La massima

L’effetto di propagazione, sull’intero contratto preliminare, della nullità della clausola contenente l’impegno delle parti di indicare nel definitivo, in violazione della disciplina dell’imposta di registro, un prezzo inferiore a quello realmente pattuito, non può derivare dal semplice rafforzamento dell’atteso comportamento contra legem mediante la previsione negoziale di un diritto alla risoluzione attivabile dalla parte rimasta fedele alla clausola (previsione anch’essa colpita da nullità), occorrendo, altresì, la prova, a cura della parte colpita dallo squilibrio indotto dalla nullità parziale e che invochi il contagio all’intero contratto, che il mantenimento di esso dopo la “depurazione” non sia più giustificato dal senso originario dell’operazione, e ciò per essere la clausola di occultamento in tale rapporto di interdipendenza e di inscindibilità con le altre pattuizioni che queste non possano sussistere in modo autonomo.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE  II CIVILE

SENTENZA 11 luglio 2012, n. 11749 

Ritenuto in fatto

In data 8 ottobre 2001 la s.a.s. Fra.Pe Immobiliare e P.G. (quest’ultimo per sé o per persona o società da designare all’atto notarile) stipularono un contratto preliminare di compravendita per un immobile sito in (omissis) , determinando il prezzo in lire 550.000.000 (pari ad Euro 284.051,29), di cui lire 50.000.000 versati al promittente venditore a titolo di caparra confirmatoria.
Fissata la data dell’11 dicembre 2001 per il contratto definitivo, davanti al notaio Barbagallo di Busto Arsizio il P. indicò quale acquirente definitivo la società Etruria s.r.l., il cui legale rappresentante era presente e pronto a sottoscrivere il rogito, fornendo al notaio gli assegni circolari dovuti per il saldo.
Il legale rappresentante della Fra.Pe si rifiutò di firmare, giacché la s.r.l. Etruria aveva preteso di inserire nel contratto il prezzo realmente concordato, cosi venendo meno all’impegno, previsto nel preliminare al punto n. 10 e rafforzato da una clausola risolutiva, di indicare soltanto i valori catastali (lire 310.000, pari ad Euro 160.101,63).
2. – Con atto di citazione notificato il 17 dicembre 2001, il P. e la s.r.l. Etruria convennero in giudizio dinanzi al Tribunale di Busto Arsizio la Fra.Pe Immobiliare s.a.s. al fine di ottenere sentenza costitutiva ex art. 2932 cod. civ. che tenesse luogo del contratto definitivo non concluso, con il conseguente trasferimento dell’immobile in favore della società Etruria, in qualità di terza nominata.
La Fra.Pe Immobiliare, costituendosi in giudizio, concluse per la dichiarazione di nullità del preliminare e, in subordine, per la risoluzione dello stesso; ed in via riconvenzionale formulò domanda di risarcimento del danno.
3. – Il Tribunale adito, con sentenza depositata il 26 maggio 2003, dichiarò la nullità del preliminare e rigettò sia la domanda di esecuzione in forma specifica proposta dagli attori sia la domanda di risarcimento dei danni avanzata, in via riconvenzionale, dalla convenuta.
4. – La Corte di Milano, con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 9 marzo 2006, ha accolto l’appello del P. e dell’Etruria e, previo il pagamento da parte dell’Etruria dell’importo residuo di lire 500.000.000 (pari ad Euro 258.228,44), oltre IVA, ha trasferito a quest’ultima la proprietà dell’immobile di piazza (omissis) .
4.1. – Premesso che la clausola contrattuale che impegna le parti a violare le norme fiscali è nulla, la Corte territoriale – valutando la clausola rispetto alla struttura e alla funzione del contratto cui ineriva e rispetto alla specifica volontà delle parti – ne ha escluso il carattere essenziale.
Il puro fatto – hanno rilevato i giudici del gravame – che l’applicazione del regime fiscale corretto implichi una differenza sul prezzo stabilito dalle parti non è sufficiente per far considerare la clausola essenziale. È necessario, piuttosto, che si dimostri che quella variazione di prezzo alteri l’equilibrio contrattuale in modo tale da far considerare la vendita fuori degli standard di mercato correnti in un certo momento, tenuto conto che, quanto alle condotte degli altri operatori economici, si deve presumere la generale applicazione della legge, e non l’evasione fiscale. Il venditore deve dimostrare non solo il fatto, ovvio, di realizzare un minor guadagno, ma che, a quel prezzo, non avrebbe venduto affatto, poiché il valore dell’immobile era nettamente diverso, secondo parametri ragionevolmente obiettivi. Nel caso di specie – ha proseguito la Corte d’appello – la Fra.Pe Immobiliare si è limitata a prospettare soltanto lo svantaggio economico dell’applicazione corretta delle norme fiscali.
La Corte di Milano ha poi osservato, ai fini del secondo comma dell’art. 1419 cod. civ., che la disciplina, ratione temporis applicabile, dettata dal d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro), è suscettibile, con le previsioni di cui agli artt. 43, sull’individuazione della base imponibile dell’imposta di registro, e 52, sull’obbligo di rettifica a carico degli uffici, di sostituirsi imperativamente alla pattuizione nulla.
5. – Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello la Fra.Pe ha proposto ricorso, con atto notificato il 14 luglio 2006, sulla base di quattro motivi.
Gli intimati hanno resistito con controricorso.
La ricorrente ha depositato una memoria illustrativa in prossimità dell’udienza.

Considerato in diritto

1. – Con il primo motivo (omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio) la società Fra.Pe Immobiliare si duole dell’erronea ricostruzione della volontà negoziale delle parti in riferimento all’essenzialità o meno della pattuizione, contenuta nella clausola n. 10 del contratto preliminare, di indicare nel contratto definitivo il valore catastale, anziché il corrispettivo pattuito. La motivazione della Corte d’appello avrebbe ignorato la pattuizione ‘B’ della clausola, a tenore della quale ‘l’inosservanza di tale accordo da una delle parti determinerà il diritto per l’altra parte alla risoluzione del… contratto preliminare di compravendita’. Ad avviso della ricorrente, la pattuizione A – secondo cui ‘Parte promittente venditrice e parte pro-missaria acquirente dichiarano di voler indicare nell’atto notarile il valore catastale (lire 310.000.000, pari a Euro 160.101,63)’ – e la pattuizione B della clausola n. 10 disciplinano un elemento essenziale del contratto, qual è il prezzo, sanzionando l’inottemperanza con l’attribuzione all’osservante del diritto potestativo di risoluzione dell’intera pattuizione del preliminare di vendita. L’interpretazione sistematica non consentirebbe di ritenere che la pattuizione A sia solo intesa a indicare esplicitamente il regime fiscale al quale il contratto sarà sottoposto. Avendo le parti attribuito a quella osservante il diritto potestativo di risolvere il contratto per violazione del patto di dichiarare nell’atto notarile il valore catastale, l’essenzialità della clausola risulterebbe per tabulas. Il sindacato della libera e legittima pattuizione delle parti, esercitato dalla Corte di merito, costituirebbe violazione del principio fondamentale dell’autonomia privata (art. 1322 cod. civ.), da salvaguardare, in sede di interpretazione, come principio guida della stessa. La motivazione della sentenza impugnata sarebbe insufficiente per l’omessa considerazione della lettera della pattuizione, di per sé decisiva per ritenere l’essenzialità, e contrastante con il canone dell’interpretazione complessiva.

1.1. – Il motivo è infondato.

1.2. – Occorre premettere che anche nella disciplina, applicabile ratione temporis, dell’imposta di registro, dettata dal testo unico approvato con il d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, le parti avevano l’obbligo di indicare nell’atto di compravendita immobiliare il corrispettivo pattuito.

La giurisprudenza di questa Corte (Sez. V, 28 ottobre 2000, n. 14250; Sez. V, 28 giugno 2006, n. 14952; Sez. III, 23 maggio 2006, n. 12113; Sez. V, 4 febbraio 2011, n. 2718) ha infatti chiarito che la circostanza che i contraenti potessero fare riferimento, ai fini della dichiarazione del valore del bene, alla cosiddetta valutazione automatica, sulla base dei parametri catastali di cui all’art. 52, quarto comma, del d.P.R. n. 131 del 1986, se poneva l’amministrazione nella condizione di non poter contestare tale valore, non escludeva, invece, l’applicabilità di sanzioni ex art. 72 del citato d.P.R., ove la stessa amministrazione fosse venuta a conoscenza che era stato corrisposto, per l’atto di cui si tratta, un prezzo superiore al valore dichiarato.

Certo sussisteva nel sistema – anteriormente alle modifiche introdotte, in tema di imposta di registro, con le misure di contrasto all’evasione e all’elusione fiscale di cui all’art. 35, comma 21, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248 – un’apparente disarmonia, perché per un verso (art. 52, quarto comma) il d.P.R. n. 131 del 1986 attribuiva significativa importanza ad una sorta di ‘valore convenzionale’ dei beni immobili, ottenuto moltiplicando la rendita catastale per determinati coefficienti, e sembrava autorizzare il contribuente a far riferimento a tale ‘valore convenzionale’, trascurando il prezzo effettivo; mentre per altro (art. 72) verso puniva il contribuente ove – per un accidente – emergesse che in realtà era stato pagato un prezzo superiore al valore convenzionale.

Tale apparente disarmonia può però essere superata – come già rilevato da questa Corte con la citata sentenza n. 14250 del 2000 – ove si consideri che il quarto comma dell’art. 52 della legge di registro enunciava in realtà un principio di natura meramente procedimentale, istitutivo di un vincolo per l’attività di accertamento della pubblica amministrazione: vincolo che però non paralizzava la pubblica amministrazione quando fosse venuta a conoscenza dell’occultamento di parte del prezzo.

1.3. – La clausola, contenuta nel contratto preliminare, avente ad oggetto il reciproco impegno delle parti di indicare nel definitivo una somma inferiore a quella reale, e pari a quella risultante dall’applicazione del moltiplicatore della rendita catastale, è nulla per espressa previsione legislativa. Tra i patti contrari alle disposizioni del testo unico – per i quali l’art. 62 del d.P.R. n. 131 del 1986 commina la sanzione di nullità ‘anche fra le parti’ – vi è, altresì, la clausola di cui si tratta, confliggente con il divieto di occultamento del corrispettivo convenuto, divieto sanzionato con l’irrogazione di sanzione amministrativa ai sensi dell’art. 72 di quel testo normativo (Cass., Sez. II, 7 marzo 2002, n. 3328).

1.4. – Il problema di cui si controverte è se la nullità del patto contenuto nel preliminare si ripercuota sull’intero regolamento di interessi, e quindi, in primo luogo, se la clausola, colpita da nullità, sia essenziale, ai sensi del primo comma dell’art. 1419 cod. civ..

La Corte d’appello è giunta ad una valutazione di compatibilità tra il contratto residuo (in termini di perdurante utilità) e l’assetto di interessi originario. Premesso che un contratto preliminare di compravendita di immobili è perfetto nei suoi elementi essenziali anche se non indica esplicitamente quale sia il regime fiscale al quale sarà sottoposto, e che le norme fiscali, le quali costituiscono un riflesso pubblicistico dell’attività negoziale privata, sono in linea di principio non derogabili dalla volontà delle parti, la Corte territoriale ha escluso che la clausola nulla si trovi, con le altre pattuizioni del preliminare, in un rapporto di interdipendenza o di inscindibilità, non avendo il promittente venditore, che in giudizio ha invocato l’effetto di contagio, dimostrato in realtà che l’applicazione del regime fiscale corretto comporti un effetto sul prezzo tale da far risultare la vendita fuori degli standard correnti di mercato.

La ricorrente contesta questa conclusione, sostenendo che il giudice del merito avrebbe trascurato di considerare che la valutazione di essenzialità discendeva dalla previsione, contenuta nel preliminare allo stesso punto n. 10, che, in caso di inosservanza del patto di occultamento a fini fiscali, dava all’altra parte il diritto di risolvere l’intero contratto.

1.5. – Il Collegio ritiene che il giudizio di non essenzialità compiuto dalla Corte d’appello resista alle censure articolate con il motivo.

L’interrogativo che si pone riguarda la rilevanza che riveste, ai fini della invalidazione totale ed assoluta dell’intero contratto, il patto di risoluzione totale, ossia la clausola contrattuale che espressamente prevede, per il caso che una delle parti venga meno al reciproco impegno di indicare nel definitivo una somma inferiore a quella concordata nel preliminare, il diritto dell’altra di ottenere lo scioglimento del contratto. In altri termini, si tratta di stabilire se questa clausola comporti la comunicazione della nullità dalla parte, relativa all’occultamento del prezzo ai fini dell’imposta di registro, al tutto.

Al quesito deve darsi risposta negativa.

Va in primo luogo rilevato che la clausola risolutiva, essendo ancillare e rafforzativa del patto di occultamento, è essa stessa affetta da nullità, per contrasto con gli artt. 62 e 72 del d.P.R. n. 131 del 1986: l’ordinamento – per la contraddizione che non lo consente – non può permettere che sia considerato inadempimento, determinante la risoluzione del contratto per la mancanza funzionale della causa ed il risarcimento del danno, il comportamento rispettoso delle prescrizioni della legge tributaria, solo perché quel comportamento si discosta da un patto in frode al fisco.

Certo, ancorché nullo, il patto risolutivo è rivelatore dell’importanza annessa dalle parti all’osservanza di quell’impegno contra legem.

Ma da quella valutazione soggettiva non deriva che la nullità del segmento del regolamento si comunichi all’intero contratto.

Innanzitutto, il patto di risoluzione totale, destinato ad operare nell’ambito del sinallagma funzionale, non è un patto di nullità, e non dice che la nullità della clausola di occultamento comporta la non volontà delle parti restanti.

Inoltre, la valutazione di importanza, riferita ad un comportamento connesso al rispetto di una clausola veicolante un elemento accessorio nel contesto concreto dell’affare e in linea di principio non derogabile dall’autonomia privata, quale il regime fiscale dell’atto stipulato, non significa, ancora, essenzialità della clausola medesima, ossia decisività e inscindibilità della stessa nell’ambito dell’equilibrio di interessi cristallizzato nel contratto.

Infine, anche in presenza di una volontà ‘ostile’ alla nullità solo parziale, stabilire l’ambito di incidenza dell’impedimento opposto dalla nullità e l’eventualità della sua propagazione a tutto il negozio, è compito dell’ordinamento e del giudice.

E questo giudizio deve articolarsi nel modo seguente:

(a) tenendo conto che, in base al principio di conservazione del negozio giuridico, nel sistema del codice civile, la regola è che il contratto sia affetto da nullità solo nella parte che è per sé contraria a norma imperativa, e dunque che la nullità sia solo parziale, mentre l’estensione all’intero negozio degli effetti di tale nullità costituisce l’eccezione che deve essere provata dalla parte interessata e si verifica quando la nullità è relativa ad un elemento essenziale del negozio o ad una pattuizione legata alle altre da un rapporto di interdipendenza (Cass., Sez. III, 10 gennaio 1975, n. 91; Cass., Sez. I, 15 dicembre 1982, n. 6917; Cass., Sez. II, 29 maggio 1995, n. 6036; Cass., Sez. I, 19 luglio 2002, n. 10536; Cass., Sez. III, 21 maggio 2007, n. 11673; Cass., Sez. III, 30 settembre 2009, n. 20948);

(b) considerando che, in caso di nullità parziale, l’indagine diretta a stabilire se la pattuizione nulla debba ritenersi essenziale va condotta con metodo oggettivo, con riferimento alla perdurante utilità del contratto rispetto agli interessi con esso perseguiti (Cass., Sez. I, 19 aprile 1982, n. 2411; Cass., Sez. II, 1 marzo 1995, n. 2340): occorrendo procedere ad un confronto fra lo scopo pratico sotteso al programma originariamente divisato e il diverso assetto d’interessi che risulta dal contratto, depurato della clausola colpita da nullità, e valutare se quest’ultimo è ragionevolmente compatibile, in termini di causa in concreto e di buona fede, con il primo. Ciò non significa, beninteso, mettere fuori gioco la volontà privata e la ricerca della comune intenzione delle parti, fedelmente espressa dal significato delle parole usate nel contratto e del loro comportamento complessivo, anche successivo, dal giudizio di nullità; ma vuoi dire attribuire alla volizione delle parti rilevanza se ed in quanto essa disegna e concretizza l’operazione che, in termini oggettivi ed economici, le parti hanno inteso realizzare (cfr. Cass., Sez. I, 11 agosto 1998, n. 7871), e non quando essa pretende di prefigurare la disciplina ‘normativa’ degli effetti sul tutto derivanti dalla nullità del segmento.

Ora, nella specie, contrariamente a quanto accaduto in altri casi giunti all’attenzione di questa Corte (Sez. I, 7 novembre 1979, n. 5750; Sez. II, 7 marzo 2002, n. 3328, cit.), dal testo del preliminare non risulta che le parti abbiano legato la determinazione dell’effettivo prezzo al vantaggio economico derivante dall’occultamento parziale del corrispettivo pattuito ai fini fiscali, ed il giudice merito – con congruo e motivato apprezzamento delle risultanze di causa, tenendo espressamente conto anche della ‘specifica volontà delle parti’ a supporto, verifica e parametro del ragionamento seguito – ha escluso che il nuovo assetto di interessi discendente dalla ‘depurazione’ del regolamento di interessi non sia più sorretto dall’originaria ragione giustificativa e che sia così sfumata l’utilità che le parti intendevano perseguire.

Di qui la non decisività della circostanza – il patto risolutorio contenuto nel preliminare in collegamento con la clausola di occultamento – che il giudice del merito avrebbe omesso di considerare.

Infatti – ed è questo il principio di diritto che va affermato a conclusione dello scrutinio del motivo – l’effetto di propagazione, sull’intero contratto preliminare, della nullità della clausola contenente l’impegno delle parti di indicare nel definitivo, in violazione della disciplina dell’imposta di registro, un prezzo inferiore a quello realmente pattuito, non può derivare dal semplice rafforzamento dell’atteso comportamento contra legem mediante la previsione negoziale di un diritto alla risoluzione attivabile dalla parte rimasta fedele alla clausola (previsione anch’essa colpita da nullità), occorrendo, altresì, la prova, a cura della parte colpita dallo squilibrio indotto dalla nullità parziale e che invochi il contagio all’intero contratto, che il mantenimento di esso dopo la ‘depurazione’ non sia più giustificato dal senso originario dell’operazione, e ciò per essere la clausola di occultamento in tale rapporto di interdipendenza e di inscindibilità con le altre pattuizioni che queste non possano sussistere in modo autonomo.

2. – La Corte di Milano ha ritenuto che la possibilità di estendere la nullità parziale della clausola di occultamento all’intero contratto sia esclusa, altresì, in virtù di quanto disposto dal secondo comma dell’art. 1419 cod. civ. Poiché la clausola in contrasto con la norma imperativa sarebbe sostituita di diritto da una norma imperativa – quella che individua la base imponibile dell’imposta di registro nel valore del bene o del diritto alla data dell’atto (art. 43 del d.P.R. n. 131 del 1986) e che dispone l’obbligo di rettifica a carico dell’ufficio qualora esso ritenga che i beni oggetto dell’atto abbiano un valore venale superiore al valore dichiarato o al corrispettivo pattuito (art. 52, primo comma, dello stesso d.P.R.) – per questa via sarebbe irrilevante dimostrare che le parti non avrebbero concluso il contratto senza quella parte che è colpita da nullità.

2.1. – Questa seconda e concorrente ratio decidendi è censurata con il quarto motivo, con il quale, sotto la rubrica ‘violazione dell’art. 1419, secondo comma, cod. civ. e degli artt. 51, 52, 62 e 72 del d.P.R. n. 131 del 1986’, la società ricorrente contesta che le disposizioni considerate dalla Corte territoriale possano essere considerate sostitutive di diritto, ex art. 1419, secondo comma, cod. civ., della pattuizione contrattuale intesa a dichiarare un valore inferiore al valore venale o a quello pattuito dalle parti (in particolare ove la pattuizione impegni le parti proprio a dichiarare la somma determinata secondo il criterio valutativo automatico ancorato alle rendite catastali, introdotto dall’art. 52, quarto comma).

2.2. – La chiave per accertare se una norma imperativa si sostituisce alla clausola contrattuale contraria è data dalla individuazione dell’interesse perseguito dall’ordinamento positivo e degli interessi giuridici necessari a realizzarlo: l’efficacia sostitutiva in esame sussiste quando l’interesse investe l’esistenza di un rapporto giuridico o di una situazione giuridica non altrimenti realizzabile che mediante il necessario sinergismo dell’attività privata negoziale e della norma obiettiva imperativa.

Questi requisiti, in effetti, difettano nella specie.

L’interesse tutelato, ravvisabile nella esatta determinazione della base imponibile dell’imposta di registro (art. 43, primo comma, lettera a, del d.P.R. n. 131 del 1986), è perseguito dalla legge tributaria indipendentemente dalla collaborazione delle parti contraenti, l’amministrazione determinando autonomamente il valore venale tassabile pur in assenza delle indicazioni delle parti (art. 53 del citato d.P.R.) o contro di esse (artt. 51 e 52 del medesimo d.P.R.).

Pertanto, l’intervento correttivo della norma imperativa sul negozio giuridico privato non è qui indispensabile perché sia realizzato l’obiettivo che il legislatore tributario si prefigge, tanto che in relazione ad esso è stabilita la normale irrilevanza della nullità o dell’annullabilità dell’atto (art. 38 del d.P.R. cit.).

Nell’ipotesi in esame, inoltre, la norma imperativa, puramente comminatoria (combinato disposto degli artt. 62 e 72 del d.P.R. cit.), difetta della specificità necessaria perché possa combinarsi, correggendolo, con l’atto di autonomia privata; essa manca, cioè, dell’elemento rigidamente predeterminato destinato a sostituirsi alla clausola contrattuale, affidando comunque alle parti contraenti la quantificazione e l’indicazione dell’esatto corrispettivo.

Deve, così, concludersi – in continuità con quanto statuito da questa Corte, nella previgente disciplina dell’imposta di registro dettata dal d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 634, con la citata sentenza n. 5750 del 1979 – che la clausola del contratto preliminare di vendita, con la quale si conviene di indicare nel contratto definitivo di trasferimento un prezzo inferiore a quello convenuto, è nulla ma non sostituita da norma imperativa. È questa la ragione della non operabilità, nella specie, della salvezza fatta nel secondo comma dell’art. 1419 cod. civ..

2.3. – Sennonché, la ricorrente non può ottenere l’accoglimento del motivo e, con ciò, la cassazione della sentenza impugnata.

Poiché il capo della sentenza impugnata, di esclusione della nullità totale del contratto, si fonda, come sopra rilevato, su due ragioni, entrambe autonomamente idonee a sorreggerlo, è necessario, per giungere alla cassazione della pronuncia, che il ricorso abbia esito positivo nella sua interezza con l’accoglimento di tutte le censure, affinché si realizzi lo scopo pratico di tale mezzo di impugnazione, il quale deve mirare alla cassazione del capo della sentenza per tutte le ragioni che lo sostengono (Cass., Sez. Un., 8 agosto 2005, n. 16602; Cass., Sez. I, 8 febbraio 2006, n. 2811; Cass., Sez. I, 12 ottobre 2007, n. 21431).

E siccome la censura rivolta alla prima ratio decidendi (relativa alla non essenzialità della clausola contenente l’impegno delle parti di indicare nel contratto definitivo di compravendita un prezzo inferiore a quello reale ed effettivamente concordato) è infondata, ciò è sufficiente perché il ricorso contro il capo della sentenza sia respinto nella sua interezza.

Di qui l’inammissibilità, per difetto di interesse, della doglianza, articolata con il quarto motivo, avverso l’altra ragione posta a base del capo impugnato.

3. – Il secondo mezzo lamenta l’omessa motivazione della Corte d’appello sulla domanda subordinata di risoluzione del contratto per l’inammissibilità della pretesa del promissario – terzo designato di modificare (da A/1, abitativo, ad A/10, ufficio) la destinazione dell’immobile pattuita nel preliminare. Non potrebbe costituire un principio di motivazione – si sostiene – l’asserito assorbimento della domanda di risoluzione del preliminare nell’accoglimento della domanda di esecuzione in forma specifica. La domanda di risoluzione era stata proposta, oltre che esercitando il diritto potestativo pattuito, anche per la pretesa del promissario – terzo designato di modificare nel definitivo la destinazione dell’immobile pattuita nel preliminare.

Con il terzo motivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 2932 e 1453 cod. civ.) si formula il que-sito se sia ammissibile la pronuncia di sentenza costitutiva a favore della parte promissaria acquirente che in sede di stipulazione del definitivo non abbia offerto di adempiere esattamente le proprie obbligazioni, pretendendo anzi la modifica di pattuizioni del preliminare incidenti sulla funzione, destinazione e prezzo dell’immobile oggetto dell’atto, con tale pretesa determinando la domanda di risoluzione del contratto preliminare da parte dell’altro contraente.

3.1. – I due motivi – i quali, stante la loro connessione, possono essere esaminati congiuntamente – sono infondati.

La Corte d’appello ha in realtà rigettato, perché la parte promittente venditrice ‘non ha interesse’, la domanda di risoluzione del contratto collegata alla ‘destinazione ad uso ufficio’.

La statuizione si sottrae alle censure articolate dalla società ricorrente, le quali muovono da un erroneo presupposto di fatto, perché correttamente il giudice d’appello ha inteso evidenziare non solo che con l’atto di citazione in primo grado e con l’atto di gravame la parte promissaria acquirente ed il terzo nominato avevano domandato il trasferimento, con sentenza costitutiva, dell’appartamento in questione identificato come categoria A/1, ma anche che la stessa destinazione abitativa era contenuta nella bozza di contratto redatta, proprio su incarico della società Etruria e del P. , dal notaio Barbagallo.

Il che esclude il lamentato inadempimento a base della domanda di risoluzione.

4. – Il ricorso è rigettato.

Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese processuali sostenute dai controricorrenti, che liquida in complessivi Euro 6.200, di cui Euro 6.000 per onorari, oltre a spese generali e ad accessori di legge.

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