Le massime

1. L’art. 7, paragrafo 1, della CEDU (ove si stabilisce che «nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale», e che, «parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso»), malgrado il suo tenore letterale (evocativo del solo divieto di applicazione retroattiva della norma penale sfavorevole), sancisce implicitamente – in aggiunta al più generale principio di legalità dei delitti e delle pene (nullum crimen nulla poena sine lege), con i corollari dell’esigenza di determinatezza delle previsioni punitive e del divieto di analogia in malam partem – anche il principio di retroattività della legge penale più mite.

2. La nozione di «diritto» («law»), utilizzata nell’art. 7, paragrafo 1, della CEDU, è comprensiva tanto del diritto di produzione legislativa che del diritto di formazione giurisprudenziale: è quanto vale anche in rapporto agli ordinamenti di civil law, alla luce del rilevante apporto che pure in essi la giurisprudenza fornisce all’individuazione dell’esatta portata e all’evoluzione del diritto penale.

3. Nell’interpretazione offerta dalla Corte di Strasburgo, il principio convenzionale di legalità penale risulta meno comprensivo di quello accolto nella Costituzione italiana allo stesso restando estraneo il principio – di centrale rilevanza, per converso, nell’assetto interno – della riserva di legge, nell’accezione recepita dall’art. 25, co. 2, Cost., secondo cui il potere di normazione in materia penale – in quanto incidente sui diritti fondamentali dell’individuo, e segnatamente sulla libertà personale – spetta alla sola istituzione che costituisce la massima espressione della rappresentanza politica, vale a dire al Parlamento, eletto a suffragio universale dall’intera collettività nazionale, deputato ad esprimere le sue determinazioni all’esito di un procedimento – quello legislativo – che implica un preventivo confronto dialettico tra tutte le forze politiche, incluse quelle di minoranza, e, sia pure indirettamente, con la pubblica opinione.

4. La Corte europea non ha mai sostenuto che, in base all’art. 7, paragrafo 1, della CEDU, un mutamento di giurisprudenza in senso favorevole al reo imponga la rimozione delle sentenze di condanna passate in giudicato contrastanti col nuovo indirizzo (principio che – se valido – dovrebbe, peraltro, operare non soltanto in rapporto ai mutamenti di giurisprudenza che escludano la rilevanza penale del fatto ma anche a quelli che si limitino a rendere più mite la risposta punitiva, negando, ad esempio, l’applicabilità di circostanze aggravanti o riconducendo il fatto ad un paradigma sanzionatorio meno grave).

5. La Corte europea si si è occupata dei mutamenti giurisprudenziali – oltre che nella generale prospettiva della verifica dei requisiti di «accessibilità» e «prevedibilità» della legge penale, ritenuti insiti nella previsione dell’art. 7, paragrafo 1, della CEDU – solo con riferimento al diverso principio dell’irretroattività della norma sfavorevole, ritenendo, in particolare, contraria alla norma convenzionale l’applicazione a fatti anteriormente commessi di un indirizzo giurisprudenziale estensivo della sfera operativa di una fattispecie criminosa, ove la nuova interpretazione non rappresenti un’evoluzione ragionevolmente prevedibile della giurisprudenza anteriore.

6. Dalle conclusioni raggiunte dalla Corte europea a proposito del principio di irretroattività della norma sfavorevole non è consentito automaticamente ricavarsi l’esigenza “convenzionale” di rimuovere, in nome del principio di retroattività della lex mitior, le decisioni giudiziali definitive non sintoniche con il sopravvenuto mutamento giurisprudenziale in bonam partem avendo i due principi diverso fondamento. L’irretroattività della norma penale sfavorevole rappresenta uno strumento di garanzia del cittadino contro persecuzioni arbitrarie, espressivo dell’esigenza di «calcolabilità» delle conseguenze giuridico-penali della propria condotta, quale condizione necessaria per la libera autodeterminazione individuale: esigenza con la quale contrasta un successivo mutamento peggiorativo “a sorpresa” del trattamento penale della fattispecie. Nessun collegamento con la predetta libertà ha, per converso, il principio di retroattività della norma più favorevole, in quanto la lex mitior sopravviene alla commissione del fatto, cui l’autore si era liberamente e consapevolmente autodeterminato in base al panorama normativo (e giurisprudenziale) dell’epoca: trovando detto principio fondamento piuttosto in quello di eguaglianza, che richiede, in linea di massima, di estendere la modifica mitigatrice della legge penale, espressiva di un mutato apprezzamento del disvalore del fatto, anche a coloro che hanno posto in essere la condotta in un momento anteriore.

7. La Corte di Strasburgo non soltanto non ha inequivocamente escluso la possibilità che, in presenza di particolari situazioni, il principio di retroattività favorevole subisca delle deroghe, ma ha posto, anzi, un espresso limite alla sua operatività, sostenendo che lo stesso si traduce nella norma per cui, se la legge penale in vigore al momento della perpetrazione del reato e le leggi penali posteriori “adottate prima della pronuncia definitiva” sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli. Facendo riferimento alle (sole) «leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia definitiva», la Corte europea ha escluso che il principio in questione sia destinato ad operare oltre il limite del giudicato, diversamente da quanto prevede, nel nostro ordinamento, l’art. 2, commi 2 e 3, c.p.

CORTE COSTITUZIONALE

SENTENZA 12 ottobre 2012, n.230 

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 673 del codice di procedura penale, promosso dal Tribunale di Torino nel procedimento di esecuzione nei confronti di D.M. con ordinanza depositata il 21 luglio 2011, iscritta al n. 3 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell’anno 2012.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 23 maggio 2012 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.

Ritenuto in fatto

 

1.– Con ordinanza depositata il 21 luglio 2011, il Tribunale di Torino, in composizione monocratica, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 673 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede l’ipotesi di revoca della sentenza di condanna (o di decreto penale di condanna o di sentenza di applicazione della pena su concorde richiesta delle parti) in caso di mutamento giurisprudenziale – intervenuto con decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione – in base al quale il fatto giudicato non è previsto dalla legge penale come reato», deducendo la violazione degli articoli 3, 13, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, nonché dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 5, 6 e 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (d’ora in avanti: «CEDU»).

Il rimettente è chiamato a provvedere, quale giudice dell’esecuzione, sull’istanza del pubblico ministero di revoca parziale, ai sensi dell’art. 673 cod. proc. pen., della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, emessa il 9 luglio 2010 dal Tribunale di Torino nei confronti di una persona nata in Mali e divenuta irrevocabile il 9 marzo 2011, a seguito della dichiarazione di inammissibilità del ricorso per cassazione proposto contro di essa dall’imputato. L’istanza di revoca è limitata al solo capo di imputazione concernente la contravvenzione di omessa esibizione dei documenti di identificazione e di soggiorno, prevista dall’art. 6, comma 3, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero).

Il giudice a quo osserva come, a seguito della modifica di detta disposizione ad opera della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), sia sorta questione in ordine alla perdurante applicabilità o meno della fattispecie agli stranieri irregolarmente presenti nel territorio dello Stato (non provvisti, in quanto tali, del permesso di soggiorno): interrogativo al quale la Corte di cassazione, nelle sue prime decisioni, adottate da sezioni singole, ha risposto in senso affermativo. Con la sentenza 24 febbraio 2011-27 aprile 2011, n. 16453, le Sezioni unite hanno accolto, tuttavia, la soluzione opposta, ritenendo – sulla base di un ampio iter argomentativo – che il precetto penale si indirizzi attualmente ai soli stranieri regolarmente soggiornanti: con la conseguenza che la novella legislativa del 2009 avrebbe comportato una parziale abolitio criminis,abrogando la fattispecie criminosa preesistente nella parte in cui si prestava a colpire anche gli stranieri in posizione irregolare. In tal modo, le Sezioni unite della Corte di cassazione avrebbero quindi determinato «un significativo révirement giurisprudenziale».

Il giudice a quo rileva, tuttavia, come il caso sottoposto al suo esame non risulti «perfettamente riconducibile al fenomeno dell’abolitio criminis». Il fatto giudicato con la sentenza della cui revoca si discute è stato, infatti, commesso in data successiva a quella di entrata in vigore della legge n. 94 del 2009 (segnatamente, l’11 giugno 2010) e, dunque, in un momento nel quale la norma incriminatrice di cui all’art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 risultava già formulata nei termini attuali. Non si sarebbe, pertanto, di fronte ad un fenomeno di successione nel tempo di leggi (intese come «fonti formali»), ma ad una successione nel tempo di diverse interpretazioni giurisprudenziali della medesima «fonte formale»: in altri termini, il pubblico ministero avrebbe sollecitato la revoca parziale della sentenza a fronte di una abolitio criminis conseguente, non già ad un intervento legislativo, ma ad un mutamento di giurisprudenza.

L’art. 673 cod. proc. pen. non prende, tuttavia, in considerazione tale fattispecie, prevedendo la revoca della sentenza di condanna passata in giudicato nei soli casi di abrogazione e di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice; né, d’altra parte, sarebbe possibile estendere in via analogica la disposizione censurata all’ipotesi in questione, a causa della natura eccezionale dei poteri di intervento in executivis sulla pronuncia del giudice della cognizione. La giurisprudenza di legittimità risulta, del resto, ferma nel negare che l’art. 673 cod. proc. pen. possa trovare applicazione in presenza di un mutamento giurisprudenziale che escluda la rilevanza penale di fatti analoghi a quello già giudicato, non costituendo detto mutamento uno «ius superveniens», neppure ove consegua a una pronuncia delle Sezioni unite della Corte di cassazione.

Il giudice a quo dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale di tale «approdo», evidenziando come, con riferimento tanto al cosiddetto «giudicato esecutivo» (correlato alla preclusione prevista dall’art. 666, comma 2, cod. proc. pen.), quanto al cosiddetto «giudicato cautelare» (istituto elaborato in via giurisprudenziale), la Corte di cassazione – dopo aver affermato principi analoghi a quelli enunciati in relazione alla norma censurata – abbia recentemente modificato il proprio orientamento, riconoscendo la rilevanza dei sopravvenuti mutamenti giurisprudenziali al fine del superamento delle preclusioni processuali connesse agli anzidetti istituti.

Gli argomenti addotti a sostegno di tale diverso indirizzo – legati, per un verso, al necessario rispetto dei principi di eguaglianza e di retroattività dei trattamenti punitivi più favorevoli, «anche in un’ottica europea», e, per altro verso, alla funzione nomofilattica esercitata dalle Sezioni unite – non potrebbero non valere anche con riguardo alla revoca delle sentenze passate in giudicato, a fronte di un sopravvenuto mutamento di giurisprudenza con il quale si affermi che un determinato fatto non è previsto dalla legge come reato.

In questa prospettiva, il giudice a quo reputa che la norma censurata violi, anzitutto, l’art. 117, primo comma, Cost., ponendosi in contrasto sia con l’art. 7 che con gli artt. 5 e 6 della CEDU.

Premesso che – per giurisprudenza costituzionale ormai costante – le norme della CEDU, nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, integrano, quali «norme interposte», il parametro costituzionale evocato, nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, il rimettente reputa pienamente conferenti, agli odierni fini, le considerazioni svolte dalle Sezioni unite della Corte di cassazione nella sentenza 21 gennaio 2010-13 maggio 2010, n. 18288, a proposito del cosiddetto «giudicato esecutivo».

Si rileva in questa sentenza che l’art. 7 della CEDU, pur enunciando formalmente il solo divieto di applicazione retroattiva della norma penale a svantaggio dell’imputato, è stato interpretato dalla Corte europea come espressivo del più generale principio di legalità in materia penale, nelle sue diverse manifestazioni (determinatezza della fattispecie incriminatrice, divieto di analogia in malam partem).La portata della norma convenzionale è stata estesa, altresì, sino a comprendervi il principio – implicito – di retroattività della legge penale meno severa (Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, sentenza 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia): principio che, d’altra parte – per reiterata affermazione della Corte di giustizia dell’Unione europea – trova riconoscimento anche nel diritto dell’Unione, in quanto appartenente alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri.

Al tempo stesso, la Corte di Strasburgo ha costantemente inteso il principio di legalità in materia penale come riferibile non soltanto al diritto di produzione legislativa, ma anche a quello di derivazione giurisprudenziale, riconoscendo al giudice un ruolo fondamentale nell’individuazione dell’esatta portata della norma penale. Tale lettura “allargata” del concetto di «legalità penale», se pure pungolata dall’esigenza di tenere conto delle particolari caratteristiche degli ordinamenti di common law, è stata ritenuta, comunque, valevole anche negli ordinamenti di civil law. In recenti pronunce concernenti proprio l’ordinamento italiano, la Corte europea ha, infatti, rimarcato come, in ragione del carattere generale delle leggi, il loro testo non possa presentare una precisione assoluta e debba servirsi di formule più o meno vaghe, la cui applicazione dipende dalla pratica, con la conseguenza che «in qualsiasi ordinamento giuridico, per quanto chiaro possa essere il testo di una disposizione di legge, anche in materia penale, esiste inevitabilmente un elemento di interpretazione giudiziaria»: essendo, del resto, «solidamente stabilito nella tradizione giuridica degli Stati parte della Convenzione che la giurisprudenza […] contribuisce necessariamente all’evoluzione progressiva del diritto penale» (Corte europea dei diritti dell’uomo, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, e 8 dicembre 2009, Previti contro Italia).

Su tale premessa la Corte di Strasburgo ha ravvisato, quindi, la violazione del diritto alla libertà e alla sicurezza, tutelato dall’art. 5 della CEDU, nel caso di tardiva liberazione di un detenuto, al quale solo con notevole ritardo era stato concesso l’indulto, a causa di dubbi interpretativi circa la sua applicabilità (sentenza 10 luglio 2003, Grava contro Italia); nonché la violazione del diritto all’equo processo, sancito dall’art. 6 della CEDU, nel caso di divergenze profonde e persistenti nella giurisprudenza della Corte di cassazione sull’interpretazione di una determinata disposizione legislativa, senza alcuna previsione di strumenti idonei a rimediare alle eventuali ricadute negative (sentenza 2 luglio 2009, Iordan Iordanov contro Bulgaria).

Particolarmente significative, in ordine alla rilevanza da attribuire al cosiddetto «diritto giurisprudenziale», risulterebbero, altresì, le pronunce della Corte di giustizia che hanno ritenuto applicabile il principio di irretroattività anche alla nuova interpretazione in senso sfavorevole di una norma sanzionatoria, ove detta interpretazione non risultasse ragionevolmente prevedibile nel momento della commissione dell’infrazione (Corte di giustizia, sentenza 8 febbraio 2007, ricorso C-3/06 P, Groupe Danone contro Commissione).

In questo quadro, ove non si considerasse l’ipotesi del mutamento giurisprudenziale alla luce dell’art. 7 della CEDU, si rischierebbe, da un lato, «di depotenziare la portata di quella norma (e la sua funzione garantista)» e, dall’altro, di porre il nostro ordinamento in contrasto anche con i principi ricavabili dagli artt. 5 e 6 della CEDU.

Tale conclusione si imporrebbe non soltanto in rapporto ai mutamenti giurisprudenziali sfavorevoli agli imputati – riguardo ai quali viene in rilievo il valore della «prevedibilità» dell’esito interpretativo – ma anche in relazione ai mutamenti giurisprudenziali favorevoli, che chiamerebbero in gioco il principio di retroattività del trattamento penale più mite. Negando ogni rilievo a tali mutamenti, l’art. 673 cod. proc. pen. violerebbe, dunque, l’art. 7 della CEDU e, con esso, l’art. 117, primo comma, Cost.: in tal modo, infatti, una persona potrebbe essere privata della libertà (o esposta ad una ulteriore privazione di essa) in relazione ad un fatto che, reputato in origine penalmente illecito, non è più considerato tale, successivamente alla condanna definitiva, dalla giurisprudenza «che si consolida nel diritto vivente».

L’auspicato intervento della Corte costituzionale, volto a rendere compatibile l’art. 673 cod. proc. pen. con l’art. 7 della CEDU, si porrebbe, d’altra parte, «in linea di assoluta coerenza» con altri principi costituzionali, che l’attuale formulazione della norma denunciata rischierebbe parimenti di ledere.

Lo stesso legislatore ordinario assegna, in effetti, un «ruolo di preminenza» alla giurisprudenza di legittimità, in funzione di orientamento della giurisprudenza successiva, oltre che dei comportamenti dei consociati. L’art. 65 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario) individua, infatti, nella Corte di cassazione «l’organo supremo della giustizia», incaricato di «assicura[re] l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale». Plurime norme processuali – in particolare, quelle degli artt. 610, comma 2, e 618, comma 1, cod. proc. pen. e dell’art. 172 disp. att. cod. proc. pen. – attribuiscono, poi, una «posizione di particolare preminenza» alle Sezioni unite della Corte di cassazione, cui vengono assegnati i ricorsi quando le questioni trattate sono di speciale importanza o quando occorre dirimere contrasti insorti tra le decisioni delle singole sezioni.

Anche la giurisprudenza costituzionale riconoscerebbe un «decisivo rilievo» al «diritto vivente», specie se «cristallizzato» a seguito di interventi delle Sezioni unite, al punto da reputare inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate da ordinanze che lo trascurino.

La funzione nomofilattica attribuita dall’ordinamento alla Corte di cassazione – e alle Sezioni unite in particolare – riposerebbe, d’altra parte, su esigenze di rilievo costituzionale, quali quelle di assicurare l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge (art. 3 Cost.) e di consentire ai consociati di prevedere le conseguenze giuridiche dei propri atti, così da poter operare consapevoli scelte di azione (artt. 25 e 27 Cost.).

Dovendosi, dunque, presupporre che le decisioni successive si conformino «tendenzialmente» al «diritto vivente», la scelta legislativa di continuare a punire – non revocando la sentenza di condanna – chi abbia tenuto un comportamento che, secondo il «diritto vivente sopravvenuto», originato da una decisione delle Sezioni unite, non è più previsto dalla legge come reato, si paleserebbe manifestamente irragionevole. Essa verrebbe a ledere tanto il principio «di (tendenziale) retroattività della normativa penale più favorevole», desumibile dagli artt. 3 e 25, secondo comma, Cost.; quanto il principio di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), originando il rischio che persone che hanno commesso il medesimo fatto vengano trattate in modo diverso per evenienze puramente casuali e, comunque, non riconducibili a loro scelte (quale il semplice ordine di trattazione dei processi).

La soluzione legislativa censurata violerebbe, altresì, l’art. 13 Cost., venendo a privilegiare «ragioni di tutela dell’ordinamento» – in specie, quelle di certezza del diritto e di tendenziale stabilità delle decisioni – rispetto a «precise esigenze di libertà della persona».

Nell’ipotesi di cui si discute, inoltre, l’esecuzione della pena non svolgerebbe più alcuna funzione né sul piano della retribuzione o della prevenzione (sia essa generale o speciale) – non essendovi alcuna ragione perché tali funzioni si esplichino in rapporto a un comportamento che, secondo il diritto vivente sopravvenuto, non costituisce reato – né sul piano della rieducazione del condannato, in quanto il fatto commesso, alla luce del nuovo assetto giurisprudenziale che ne esclude la rilevanza penale, non richiederebbe più alcuna attività rieducativa. Di qui, dunque, la violazione anche dell’art. 27, terzo comma, Cost.

Non gioverebbe, d’altra parte, obiettare che l’accoglimento della questione – attribuendo un ruolo «para-normativo» alle pronunce della Corte di cassazione – rischierebbe di «ingessare» la giurisprudenza e di inibire, così, la funzione evolutiva che essa storicamente ha sempre avuto nel nostro ordinamento, «imponendo una deviazione della nostra tradizione giuridica di civil law [verso] quella propria degli ordinamenti di common law».

L’obiezione non sarebbe in effetti persuasiva, specie ove si tenga conto dei limiti dell’intervento richiesto (volto a valorizzare, non qualsiasi mutamento giurisprudenziale, ma solo quelli conseguenti a pronunce delle Sezioni unite e che affermino l’irrilevanza penale di un certo fatto), nonché dei valori che vengono in rilievo (il favor rei, in una prospettiva di tutela della libertà personale). In ogni caso, anche in esito alla pronuncia invocata, resterebbero possibili ulteriori mutamenti della giurisprudenza, anche in senso sfavorevole all’imputato (in particolare, nel senso di ritenere riconducibile ad una determinata ipotesi di reato un fatto già considerato ad essa estraneo). Un simile mutamento di giurisprudenza varrebbe, tuttavia, solo per il processo nel quale la questione controversa è stata discussa e assumerebbe un valore orientativo delle successive decisioni solo a partire dalla data di pubblicazione della sentenza che lo esprime.

La questione sarebbe, da ultimo, rilevante nel giudizio a quo, giacché, nel caso di suo accoglimento, diverrebbe possibile esaminare la richiesta del pubblico ministero – che altrimenti andrebbe respinta – e rideterminare eventualmente la pena inflitta al condannato.

2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione venga dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza o, in subordine, manifestamente infondata.

Ad avviso della difesa dello Stato, la questione sarebbe priva di rilevanza, giacché, nel caso sottoposto all’esame del giudice a quo, si sarebbe in presenza di una abolitio criminis legislativa, conseguente alla modifica dell’art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 attuata dall’art. 1, comma 22, lettera h), della legge n. 94 del 2009. Il giudice rimettente potrebbe, pertanto, pronunciarsi sulla richiesta a lui rivolta applicando direttamente l’art. 673 cod. proc. pen., senza alcuna necessità di sollevare una questione di legittimità costituzionale relativa alla mancata inclusione dei mutamenti giurisprudenziali tra le ipotesi prese in considerazione da detta norma.

Nel merito, la questione sarebbe comunque priva di fondamento.

L’art. 673 cod. proc. pen. prevede la revoca della sentenza di condanna (o del decreto penale di condanna) allorché la norma incriminatrice sia stata abrogata o dichiarata incostituzionale in epoca successiva al passaggio in giudicato. La disposizione richiederebbe presupposti rigorosi perché significative sono le conseguenze che scaturiscono dalla sua applicazione: il provvedimento di revoca comporta, infatti, la cessazione dell’esecuzione della sentenza e dei suoi effetti penali. Affinché un risultato di tale spessore possa prodursi sarebbe necessaria la sopravvenienza di un fatto modificativo «radicale», che non solo incida sulla norma che ha fondato il giudizio di condanna, ma che presenti, altresì – come nei casi attualmente previsti dalla disposizione censurata – i caratteri della generalità e della intrinseca e tendenziale stabilità, nell’assicurare l’irrilevanza penale di una determinata condotta. Il precedente giurisprudenziale, per converso, fa stato solo nel procedimento penale cui si riferisce e non è ulteriormente vincolante, potendo essere contraddetto da una decisione successiva, emessa da qualsiasi giudice della Repubblica.

Né sarebbe possibile pervenire a conclusioni difformi con riguardo alle pronunce delle Sezioni unite della Corte di cassazione. Malgrado l’indubbio «prestigio» di cui godono tali pronunce, i principi di diritto da esse affermati restano suscettibili di modifica e di evoluzione, anche su impulso delle sezioni singole. Riconoscere una «così straordinaria vis espansiva» alla pronuncia di legittimità, sia pure delle Sezioni unite, non si concilierebbe col criterio di ragionevolezza e produrrebbe, altresì, un effetto di «ingessamento» della giurisprudenza, a torto sottovalutato dal rimettente.

Una diversa soluzione non si giustificherebbe neppure sulla base delle decisioni della Corte di Strasburgo relative all’art. 7 della CEDU, cui fa riferimento il giudice a quo, trattandosi di pronunce che, pur valorizzando l’interpretazione giurisprudenziale, la relegherebbero comunque «ad un ruolo eventuale e sub-legislativo, nel senso che deve essere comunque la lettura del precetto a segnare il confine tra ciò che è lecito e ciò che è sanzionato penalmente». In ogni caso, un eventuale diverso indirizzo della Corte europea dei diritti dell’uomo non potrebbe mai legittimare interventi contrastanti con l’art. 25 della nostra Costituzione, che, richiamando sempre e soltanto la legge formale, non consentirebbe soluzioni del genere di quella auspicata dal rimettente. L’unica eccezione sarebbe rappresentata dalle sentenze della Corte di giustizia che, interpretando in maniera autoritativa il diritto dell’Unione europea con effetto diretto per gli Stati membri e le relative giurisdizioni, incidano sul sistema normativo impedendo la configurabilità del reato. Solo in questo caso l’effetto risulterebbe paragonabile a quello della legge sopravvenuta.

Esclusa, con ciò, la fondatezza della denuncia di violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., alla medesima conclusione dovrebbe pervenirsi anche in rapporto agli altri parametri costituzionali evocati dal giudice a quo.

Quanto all’art. 3 Cost., nessuna lesione del principio di eguaglianza potrebbe scorgersi in presenza di un mutamento – sempre reversibile – degli orientamenti giurisprudenziali.

Con riguardo all’art. 13 Cost., le «precise esigenze di libertà della persona», richiamate nell’ordinanza di rimessione, costituirebbero «un concetto vago e fumoso, difficilmente conciliabile con i profili esclusivamente tecnici della questione».

In ordine, poi, all’art. 25, secondo comma, Cost., non pertinente sarebbe il richiamo del giudice a quo al «principio di (tendenziale) retroattività della normativa penale più favorevole», trattandosi di principio non costituzionalizzato, diversamente da quello che vieta la condanna in forza di una legge entrata in vigore successivamente alla commissione del fatto. Ciò, fermo restando che entrambi i principi si riferiscono comunque alla legge, e non già all’interpretazione che di essa venga data dai giudici.

Da ultimo, non sarebbe neppure configurabile una lesione dell’art. 27, terzo comma, Cost. La finalità rieducativa della pena andrebbe, infatti, sempre riconosciuta a fronte di condotte che mantengano la loro rilevanza penale, almeno fino a quando tale rilevanza non venga esclusa da una legge abrogatrice o da una pronuncia della Corte costituzionale.

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale di Torino dubita della legittimità costituzionale dell’articolo 673 del codice di procedura penale, nella parte in cui non include, tra le ipotesi di revoca della sentenza di condanna (nonché del decreto penale e della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti), anche il «mutamento giurisprudenziale», determinato da una decisione delle Sezioni unite della Corte di cassazione, in base al quale il fatto giudicato non è previsto dalla legge come reato.

Ad avviso del giudice a quo, la norma censurata violerebbe, per questo verso, l’art. 117, primo comma, della Costituzione, ponendosi in contrasto con l’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti: «CEDU»): disposizione che – secondo l’interpretazione datane dalla Corte europea dei diritti dell’uomo – da un lato, sancisce implicitamente anche il principio di retroattività dei trattamenti penali più favorevoli e, dall’altro, ingloba nel concetto di «legalità» in materia penale non solo il diritto di produzione legislativa, ma anche quello di derivazione giurisprudenziale; con conseguente possibile lesione anche degli artt. 5 e 6 della CEDU, che tutelano, rispettivamente, il diritto alla libertà e alla sicurezza e il diritto all’equo processo.

La norma denunciata violerebbe, altresì, l’art. 3 Cost. A fronte dell’esplicita valorizzazione, da parte dello stesso legislatore ordinario, della funzione nomofilattica della Corte di cassazione (art. 65 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, recante l’«Ordinamento giudiziario») e particolarmente di quella svolta dalle Sezioni unite di detta Corte (artt. 610, comma 1, e 618, comma 1, cod. proc. pen.; art. 172 disp. att. cod. proc. pen.), la scelta di continuare a punire l’autore di un fatto che, secondo il «diritto vivente sopravvenuto», ricostruito con decisione resa dalle Sezioni unite, non è più previsto dalla legge come reato, risulterebbe manifestamente irragionevole e lesiva del principio di eguaglianza. In tal modo, persone che hanno commesso fatti identici rischierebbero di essere trattate in modo radicalmente differenziato per evenienze puramente casuali, quale il semplice ordine di trattazione dei processi.

La soluzione normativa censurata si porrebbe, altresì, in contrasto «con il principio di (tendenziale) retroattività della normativa penale più favorevole», desumibile dagli artt. 3 e 25, secondo comma, Cost., e violerebbe anche l’art. 13 Cost., privilegiando ragioni di «tutela dell’ordinamento» – quali quelle di certezza del diritto e di stabilità delle decisioni – rispetto a «precise esigenze di libertà della persona».

Risulterebbe leso, infine, l’art. 27, terzo comma, Cost., giacché, nell’ipotesi considerata, l’esecuzione della pena rimarrebbe priva di scopo: né la funzione retributiva, né quella di prevenzione generale o speciale, né, ancora, la rieducazione del condannato avrebbero, infatti, alcuna ragion d’essere a fronte della commissione di un fatto che, alla luce dell’assetto giurisprudenziale sopravvenuto, deve considerarsi privo di rilevanza penale.

2.– Va preliminarmente rilevato come il problema esegetico, sorto nel procedimento in cui si è proposto il quesito di costituzionalità, attenga all’individuazione dei confini soggettivi di operatività della contravvenzione di omessa esibizione di documenti, prevista dall’art. 6, comma 3, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero).

Nel vigore del testo originario della norma, le Sezioni unite della Corte di cassazione – componendo il contrasto di giurisprudenza insorto sul punto – avevano ritenuto che del reato potessero rispondere anche gli stranieri illegalmente presenti nel territorio dello Stato. La disposizione puniva, infatti, con le pene congiunte dell’arresto e dell’ammenda gli stranieri che, «senza giustificato motivo», non esibissero, a richiesta degli ufficiali e degli agenti di pubblica sicurezza, due categorie di documenti, in via alternativa fra loro: il passaporto o altro documento di identificazione, «ovvero» il permesso o la carta di soggiorno. La circostanza che, alla luce di tale dettato normativo, l’esibizione di uno qualsiasi dei documenti in questione fosse sufficiente ad escludere il reato, dimostrava – secondo le Sezioni unite – come l’incriminazione mirasse unicamente a permettere la sicura identificazione dello straniero, e non anche a verificarne la regolare presenza nel territorio dello Stato: prospettiva nella quale la fattispecie appariva riferibile anche al soggiornante irregolare, cui non era preclusa la possibilità – ancorché non in possesso, per detta qualità, del permesso o della carta di soggiorno – di esibire il passaporto o altro documento di identificazione (Cass., sez. un., 29 ottobre 2003-27 novembre 2003, n. 45801).

La riscrittura della norma incriminatrice, successivamente operata dalla legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), ha generato, peraltro, immediati dubbi in ordine alla perdurante validità della conclusione ora ricordata: problema che la Corte di cassazione, con alcune decisioni delle sezioni singole (e, in particolare, della prima Sezione), ha inizialmente risolto in senso affermativo, sul presupposto che le modifiche apportate alla descrizione della condotta incriminata fossero di carattere «meramente formale» (Cass., sez. I, 30 settembre 2010-18 ottobre 2010, n. 37060; Cass., sez. I, 20 gennaio 2010-16 febbraio 2010, n. 6343; Cass., sez. I, 23 settembre 2009-18 novembre 2009, n. 44157).

Di contrario avviso si sono mostrate, tuttavia, le Sezioni unite, alle quali la prima Sezione, con ordinanza dell’11 novembre 2010, ha rimesso la relativa questione di diritto «al fine di prevenire un contrasto giurisprudenziale con precedenti pronunce della stessa sezione». Le Sezioni unite hanno, infatti, osservato come, nella nuova descrizione della fattispecie (ora costruita in chiave di inottemperanza ad un ordine), l’avvenuta sostituzione della disgiuntiva «ovvero» con la congiunzione «e», relativamente alle due categorie di documenti da esibire, renda palese che, al fine di adempiere il precetto, è necessaria l’esibizione congiunta tanto dei documenti di identificazione che del titolo di soggiorno: donde un mutamento della ratio della norma, non più legata all’identificazione dello straniero, ma alla verifica della sua legittima presenza nel territorio nazionale. Ricostruita in tali termini, la figura criminosa non sarebbe più applicabile al soggiornante irregolare, il quale, proprio per tale sua condizione, non può essere in possesso del permesso di soggiorno: conclusione a sostegno della quale militerebbero, altresì, argomenti di ordine sistematico, correlati alle ulteriori modifiche al testo unico in materia di immigrazione introdotte dalla stessa legge n. 94 del 2009. La novella legislativa del 2009 avrebbe, di conseguenza, comportato l’abolizione, ai sensi dell’art. 2, secondo comma, del codice penale, della fattispecie criminosa preesistente, per la parte in cui si indirizzava agli stranieri in posizione irregolare (Cass., sez. un., 24 febbraio 2011-27 aprile 2011, n. 16453).

3.– Ciò premesso, l’eccezione di inammissibilità della questione per difetto di rilevanza – sollevata dall’Avvocatura dello Stato sul rilievo che nella specie si sarebbe di fronte ad una abolitio criminis dipendente da successione di leggi nel tempo, già rientrante nell’ambito di operatività dell’art. 673 cod. proc. pen. (l’avvenuta modifica dell’art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 ad opera della legge n. 94 del 2009) – non è fondata.

Il giudice a quo è chiamato, in effetti, a pronunciarsi sull’istanza di revoca parziale di una sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, formulata dal pubblico ministero sulla base del principio affermato dalle Sezioni unite nella citata sentenza n. 16453 del 2011. Come si sottolinea, peraltro, nell’ordinanza di rimessione, il fatto giudicato con la sentenza della cui revoca si discute è stato commesso in data successiva a quella di entrata in vigore della legge n. 94 del 2009 e, dunque, in un momento nel quale la norma incriminatrice di cui all’art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 risultava già formulata nei termini attuali: il che esclude che la successione tra il vecchio e il nuovo testo di detta norma possa venire in considerazione, come fenomeno atto a rendere operante il precetto dell’art. 2, secondo comma, cod. pen., al quale la disposizione processuale dell’art. 673 cod. proc. pen. è, per questo verso, correlata («nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore» – s’intende, alla commissione di tale fatto – «non costituisce reato e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali»). Il problema dirimente, nella prospettiva del giudice a quo, è unicamente quello del modo in cui la norma incriminatrice già vigente al momento della realizzazione del fatto, e tuttora in vigore, debba essere interpretata: se, cioè, essa si rivolga o meno anche agli stranieri illegalmente soggiornanti, a prescindere da quale fosse il regime operante anteriormente alla novella del 2009.

Ne consegue che non può ritenersi implausibile l’assunto sulla cui base il giudice a quo reputa rilevante la questione sollevata: ossia che la richiesta di revoca sottoposta al suo vaglio si basa sulla successione nel tempo, non già di leggi, ma di diverse interpretazioni giurisprudenziali della medesima norma di legge (l’esegesi più lata, quanto ai soggetti attivi, del novellato art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, inizialmente adottata dalle sezioni singole della Corte di cassazione – cui risulta allineata la sentenza revocanda – e quella di segno restrittivo, in seguito accolta dalle Sezioni unite).

4.– Neppure può ravvisarsi una ragione di inammissibilità della questione nel fatto che il giudice a quo non si sia premurato di verificare se – una volta esclusa l’applicabilità del vigente art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 agli stranieri irregolarmente soggiornanti – l’inottemperanza da parte di tali soggetti all’ordine di esibizione dei documenti di identificazione, anziché restare priva di rilievo penale, possa eventualmente integrare altra fattispecie criminosa più generale, tuttora presente nell’ordinamento: in specie, quella risultante dalla disposizione combinata dell’art. 294 del regio decreto 6 maggio 1940, n. 635 (Approvazione del regolamento per l’esecuzione del testo unico 18 giugno 1931, n. 773 delle leggi di pubblica sicurezza) – secondo cui «la carta d’identità od i titoli equipollenti devono essere esibiti ad ogni richiesta degli ufficiali e degli agenti di pubblica sicurezza» – e dell’art. 221 del r.d. 18 giugno 1931, n. 773 (Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza), che punisce la violazione del predetto precetto con le pene alternative dell’arresto o dell’ammenda. Ove tale ipotesi risultasse valida, verrebbe, in effetti, meno il presupposto di operatività dell’art. 673 cod. proc. pen., essendosi al cospetto, non di una abolitio criminis, ma di una cosiddetta abrogatio sine abolitione, rientrante nel paradigma della semplice successione di leggi modificatrici, in ordine alla quale l’applicazione retroattiva della lex mitior (quale sarebbe la fattispecie prevista dalla legislazione in materia di pubblica sicurezza dianzi ricordata) incontra, in base all’art. 2, quarto comma, cod. pen., il limite del giudicato.

Al riguardo, è peraltro assorbente la considerazione che, con la questione sollevata, il giudice a quo chiede di estendere il meccanismo di revoca disciplinato dall’art. 673 cod. proc. pen. al mutamento di giurisprudenza conseguente a una decisione delle Sezioni unite della Corte di cassazione, la quale affermi che il fatto già giudicato non è previsto dalla legge come reato: e ciò – come meglio si chiarirà più avanti – senza possibili margini di scostamento del giudice dell’esecuzione dalla soluzione interpretativa adottata dall’organo della nomofilachia.

Nella specie, la citata sentenza delle Sezioni unite n. 16543 del 2011 – pur senza affrontare il problema dianzi evidenziato – ha comunque affermato, in termini inequivoci, che in rapporto all’omessa esibizione dei documenti da parte dello straniero illegalmente soggiornante è intervenuta un’abolitio criminis: il che, stante la formulazione del petitum, basta, dunque, a rendere rilevante la questione sollevata.

5.– Corretto – e comunque rispondente alla corrente lettura della norma censurata da parte della Corte di cassazione – appare anche il presupposto ermeneutico su cui poggia il quesito di costituzionalità, rappresentato dall’estraneità del fenomeno del «mutamento giurisprudenziale» all’area applicativa dell’istituto della «revoca della sentenza per abolizione del reato», quale attualmente delineato dall’art. 673 cod. proc. pen.

Di riflesso alle norme sostanziali di cui agli artt. 2, secondo comma, cod. pen. e 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), ma con previsione che ne muta la prospettiva d’intervento – facendo incidere la valenza «demolitoria» dell’abolitio criminis direttamente sulla sentenza del giudice della cognizione, anziché sulla sola esecuzione di essa (sentenza n. 96 del 1996) – l’art. 673 cod. proc. pen. stabilisce, infatti, al comma 1, che, nel caso di abrogazione o di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, il giudice dell’esecuzione revoca la sentenza o il decreto penale di condanna (formula che ricomprende, secondo una lettura ormai pacifica, anche la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti), dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adottando i provvedimenti conseguenti. La norma censurata prende, dunque, in considerazione due fenomeni, entrambi riconducibili, in senso ampio, al paradigma dell’«abolizione del reato», richiamato nella rubrica: per effetto dell’intervento del legislatore o in seguito alla declaratoria di illegittimità costituzionale da parte di questa Corte, la fattispecie incriminatrice, in relazione alla quale è stata emessa la pronuncia divenuta irrevocabile, viene, infatti, espunta dall’ordinamento giuridico.

La giurisprudenza di legittimità ha ritenuto estensibile l’istituto anche al caso di sopravvenienza di una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea che affermi l’incompatibilità della norma incriminatrice interna con il diritto dell’Unione avente effetto diretto per gli Stati membri, stante la sostanziale equiparabilità di detta pronuncia – la quale impedisce in via generale ai giudici nazionali di fare applicazione della norma considerata – ad una legge sopravvenuta, con portata abolitrice del reato (nella giurisprudenza di questa Corte, sull’idoneità delle sentenze della Corte di giustizia a costituire ius superveniens, ex plurimis, ordinanze n. 311 del 2011, n. 241 del 2005 e n. 125 del 2004).

La stessa giurisprudenza di legittimità ha, per converso, escluso che possano collocarsi nel perimetro applicativo dell’art. 673 cod. proc. pen. fenomeni attinenti alle semplici dinamiche interpretative della norma incriminatrice, quali il mutamento di giurisprudenza e la risoluzione di contrasti giurisprudenziali, ancorché conseguenti a decisioni delle Sezioni unite della Corte di cassazione. Si è rilevato, infatti, che un orientamento giurisprudenziale, per quanto autorevole, non ha la stessa efficacia delle ipotesi previste dalla norma censurata, stante il difetto di vincolatività della decisione rispetto a quelle dei giudici chiamati ad occuparsi di fattispecie analoghe: circostanza che impedisce di considerare i fenomeni dianzi indicati alla stregua di uno ius novum.

6.– Il giudice a quo reputa, tuttavia, costituzionalmente necessaria una modifica di tale assetto, chiedendo segnatamente a questa Corte di aggiungere al novero dei presupposti di operatività della revoca anche il «mutamento giurisprudenziale – intervenuto con decisione delle Sezioni Unite della Corte di cassazione – in base al quale il fatto giudicato non è previsto dalla legge penale come reato».

7.– Se pure ammissibile per le ragioni dianzi esposte, la questione non è, tuttavia, nel merito, fondata.

La prima e fondamentale censura svolta dal rimettente – quella di violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., per contrasto con l’art. 7 della CEDU, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo – trova il suo presupposto nell’orientamento di questa Corte, costante a partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, in forza del quale le norme della CEDU, nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, specificamente istituita per dare ad esse interpretazione e applicazione, integrano, quali «norme interposte», il parametro costituzionale evocato, nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali (ex plurimis, tra le ultime, sentenze n. 78 del 2012, n. 303, n. 236 e n. 113 del 2011): ciò, peraltro, nei limiti in cui la norma convenzionale, come interpretata dalla Corte europea – la quale si pone pur sempre a livello sub-costituzionale – non venga a trovarsi in conflitto con altre conferenti previsioni della Costituzione italiana (sentenze n. 303, n. 236 e n. 113 del 2011, n. 93 del 2010, n. 317 e n. 311 del 2009), e ferma restando, altresì, la spettanza a questa Corte di un «margine di apprezzamento e di adeguamento», che – nel rispetto della «sostanza» della giurisprudenza di Strasburgo – le consenta comunque di tenere conto delle peculiarità dell’ordinamento in cui l’interpretazione della Corte europea è destinata ad inserirsi (sentenze n. 303 e n. 236 del 2011, n. 311 del 2009).

Nella specie, il rimettente individua la «norma convenzionale interposta» – con la quale la norma interna denunciata si porrebbe in asserito contrasto, non componibile per via d’interpretazione – combinando fra loro due distinte affermazioni della Corte europea, riferite all’art. 7, paragrafo 1, della CEDU (ove si stabilisce che «nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale», e che, «parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso»).

La prima affermazione – espressiva di un mutamento di indirizzo intervenuto solo in tempi recenti nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo – è quella per cui la citata norma convenzionale, malgrado il suo tenore letterale (evocativo del solo divieto di applicazione retroattiva della norma penale sfavorevole), sancisce implicitamente – in aggiunta al più generale principio di legalità dei delitti e delle pene (nullum crimen nulla poena sine lege), con i corollari dell’esigenza di determinatezza delle previsioni punitive e del divieto di analogia in malam partem – anche il principio di retroattività della legge penale più mite (Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia; in senso conforme, sentenze 27 aprile 2010, Morabito contro Italia e 7 giugno 2011, Agrati ed altri contro Italia).

L’altra affermazione – che riflette, per contro, un orientamento della Corte europea da tempo consolidato – è quella in virtù della quale la nozione di «diritto» («law»), utilizzata nella norma della Convenzione, deve considerarsi comprensiva tanto del diritto di produzione legislativa che del diritto di formazione giurisprudenziale. Tale lettura «sostanziale», e non già «formale», del concetto di «legalità penale», se pure stimolata dalla necessità di tenere conto dei diversi sistemi giuridici degli Stati parte – posto che il riferimento alla sola legge di origine parlamentare avrebbe limitato la tutela derivante dalla Convenzione rispetto agli ordinamenti di common law – è stata ritenuta valevole dalla Corte europea anche in rapporto agli ordinamenti di civil law, alla luce del rilevante apporto che pure in essi la giurisprudenza fornisce all’individuazione dell’esatta portata e all’evoluzione del diritto penale (tra le altre, sentenze 8 dicembre 2009, Previti contro Italia; Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia; 20 gennaio 2009, Sud Fondi s.r.l. ed altri contro Italia; Grande Camera, 24 aprile 1990, Kruslin contro Francia).

Proprio tale seconda affermazione dimostra, peraltro, come, nell’interpretazione offerta dalla Corte di Strasburgo, il principio convenzionale di legalità penale risulti meno comprensivo di quello accolto nella Costituzione italiana (e, in generale, negli ordinamenti continentali). Ad esso resta, infatti, estraneo il principio – di centrale rilevanza, per converso, nell’assetto interno – della riserva di legge, nell’accezione recepita dall’art. 25, secondo comma, Cost.; principio che, secondo quanto reiteratamente puntualizzato da questa Corte, demanda il potere di normazione in materia penale – in quanto incidente sui diritti fondamentali dell’individuo, e segnatamente sulla libertà personale – all’istituzione che costituisce la massima espressione della rappresentanza politica: vale a dire al Parlamento, eletto a suffragio universale dall’intera collettività nazionale (sentenze n. 394 del 2006 e n. 487 del 1989), il quale esprime, altresì, le sue determinazioni all’esito di un procedimento – quello legislativo – che implica un preventivo confronto dialettico tra tutte le forze politiche, incluse quelle di minoranza, e, sia pure indirettamente, con la pubblica opinione.

Al di là, peraltro, dall’evidenziato scarto di tutela – che pure preclude una meccanica trasposizione nell’ordinamento interno della postulata equiparazione tra legge scritta e diritto di produzione giurisprudenziale – risulta assorbente, ai presenti fini, la considerazione che la Corte europea non risulta avere mai, fino ad oggi, enunciato il corollario che il giudice a quo vorrebbe far discendere dalla combinazione tra i due asserti dianzi ricordati: e, cioè, che, in base all’art. 7, paragrafo 1, della CEDU, un mutamento di giurisprudenza in senso favorevole al reo imponga la rimozione delle sentenze di condanna passate in giudicato contrastanti col nuovo indirizzo (principio che – se valido – dovrebbe, peraltro, operare non soltanto in rapporto ai mutamenti di giurisprudenza che escludano la rilevanza penale del fatto – come mostra di ritenere il rimettente – ma anche a quelli che si limitino a rendere più mite la risposta punitiva, negando, ad esempio, l’applicabilità di circostanze aggravanti o riconducendo il fatto ad un paradigma sanzionatorio meno grave).

Innanzitutto, la Corte di Strasburgo non ha mai sinora riferito, in modo specifico, il principio di retroattività della lex mitior ai mutamenti di giurisprudenza. I giudici europei si sono occupati di questi ultimi – oltre che nella generale prospettiva della verifica dei requisiti di «accessibilità» e «prevedibilità» della legge penale, ritenuti insiti nella previsione dell’art. 7, paragrafo 1, della CEDU – solo con riferimento al diverso principio dell’irretroattività della norma sfavorevole: ritenendo, in particolare, contraria alla norma convenzionale l’applicazione a fatti anteriormente commessi di un indirizzo giurisprudenziale estensivo della sfera operativa di una fattispecie criminosa, ove la nuova interpretazione non rappresenti un’evoluzione ragionevolmente prevedibile della giurisprudenza anteriore (su tale premessa, per soluzioni opposte nei casi esaminati, Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenze 10 ottobre 2006, Pessino contro Francia e 22 novembre 1995, S.W. contro Regno Unito; nonché, più di recente, sentenza 10 luglio 2012, Del Rio Prada contro Spagna, nei limiti in cui i principi interpretativi siano applicabili al nostro ordinamento).

È, peraltro, da escludere – contrariamente a quanto mostra di ritenere il giudice a quo – che dalle conclusioni raggiunte a proposito del principio di irretroattività della norma sfavorevole possa automaticamente ricavarsi l’esigenza “convenzionale” di rimuovere, in nome del principio di retroattività della lex mitior, le decisioni giudiziali definitive non sintoniche con il sopravvenuto mutamento giurisprudenziale in bonam partem. I due principi hanno, infatti, diverso fondamento. L’irretroattività della norma penale sfavorevole rappresenta uno strumento di garanzia del cittadino contro persecuzioni arbitrarie, espressivo dell’esigenza di «calcolabilità» delle conseguenze giuridico-penali della propria condotta, quale condizione necessaria per la libera autodeterminazione individuale: esigenza con la quale contrasta un successivo mutamento peggiorativo “a sorpresa” del trattamento penale della fattispecie. Nessun collegamento con la predetta libertà ha, per converso, il principio di retroattività della norma più favorevole, in quanto la lex mitior sopravviene alla commissione del fatto, cui l’autore si era liberamente e consapevolmente autodeterminato in base al panorama normativo (e giurisprudenziale) dell’epoca: trovando detto principio fondamento piuttosto in quello di eguaglianza, che richiede, in linea di massima, di estendere la modifica mitigatrice della legge penale, espressiva di un mutato apprezzamento del disvalore del fatto, anche a coloro che hanno posto in essere la condotta in un momento anteriore (sentenza n. 394 del 2006; analogamente sentenze n. 236 del 2011 e n. 215 del 2008).

Con riguardo al carattere non assoluto che, in tale prospettiva, il principio della retroattività in mitius resta suscettibile di assumere, occorre d’altra parte osservare – come già in altra occasione (sentenza n. 236 del 2011) – che la Corte di Strasburgo non soltanto non ha inequivocamente escluso la possibilità che, in presenza di particolari situazioni, il principio in questione subisca delle deroghe, ma ha posto, anzi, un espresso limite alla sua operatività, di segno contrastante rispetto alla ricostruzione prospettata dal giudice a quo. Secondo i giudici europei, infatti, il principio della retroattività della lex mitior, ricavabile dall’art. 7, paragrafo 1, della CEDU, «si traduce nella norma per cui, se la legge penale in vigore al momento della perpetrazione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli» (Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, paragrafo 109). Facendo riferimento alle (sole) «leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia definitiva», la Corte europea ha, dunque, escluso che il principio in questione sia destinato ad operare oltre il limite del giudicato, diversamente da quanto prevede, nel nostro ordinamento, l’art. 2, secondo e terzo comma, cod. pen. (sentenza n. 236 del 2011).

La limitazione ora indicata non potrebbe evidentemente non valere – nella prospettiva del giudice a quo – anche in rapporto ai mutamenti di giurisprudenza. La stessa Corte di Strasburgo ha avuto modo, del resto, di rilevare, in termini generali, come, nel caso di avvenuta composizione di un contrasto di giurisprudenza da parte di un tribunale supremo nazionale, l’esigenza di assicurare la parità di trattamento non possa essere utilmente invocata al fine di travolgere il principio di intangibilità della res iudicata: infatti, «intendere il principio di eguaglianza nell’applicazione della legge nel senso che ciò che risulta dalle decisioni posteriori implica la revisione di tutte le decisioni definitive anteriori che risultino contraddittorie con quelle più recenti sarebbe contrario al principio di sicurezza giuridica» (Corte europea dei diritti dell’uomo, 28 giugno 2007, Perez Arias contro Spagna, sempre nella misura in cui i principi interpretativi siano applicabili al nostro ordinamento).

Indipendentemente, dunque, dalla verifica di compatibilità con il principio della riserva di legge, sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost. – sulla cui esigenza pone l’accento l’Avvocatura dello Stato nelle sue difese – si deve conclusivamente rilevare, ancor prima, che l’ipotetica «norma convenzionale interposta», chiamata a fungere da parametro di verifica della legittimità costituzionale della disposizione denunciata, risulta in realtà priva di attuale riscontro nella giurisprudenza della Corte europea.

8.– Inconferenti rispetto alla fattispecie in esame si palesano, poi, i concorrenti riferimenti agli artt. 5 e 6 della CEDU addotti dal giudice a quo.

Quanto all’asserita lesione dell’art. 5, essa viene prospettata dal rimettente richiamando – alla stregua della sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione 21 gennaio 2010-13 maggio 2010, n. 18288, relativa al cosiddetto «giudicato esecutivo» (ove, peraltro, il richiamo assumeva una diversa valenza) – la pronuncia della Corte di Strasburgo che ha ravvisato la lesione del diritto alla libertà personale e alla sicurezza, tutelato dalla citata norma convenzionale, in una fattispecie di ritardata concessione dell’indulto ad un condannato a causa di dubbi interpretativi circa i termini di operatività del provvedimento di clemenza (Corte europea dei diritti dell’uomo, 10 luglio 2003, Grava contro Italia). Difetta, peraltro – né il rimettente l’ha comunque posta in evidenza – una qualsivoglia analogia tra il caso esaminato dalla Corte europea e quello oggetto del giudizio interno: analogia il cui riscontro rappresenta un presupposto necessario per “importare” il principio affermato in sede europea nell’ambito del controllo di legittimità costituzionale (sentenza n. 239 del 2009).

Con riguardo, poi, all’ipotizzato contrasto con l’art. 6 della CEDU, il giudice a quo richiama l’orientamento della Corte di Strasburgo secondo il quale la presenza di divergenze profonde e persistenti nella giurisprudenza di una corte suprema nazionale circa l’interpretazione di una determinata norma legislativa, non superabili o in fatto non superate tramite il ricorso a meccanismi che permettano di comporre tali contrasti, è suscettibile di tradursi in una violazione del diritto all’equo processo, stante l’ostacolo che ne può derivare ad una efficace difesa in giudizio (in questo senso, oltre alla sentenza 2 luglio 2009, Iordan Iordanov contro Bulgaria, citata dal giudice a quo,sentenze 24 giugno 2009, Tudor Tudor contro Romania e 2 dicembre 2007, Beian contro Romania, di nuovo nella misura in cui i principi interpretativi siano applicabili al nostro ordinamento).

Anche in questo caso, si tratta, peraltro, di fattispecie non comparabile con quella oggetto dell’odierno scrutinio. La revoca della sentenza per abolizione del reato è istituto chiaramente distinto dai meccanismi di composizione dei contrasti di giurisprudenza, che la Corte di Strasburgo ha ritenuto necessari ai fini dell’attuazione della garanzia convenzionale in questione. Nella prospettiva della Corte europea, d’altra parte, il diritto di difesa è suscettibile di essere pregiudicato dai contrasti “sincronici” di giurisprudenza, che rendano incerta la valenza della norma incriminatrice nel momento in cui si svolge il processo, per la compresenza di più linee interpretative tra loro confliggenti: non dai contrasti “diacronici”, quale quello avuto di mira dal rimettente, legati alla successione di un orientamento interpretativo ad un altro, a processo concluso.

9.– Parimenti infondate risultano le censure di violazione del principio di eguaglianza, anche sotto il profilo della ragionevolezza (art. 3 Cost.).

Contrariamente a quanto assume il giudice a quo, non può ritenersi manifestamente irrazionale che il legislatore, per un verso, valorizzi, anche in ossequio ad esigenze di ordine costituzionale, la funzione nomofilattica della Corte di cassazione, e delle Sezioni unite in particolare – postulando, con ciò, che la giurisprudenza successiva si uniformi «tendenzialmente» alle decisioni di queste ultime – e, dall’altro, ometta di prevedere la revoca delle condanne definitive pronunciate in relazione a fatti che, alla stregua di una sopravvenuta diversa decisione dell’organo della nomofilachia, non sono previsti dalla legge come reato, col risultato di consentire trattamenti radicalmente differenziati di autori di fatti analoghi.

L’orientamento espresso dalla decisione delle Sezioni unite “aspira” indubbiamente ad acquisire stabilità e generale seguito: ma – come lo stesso rimettente riconosce – si tratta di connotati solo «tendenziali», in quanto basati su una efficacia non cogente, ma di tipo essenzialmente “persuasivo”. Con la conseguenza che, a differenza della legge abrogativa e della declaratoria di illegittimità costituzionale, la nuova decisione dell’organo della nomofilachia resta potenzialmente suscettibile di essere disattesa in qualunque tempo e da qualunque giudice della Repubblica, sia pure con l’onere di adeguata motivazione; mentre le stesse Sezioni unite possono trovarsi a dover rivedere le loro posizioni, anche su impulso delle sezioni singole, come in più occasioni è in fatto accaduto.

In questa logica si giustifica, dunque, il mancato riconoscimento all’overruling giurisprudenziale favorevole della capacità di travolgere il principio di intangibilità della res iudicata, espressivo dell’esigenza di certezza dei rapporti giuridici esauriti: esigenza il cui fondamentale rilievo – come lo stesso rimettente ricorda – è ampiamente riconosciuto anche nell’ambito dell’Unione europea (Corte di giustizia, sentenze 22 dicembre 2010, C-507/08, Commissione contro Repubblica slovacca; 3 settembre 2009, C-2/08, Fallimento Olimpiclub s.r.l.; 16 marzo 2006, C-234/04, Kapferer). Al fine di porre nel nulla ciò che, di per sé, dovrebbe rimanere intangibile – il giudicato, appunto – il legislatore esige, non irragionevolmente, una vicenda modificativa che determini la caduta della rilevanza penale di una determinata condotta con connotati di generale vincolatività e di intrinseca stabilità (salvo, nel caso di legge abrogatrice, un eventuale nuovo intervento legislativo di segno ripristinatorio): connotati che la vicenda considerata dal giudice a quo, di contro, non possiede.

Né giova alla tesi del rimettente il riferimento alle recenti pronunce della giurisprudenza di legittimità che hanno ritenuto rilevanti i mutamenti di giurisprudenza al fine del superamento del cosiddetto «giudicato esecutivo» e del cosiddetto «giudicato cautelare» (rispettivamente, la già citata sentenza delle Sezioni unite n. 18288 del 2010 – sulla quale il giudice a quo ricalca larga parte delle proprie censure – e la sentenza della seconda Sezione 6 maggio 2010-25 maggio 2010, n. 19716). Dette pronunce non hanno mancato, infatti, di porre adeguatamente in risalto il netto iato che separa i predetti istituti dal giudicato vero e proprio: discutendosi, in quelle ipotesi, di semplici preclusioni processuali inerenti a decisioni rese rebus sic stantibus, volte a prevenire la defatigante reiterazione di istanze con il medesimo oggetto al giudice dell’esecuzione o della cautela, rispetto alle quali si tratta solo di stabilire se il riferimento al mutato orientamento della giurisprudenza possa configurare o meno un nuovo argomento di diritto.

Parimenti non probante è il riferimento del rimettente alla rilevanza che questa Corte attribuisce al cosiddetto «diritto vivente» ai fini dell’individuazione dell’oggetto dello scrutinio di legittimità costituzionale, anche quando si discuta di norme penali. Tale soluzione risponde ad una esigenza di rispetto del ruolo spettante ai giudici comuni – e segnatamente all’organo giudiziario depositario della funzione di nomofilachia – nell’attività interpretativa: in presenza di un indirizzo giurisprudenziale costante o, comunque, ampiamente condiviso – specie se consacrato in una decisione delle Sezioni unite della Corte di cassazione – la Corte costituzionale assume la disposizione censurata nel significato in cui essa attualmente «vive» nell’applicazione giudiziale. Ciò nondimeno, questa Corte ha comunque rimarcato che, pure in presenza di un orientamento giurisprudenziale che abbia acquisito i caratteri del «diritto vivente», il giudice rimettente ha soltanto la facoltà, e non già l’obbligo di uniformarsi ad esso (sentenza n. 91 del 2004).

10.– Lungi, dunque, dal risultare necessario al fine di rimuovere una presunta contraddizione del sistema, sarebbe, viceversa, proprio l’intervento richiesto dal giudice a quo a risultare foriero di aporie, tenuto conto delle caratteristiche dell’istituto che dovrebbe essere attinto dall’auspicata pronuncia additiva di questa Corte.

L’art. 673 cod. proc. pen. attribuisce, infatti, natura obbligatoria all’intervento del giudice dell’esecuzione, in presenza d’una abolitio criminis. Nel caso di accoglimento del petitum, tale tratto di obbligatorietà si comunicherebbe anche all’ipotesi aggiuntiva di revoca prefigurata dal rimettente (com’è, del resto, nella logica delle sue censure): con la conseguenza che il giudice dell’esecuzione sarebbe senz’altro tenuto a rimuovere il giudicato di condanna contrastante col dictum dell’organo della nomofilachia, anche qualora non lo condividesse.

In questo modo, tuttavia, la richiesta pronuncia additiva comporterebbe una vera e propria sovversione “di sistema”, venendo a creare un generale rapporto di gerarchia tra le Sezioni unite e i giudici dell’esecuzione, al di fuori del giudizio di rinvio: con risultati, peraltro, marcatamente disarmonici, stante la estraneità della regola dello stare decisis alle coordinate generali dell’ordinamento. In sede esecutiva, il giudice sarebbe tenuto, infatti, ad uniformarsi alla decisione “favorevole” delle Sezioni unite, revocando il giudicato di condanna. Di contro, il giudice della cognizione, il quale si trovasse a giudicare ex novo un fatto analogo, non avrebbe il medesimo obbligo, e potrebbe quindi disattendere – sia pure sulla base di adeguata motivazione – la soluzione adottata dall’organo della nomofilachia (provocando eventualmente, con ciò, un nuovo mutamento di giurisprudenza). Sarebbe, tuttavia, illogico che il vincolo di adeguamento alle Sezioni unite valga in presenza di un giudicato di segno contrario (magari sorretto da ampie argomentazioni sul punto specifico della rilevanza penale del fatto) e non operi, invece, allorché il giudicato deve ancora formarsi. Né varrebbe obiettare che – nella prospettiva del giudice a quo – stante l’“affidamento” generato nei consociati dalla decisione delle Sezioni unite, il giudice della cognizione che si discosti da quest’ultima non potrebbe comunque condannare l’imputato, in virtù della ipotizzata estensione del principio di irretroattività anche alla nuova interpretazione sfavorevole della norma penale. Tale obiezione potrebbe – in ipotesi – risultare appropriata se il giudizio vertesse su un fatto commesso dopo la decisione delle Sezioni unite: non qualora si tratti di fatto anteriormente realizzato, il cui autore non aveva alcuna ragione per confidare sulla liceità penale della propria condotta, posta in essere quando era imperante un orientamento giurisprudenziale di segno contrario.

11.– Infondata è anche l’ulteriore censura di violazione del «principio di (tendenziale) retroattività della normativa penale più favorevole»: principio che il rimettente reputa desumibile dagli artt. 3 e 25, secondo comma, Cost.

Per costante giurisprudenza di questa Corte, il principio di retroattività della legge penale più favorevole al reo non trova, in realtà, fondamento costituzionale nell’art. 25, secondo comma, Cost. – che si limita a sancire il principio di irretroattività delle norme penali più severe – ma, come già accennato, esclusivamente nel principio di eguaglianza, che impone, in linea di massima, di equiparare il trattamento dei medesimi fatti, in presenza di una mutata valutazione legislativa del loro disvalore, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma che ha disposto l’abolitio criminis o la modifica mitigatrice. Proprio in conseguenza di ciò, il principio in questione non ha, quindi, carattere assoluto, rimanendo suscettibile di deroghe ad opera della legislazione ordinaria, quando ne ricorra una sufficiente ragione giustificativa (ex plurimis, sentenze n. 236 del 2011, n. 215 del 2008, n. 394 e n. 393 del 2006).

A prescindere, peraltro, dalla possibilità che la salvaguardia dell’intangibilità del giudicato rappresenti una adeguata ragione di deroga, secondo quanto reiteratamente ritenuto in passato da questa Corte (sentenze n. 74 del 1980 e n. 6 del 1978; ordinanza n. 330 del 1995), è assorbente la considerazione che il principio in questione attiene – anche in base alla relativa disciplina codicistica (art. 2, secondo, terzo e quarto comma, cod. pen.) – alla sola successione di «leggi». Per poterlo estendere anche ai mutamenti giurisprudenziali bisognerebbe, dunque, poter dimostrare – ed è questa, in effetti, la premessa concettuale del rimettente – che la consecutio tra due contrastanti linee interpretative giurisprudenziali equivalga ad un atto di produzione normativa.

Ad opporsi ad una simile equazione non è, peraltro, solo la considerazione – svolta dalla giurisprudenza di legittimità precedentemente richiamata, in sede di individuazione dei confini applicativi dell’art. 673 cod. proc. pen. – attinente al difetto di vincolatività di un semplice orientamento giurisprudenziale, ancorché avallato da una pronuncia delle Sezioni unite. Vi si oppone anche, e prima ancora – in uno alla già più volte evocata riserva di legge in materia penale, di cui allo stesso art. 25, secondo comma, Cost. – il principio di separazione dei poteri, specificamente riflesso nel precetto (art. 101, secondo comma, Cost.) che vuole il giudice soggetto (soltanto) alla legge.

Né la conclusione perde di validità per il solo fatto che la nuova decisione dell’organo della nomofilachia sia nel segno della configurabilità di una abolitio criminis. Al pari della creazione delle norme, e delle norme penali in specie, anche la loro abrogazione – totale o parziale – non può, infatti, dipendere, nel disegno costituzionale, da regole giurisprudenziali, ma soltanto da un atto di volontà del legislatore (eius est abrogare cuius est condere).

12.– Le residue censure di violazione degli artt. 13 e 27, terzo comma, Cost., sono prive di autonomia.

Esse cadono, del pari, con la premessa concettuale su cui poggiano: ossia la pretesa che la consecutio tra diversi orientamenti giurisprudenziali equivalga ad una operazione creativa di nuovo diritto (oggettivo), così da giustificare il richiesto intervento dilatativo del perimetro di applicazione dell’istituto delineato dall’art. 673 cod. proc. pen.

Siffatta erronea esegesi comporterebbe la consegna al giudice, organo designato all’esercizio della funzione giurisdizionale, di una funzione legislativa, in radicale contrasto con i profili fondamentali dell’ordinamento costituzionale.

13.– La questione va dichiarata, pertanto, non fondata in rapporto a tutti i parametri invocati.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 673 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli articoli 3, 13, 25, secondo comma, 27, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Torino con l’ordinanza indicata in epigrafe.

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