l’intempestività rispetto alla messa in vendita del veicolo conseguita all’adesione al protocollo (cfr. la documentazione depositata in questo grado di giudizio in data 28 ottobre 2015).

In conclusione l’appello deve essere respinto.

Le spese del secondo grado di giudizio, regolamentate secondo l’ordinario criterio della soccombenza, sono liquidate in dispositivo tenuto conto dei parametri stabiliti dal regolamento 10 marzo 2014, n. 55 e dall’art. 26, co.1, c.p.a.

Il Collegio rileva che il rigetto dell’appello si fonda, come dianzi illustrato, su ragioni manifeste che integrano i presupposti applicativi delle norme sancite dall’art. 26, co. 1 e 2, c.p.a. secondo l’interpretazione che ne è stata data dalla giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. da ultimo Sez. V, n. 5459 del 2015; n. 5758 del 2014; Sez. V, 11 giugno 2013, n. 3210; Sez. V, 26 marzo 2012, n. 1733; Sez. V, 31 maggio 2011, n. 3252, cui si rinvia ai sensi degli artt. 74 e 88, co. 2, lett. d), c.p.a. anche in ordine alle modalità applicative ed alla determinazione della pena pecuniaria – ex art. 26, co. 2, c.p.a.); le conclusioni cui è pervenuta la giurisprudenza del Consiglio di Stato sul punto in esame sono state, nella sostanza, recepite dalla novella recata dal d.l. n. 90 del 2014 all’art. 26 c.p.a. Invero:

a) l’art. 26, co. 2, c.p.a. prevedeva (e prevede) che il giudice condannasse d’ufficio la parte soccombente al pagamento di una sanzione pecuniaria, in misura non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso, quando la parte soccombente aveva agito o resistito temerariamente in giudizio;

b) il d.l. n. 90 del 2014 ha inciso sia sull’art. 26, co. 1, c.p.a., in termini generali, valevoli per tutti i riti davanti al giudice amministrativo, sia sull’art. 26, comma 2, c.p.a., in termini specifici, valevoli solo per il rito appalti;

c) nell’art. 26, co. 2 c.p.a. si detta una ulteriore regola (inapplicabile nella specie) sulla sanzione pecuniaria per lite temeraria nel caso di contenzioso sui pubblici appalti soggetto al rito dell’art. 120 c.p.a.; infatti l’importo della sanzione pecuniaria (che come visto va dal doppio al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo) può essere elevato fino all’uno per cento del valore del contratto, ove il valore del contratto sia superiore al quintuplo del contributo unificato.

La presente decisione rileva, infine, anche agli effetti di cui all’art. 2, co. 2-quinquies, lett. a) ed f), l. n. 89 del 2001, in quanto l’originario ricorso si è rilevato manifestamente infondato.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sul ricorso (nrg. 8645/2014), come in epigrafe proposto:

a) respinge l’appello e, per l’effetto, conferma l’impugnata sentenza;

b) condanna la società Ir. s.r.l. in liquidazione a rifondere in favore di Roma Capitale le spese e gli onorari del presente grado di giudizio che liquida in complessivi euro 5.000,00 (cinquemila/00), oltre accessori di legge (I.V.A., C.P.A. e 15% a titolo di rimborso di spese generali);

c) pone definitivamente a carico dell’appellante il contributo unificato relativo ad entrambi i gradi di giudizio;

d) condanna l’appellante al pagamento della somma di euro 1.000,00 (mille/00) ai sensi dell’art. 26, co. 2, c.p.a., che è tenuta a versare secondo le modalità di cui all’art. 15 delle norme di attuazione del c.p.a., mandando alla Segreteria per i conseguenti adempimenti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

 

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 dicembre 2015 con l’intervento dei magistrati:

Luigi Maruotti – Presidente

Vito Poli – Consigliere Estensore

Carlo Saltelli – Consigliere

Paolo Giovanni Nicolò Lotti – Consigliere

Nicola Gaviano – Consigliere

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA Il 30/12/2015

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