Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 7 agosto 2017, n. 3917

A fronte di una pronuncia di segno negativo che si fondi su una pluralità di ragioni ostative, ciascuna delle quali risulterebbe di per sé idonea a supportarla, l’impugnativa svolta in sede giurisdizionale avverso tale decisione non può trovare accoglimento se anche uno solo dei motivi di doglianza resista alle censure mosse

 

Consiglio di Stato

sezione V

sentenza 7 agosto 2017, n. 3917

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale

Sezione Quinta

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 7995 del 2015, proposto da:

Al Mo. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Ma. La., Vi. La. e Cr. Della Va., con domicilio eletto presso lo studio Cr. Della Va. in Roma, via (…)

contro

Comune di Como, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Ma. An. Ma., Ch. Pi., Ma. Ce. e An. Ma., con domicilio eletto presso lo studio An. Ma. in Roma, via (…)

per la riforma della sentenza del T.A.R. della Lombardia, Sezione I, n. 442/2015

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio di Comune di Como;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 25 maggio 2017 il Cons. Claudio Contessa e uditi per le parti gli avvocati Ma. e La.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue

FATTO

Con ricorso proposto dinanzi al Tribunale amministrativo della Lombardia e recante il n. 484/2013, la Società Al Mo. s.r.l. (d’ora in poi: “Al Mo. srl”) chiedeva che il Comune di Como, ai sensi dell’articolo 30 Cod. proc. amm., fosse condannato al risarcimento del danno per l’inadempimento degli obblighi assunti dallo stesso alla stregua della concessione-contratto stipulata con l’odierna appellante in data 25 giugno 2004, nonché per la responsabilità per fatto illecito ai sensi dell’art. 2043 c.c. connessa al difficoltoso utilizzo dell’area in concessione causato dai lavori di realizzazione delle ‘paratie del lungolagò, protrattisi longe et ultra.

Con la sentenza impugnata, emessa in forma semplificata ai sensi degli articoli 60 e art. 74 Cod. proc. amm., il Tribunale amministrativo adito esaminava in via preliminare l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dal Comune di Como, respingendola, in virtù del fatto che la controversia concerneva una concessione di bene pubblico, ai sensi dell’art. 133, comma 1 lett. b), Cod. proc. amm. e, dunque, rientrava nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Nel merito il primo giudice respingeva il ricorso fondando la decisione sul combinato disposto degli articoli 1 e 7 della concessione/contratto, i quali chiarivano che Al Mo. s.r.l., concessionaria dell’attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, fosse edotta del fatto che parte dell’area concessa sarebbe stata interessata da aree di cantiere (circa 320,64 mq.) ovvero dal transito da e verso il pontile della navigazione pubblica.

La concessione stabiliva, poi, che il Comune avrebbe addirittura potuto revocare la concessione qualora l’avesse ritenuto necessario per esigenze di interesse pubblico.

Infine, il primo giudice rilevava che la ricorrente, pur essendosi lamentata dell’incessante protrarsi dei lavori e delle relative conseguenze che avrebbero comportato, non avrebbe comunque fornito elementi oggettivi dai quali potesse ragionevolmente desumersi il superamento della soglia di ordinaria tollerabilità.

Avverso la predetta statuizione Al Mo. s.r.l. propone, deducendone l’erroneità e domandandone la riforma.

L’appello si compone di tre articolati motivi così rubricati:

1) Carenza di motivazione. Violazione dell’art. 3 c.p.a. e dell’art. 111 Cost. Violazione e/o errata interpretazione dell’art. 1 della concessione-contratto del 25 giugno 2004. Travisamento dei presupposti di fatto e di diritto;

2) Ancora carenza di motivazione. Incidentalmente nullità degli artt. 1418 e 1421 c.c. in relazione alla clausola n. 1 della concessione-contratto del 25 giugno 2004;

3) Violazione degli artt. 1 e 2 c.p.a. e dell’art. 64 c.p.a.

Si è costituito in giudizio il Comune di Como, resistente in primo grado, il quale ha concluso nel senso della reiezione dell’appello.

All’udienza pubblica del 25 maggio del 2017 la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

1. Giunge alla decisione del Collegio il ricorso in appello proposto dalla Al Mo. s.r.l., titolare di una concessione di suolo pubblico per l’esercizio di un’attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande (la quale aveva stipulato una concessione/contratto con il Comune di Como il 25 giugno 2004 per la durata di sette anni per svolgere la suddetta attività presso la zona adiacente al lago) avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale della Lombardia con cui è stato respinto il suo ricorso proposto per la condanna del Comune al risarcimento del danno per l’inadempimento degli obblighi assunti in base alla concessione/contratto e per responsabilità extracontrattuale ai sensi dell’art. 2043 Cod. civ..

2. Come si è anticipato, la società Al Mo. esercita, in virtù della concessione del 25 giugno 2004, l’attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande nei pressi della stazione “Como lago” delle Ferrovie Nord.

A seguito della comunicazione di avvio del procedimento, notificata alla stessa in data 1 ottobre 2007, gli interventi in questione (noti come “Paratie di Como”, per la difesa dalle esondazioni del lago) venivano concretamente avviati dall’impresa Sa. S.p.a. nel gennaio 2008.

3. L’appello è infondato per le seguenti ragioni.

3.1 Con il primo motivo di gravame Al Mo. s.r.l. lamenta la violazione degli artt. 3 c.p.a. e 111 Cost. nonché l’errata interpretazione dell’articolo 1 della concessione/contratto stipulata tra la società e il Comune di Como.

L’appellante ritiene che la sentenza abbia erroneamente interpretato l’articolo 1 della concessione, avendo stabilito che: “la concessionaria [era] edotta del fatto che, a seguito della realizzazione delle opere di difesa dalle esondazioni del lago (paratie mobili), porzioni dell’area esterna di 320,64 mq. sarebbero state interessate da area di cantiere ovvero dal transito da e verso il pontile della navigazione pubblica”.

Secondo l’appellante (la quale non nega di essere stata edotta circa la prossimità dei lavori) la richiamata previsione dell’atto concessionale si limitava ad operare un generico riferimento a “futuri lavori”, senz’altro aggiungere circa l’esecuzione degli stessi o la loro possibile conclusione.

Inoltre, la clausola doveva essere correttamente intesa nel senso di aver prefigurato (quale effetto atteso dell’avvio dei lavori) una riduzione dell’area in concessione, ma non anche un significativo peggioramento delle relative condizioni di utilizzo, come quello in concreto verificatosi.

Ad ogni modo, il solo fatto che l’appellante fosse stata avvertita dell’apertura dell’area di cantiere, di per sé sola, non sarebbe idonea ad elidere il suo diritto al ristoro del danno patito in conseguenza della limitata disponibilità dell’area, in quanto allegata e provata.

3.2 Il motivo è infondato.

3.2.1 Il Collegio condivide la valutazione dell’appellata sentenza. Non risulta condivisibile la tesi dell’odierna appellante, la quale considera generico il disposto di cui all’art. 1 della concessione e inidoneo ad elidere la pretesa risarcitoria.

Al contrario, la richiamata disposizione stabiliva in modo puntuale che porzioni dell’area esterna di mq. 320,64 sarebbero state interessate da area di cantiere ovvero dal transito da e verso il pontile della navigazione pubblica.

In conseguenza di ciò, alla concessionaria sarebbe legittimamente spettata la proporzionale riduzione dei canoni, senza diritto a risarcimento alcuno.

Una corretta interpretazione della clausola de qua induce però a confermare quanto deciso in primo grado, non potendosi affermare che la disposizione si collegasse a una ipotetica riduzione della superficie oggetto della concessione.

Infatti la richiamata clausola non si limitava ad anticipare una possibile riduzione delle aree in concessione, ma rendeva – al contrario – l’appellante edotta circa il fatto che l’apertura del cantiere avrebbe potuto incidere in modo significativo sulle concrete condizioni di utilizzo dell’area (come è poi in concreto avvenuto).

3.3 Nel consegue che l’appellante, al momento della stipula della concessione, aveva appreso ed accettato la possibilità che l’area divenisse di lì a poco oggetto di lavori per finalità di pubblico interesse, ben potendo – quindi – la stessa appellante prevedere il rischio che la sua attività potesse subire limitazioni o disagi.

Né può essere condivisa la tesi dell’appellante secondo cui l’entità e le modalità delle lavorazioni e delle limitazioni in concreto arrecate alla sua attività (anche in relazione alla visuale disponibile verso il lago) avrebbero superato quanto sarebbe stato lecito attendersi sulla base del tenore letterale della più volte richiamata clausola dell’atto concessorio.

La tesi non può essere condivisa, in quanto la convenzione richiamava in modo espresso la tipologia delle lavorazioni (“realizzazione delle opere di difesa dalle esondazioni del lago (paratie mobili)”), dalla cui menzione l’appellante avrebbe ben potuto dedurre la tipologia e l’entità delle lavorazioni che avrebbero interessato l’area.

L’appellante aveva in definitiva accettato un rischio che le era stato correttamente rappresentato con un adeguato grado di approssimazione e in modo certamente non decettivo. Il che depone di per sé nel senso di escludere la sussistenza nel caso di specie l’ingiustizia del danno lamentato dall’appellante (in primis, in termini di negativi risultati di esercizio).

In effetti, la tipologia degli eventi in concreto verificatisi (e dei quali l’appellante lamenta le negative ricadute nella sua sfera giuridica) era stata ben rappresentata e consapevolmente accettata nel momento determinativo del complesso di rapporti sottesi alla stipula della convenzione.

3.3.1. Non può quindi essere condivisa la tesi dell’appellante secondo cui sarebbe ravvisabile “[un] grave inadempimento del Comune e [una] conclamata responsabilità nella causazione del danno” (ricorso in appello, pag. 12).

3.4. Allo stesso modo non può essere condivisa la tesi dell’appellante volta a configurare il nocumento di cui si chiede il ristoro come ‘danno da disturbò (in tal senso la pag. 29 dell’atto di appello).

Osta infatti in radice a tale prospettazione l’assenza, nel caso in esame, del carattere di antigiuridicità connesso all’operato dell’amministrazione.

3.5. Ancora, non può ritenersi che il Comune abbia colpevolmente aggravato gli effetti della situazione di fatto determinata dall’avvio del cantiere, risultando – al contrario – che i suoi rappresentanti si siano attivati al fine di mitigare – nei limiti del possibile – le conseguenze dannose sulla sfera di attività dell’appellante.

Sul punto ci si soffermerà nel prosieguo, ma giova sin d’ora evidenziare che tale circostanza depone nel senso dell’insussistenza anche dell’elemento soggettivo della colpa (sia pure, intesa come “colpa di apparato”, secondo un diffuso orientamento giurisprudenziale).

3.6. Vi è poi un ulteriore novero di circostanze che depone per l’infondatezza della domanda risarcitoria e deriva dall’incerta (e in parte contraddittoria) prospettazione dell’arco temporale durante il quale si sarebbero protratte le richiamate limitazioni e della non del tutto chiara descrizione dei relativi caratteri fattuali.

Si tratta di circostanze che incidono (in modo preclusivo) sia sull’an del danno risarcibile (rendendone in concreto incerti i contorni) sia sul relativo quantum (non consentendo di individuare l’eventuale nesso eziologico fra i fatti addebitati al Comune – non del tutto chiari nella loro portata temporale – e il pregiudizio patrimoniale lamentato dall’appellante).

Fra le circostanze a tal fine rilevanti (ma non congruenti) si richiameranno le seguenti:

– il fatto che l’appellante lamenti addirittura il ritardo nell’avvio dei lavori (che avrebbero dovuto avere inizio nel marzo del 2009 e sarebbero invece iniziati nell’aprile dell’anno successivo). E’ di tutta evidenza che tale ritardo non solo non ha danneggiato l’appellante, ma le ha consentito per quasi un anno ancora di fruire della più favorevole situazione esistente in assenza del cantiere;

– il fatto che l’appellante (la quale, pure, enfatizza le conseguenze negative connesse all’apertura del cantiere) riferisce che la – parziale – riduzione dell’impedimento visivo sarebbe stata ottenuta solo nell’aprile del 2011, mentre il Comune ha documentatamente provato che già nel corso del 2010 la palizzata era stata rimossa in prossimità del chiosco dell’appellante, in tal modo rimuovendo il lamentato impedimento visivo.

Le circostanze appena richiamate non solo non consentono di comprendere nella sua oggettiva consistenza il fatto storico che sarebbe foriero del lamentato pregiudizio, ma neppure consentono di valutare il relativo nesso eziologico e privano di attendibilità le deduzioni dell’appellante in ordine al quantum del pregiudizio (il quale viene fatto meccanicamente – ma non persuasivamente – coincidere con le perdite di esercizio subite nel periodo 2010-2011, senza che siano forniti sul punto ulteriori elementi di convincimento).

4. Le ragioni esposte risultano ex se idonee ad indurre la conferma della pronuncia reiettiva di primo grado ed esimono questo giudice dall’esame del motivo di appello (pagine 20 e seguenti) con cui con cui si è chiesta la riforma della sentenza di primo grado per la parte in cui la sentenza ha rilevato la mancata allegazione di atti e circostanze idonei ad attestare il superamento della soglia di normale tollerabilità per quanto riguarda le conseguenze dell’apertura del cantiere.

Osta infatti all’accoglimento delle tesi dell’appellante la declinazione processuale del consolidato (e qui condiviso) principio per cui a fronte di una pronuncia di segno negativo che si fondi su una pluralità di ragioni ostative, ciascuna delle quali risulterebbe di per sé idonea a supportarla, l’impugnativa svolta in sede giurisdizionale avverso tale decisione non può trovare accoglimento se anche uno solo dei motivi di doglianza resista alle censure mosse (arg. ex Cons. Stato, 12 giugno 2017, n. 2801).

4.1. Ai limitati fini che qui rilevano si osserva che è persuasiva la statuizione resa in parte qua, anche per il carattere complessivamente incerto delle deduzioni svolte dall’appellante in ordine all’effettiva incidenza temporale delle lamentate limitazioni e alla loro consistenza oggettiva in relazione alle peculiarità dell’attività svolta.

In definitiva, l’appellante non è stata in grado di dimostrare che le lamentate turbative superassero la soglia dell’ordinaria tollerabilità, non avendo in primis soddisfatto all’onere di dimostrare con adeguato grado di certezza il contenuto stesso e la durata effettiva di tali turbative.

5. L’infondatezza dell’appello per le ragioni dinanzi evidenziate esime altresì il Collegio dall’esame puntuale degli argomenti relativi all’anomalo sviluppo dell’appalto per cui è causa (argomenti da ultimo trasfusi in una recente relazione dell’ANAC).

Al riguardo ci si limita ad osservare che le censurate anomalie, quand’anche in concreto condivise, non consentirebbero comunque di superare i richiamati profili di infondatezza dell’appello nel suo complesso.

6. Con il secondo motivo di appello la Al Mo. Srl lamenta il mancato accoglimento da parte del primo giudice del motivo con cui si era lamentato che il Comune

– per un verso avesse sottoscritto la concessione/contratto (la quale prevedeva che, in caso di riduzione della superficie in godimento, si sarebbe potuta ottenere una correlativa riduzione del canone) e

– per altro verso avesse negato, una volta richiesto di operare in tal senso, la giuridica possibilità di operare la riduzione del canone, il cui quantum è fissato in base a precise disposizioni di legge.

Il motivo non può trovare accoglimento per la dirimente ragione che l’appellante non ha tempestivamente impugnato la nota comunale del 6 aprile 2010 con cui si negava la competenza ad accordare l’invocata riduzione.

Pertanto non può essere condivisa la tesi dell’appellante (la quale lamenta l’apposizione nell’ambito della concessione/contratto di una pattuizione “ad oggetto impossibile”), atteso che l’inerzia dalla stessa serbata ha contribuito al radicamento della posizione assunta dal Comune con la richiamata nota del 6 ottobre 2010, senza che ciò concreti una sorta di vizio ‘ex post’della pattuizione intercorsa con il Comune nel giugno del 2004.

7. Per le ragioni esposte l’appello va respinto.

Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale

(Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna l’appellante alla rifusione in favore del Comune delle spese di lite, che liquida in complessivi euro 5.000 (cinquemila), oltre gli accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 25 maggio 2017 con l’intervento dei magistrati:

Giuseppe Severini – Presidente

Claudio Contessa – Consigliere, Estensore

Paolo Giovanni Nicolò Lotti – Consigliere

Fabio Franconiero – Consigliere

Stefano Fantini – Consigliere

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