Corte di Cassazione

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

S.U.P.

SENTENZA 25 marzo 2016, n.12602

La Corte di appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, con sentenza del 14 luglio 2014, decidendo sull’impugnazione proposta dall’imputato, confermava la decisione in data 22 ottobre 2010 del Tribunale di Taranto, che aveva dichiarato R.M. colpevole di concorso, con altra persona rimasta non identificata, nei reati, commessi il (omissis) , di rapina pluriaggravata in danno di L.F. , dipendente della stazione di servizio ERG sita in (omissis) , e di porto ingiustificato di un coltello (artt. 110, 628, terzo comma, n. 1, cod. pen., 4 legge 18 aprile 1975, n. 110 e 61, primo comma, n. 2 cod. pen.) e lo aveva condannato – unificati gli illeciti sotto il vincolo della continuazione e concesse le circostanze attenuanti generiche con giudizio di equivalenza rispetto alle aggravanti e alla recidiva contestate alla pena principale di anni tre, mesi sei di reclusione ed euro 800,00 di multa, nonché a quella accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per anni cinque.

Il Giudice distrettuale, disattesa, perché ritenuta non necessaria ai fini del decidere, la richiesta difensiva di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale (acquisizione delle riprese dell’impianto di video-sorveglianza in dotazione della citata stazione di servizio), evidenziava – a confutazione degli ulteriori motivi di gravame – che la colpevolezza dell’imputato era conclamata dalla testimonianza attendibile della persona offesa, L.F. , il quale nell’immediatezza aveva riferito, in maniera precisa, dettagliata e coerente, in ordine alla dinamica dell’azione criminosa di cui era rimasto vittima, aveva riconosciuto nel R. , suo ex vicino di casa, uno dei due rapinatori e aveva ribadito ciò in sede di successiva ricognizione fotografica del medesimo, mentre non era stato in grado di fornire elementi idonei all’identificazione del secondo rapinatore, che materialmente lo aveva minacciato con il coltello, per costringerlo, con l’apporto causale anche del primo, a consegnare la somma di euro 250,00; aggiungeva che il trattamento sanzionatorio riservato all’imputato, tenuto conto della sua personalità e della gravità del fatto di cui sì era reso protagonista, era conforme a giustizia.

Ha proposto ricorso per cassazione il R. , con atto sottoscritto da lui personalmente e dal proprio difensore di fiducia.

Il ricorrente, con un primo motivo, lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. c) ed e), cod. proc. pen., la non corretta applicazione degli artt. 192, 546 e 603 cod. proc. pen. e il vizio di motivazione della sentenza di merito, il cui percorso argomentativo aveva fatto leva esclusivamente sulla testimonianza del L. senza considerare la scarsa attendibilità del medesimo, pure specificamente contestata nell’atto di appello, ed aveva disatteso la richiesta di acquisizione delle riprese dell’impianto di video-sorveglianza, che avrebbero consentito di fare piena luce sulla vicenda e di identificare gli effettivi responsabili.

Con un secondo motivo, deduce, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., il vizio di motivazione in ordine alla concessione delle circostanze attenuanti generiche con giudizio di equivalenza piuttosto che di prevalenza sulle aggravanti e sulla recidiva contestate, al diniego della circostanza attenuante di cui all’art. 62, primo comma, n. 6, cod. pen., alla misura della pena.

Con ordinanza del 18 giugno 2015, depositata il successivo 7 luglio, la Seconda Sezione penale, assegnataria ratione materiae del ricorso, ne ha rimesso la decisione alle Sezioni Unite.

La Sezione rimettente, preliminarmente, rileva che l’impugnazione appariva inammissibile, sottolineando testualmente che ‘le censure proposte, oltre che essere fortemente orientate verso un non consentito riesame del merito, finiscono per essere in larga misura meramente reiterative delle stesse questioni agitate in appello e motivatamente disattese dai giudici del grado, senza che i relativi apporti argomentativi abbiano poi formato oggetto di una autonoma e articolata critica impugnatoria, in tal modo finendo per incorrere nel vizio di aspecificità’.

Sottolinea, inoltre, che il reato di cui all’art. 4 della legge n. 110 del 1975 risulta prescritto, pur tenendo conto dei periodi di sospensione del relativo termine, prima della pronuncia della sentenza di appello e la causa estintiva non era stata eccepita dall’interessato né era stata rilevata dal giudice in sede di merito e neppure col ricorso era stata dedotta specifica doglianza avverso tale omissione.

Dà atto quindi dell’esistenza di un contrasto giurisprudenziale sulla questione di diritto relativa alla possibilità o meno di rilevare e dichiarare in sede di legittimità, pur in presenza di un ricorso inammissibile, l’estinzione del reato per prescrizione maturata prima della sentenza di appello ma non dichiarata in quella sede né dedotta con i motivi di ricorso; richiama e analizza gli opposti orientamenti ermeneutici della giurisprudenza di legittimità, evidenziando la necessità di risolvere il rilevato contrasto.

Il Primo Presidente, con decreto in data 16 luglio 2015, ha assegnato – ex art. 618 cod. proc. pen. – il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l’odierna udienza pubblica, al cui esito le parti processuali hanno rassegnato le conclusioni in epigrafe precisate.

Considerato in diritto

La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite è la seguente: ‘se la Corte di cassazione, adita con ricorso inammissibile, possa dichiarare la prescrizione del reato intervenuta prima della sentenza di appello, ma non rilevata né eccepita in quella sede o nei motivi di ricorso’.

Si deve, innanzi tutto, ritenere condivisibile la delibazione incidentale della Sezione rimettente circa l’inammissibilità del ricorso.

2.1. Ed invero, le doglianze articolate nel primo motivo di ricorso sono diverse da quelle consentite nella parte in cui non sono volte ad evidenziare violazioni di legge o mancanze argomentative e illogicità percepibili ictu oculi della sentenza impugnata, bensì mirano a sollecitare un improponibile sindacato sulle scelte valutative della Corte di appello e reiterano in gran parte le censure già sollevate dinanzi a quel Giudice, che le ha ritenute infondate sulla base di una lineare e adeguata motivazione, strettamente ancorata a una completa e approfondita disamina delle risultanze processuali, nel rispetto delle regole di cui all’art. 192 cod. proc. pen..

La prova della colpevolezza dell’imputato è stata ravvisata, come più sopra sintetizzato, nella precisa, coerente ed esaustiva testimonianza della persona offesa, la cui attendibilità, in difetto del benché minimo elemento di segno contrario, è stata positivamente apprezzata, escludendo, nello stigmatizzare le assertive insinuazioni della difesa tecnica, qualunque intento calunniatorio del dichiarante. Alle ragioni argomentate dalla sentenza in verifica su tale aspetto di decisiva importanza non sempre sono correlate, tra l’altro, quelle poste a fondamento del ricorso, con l’effetto che queste ultime si rivelano anche aspecifiche (Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013, Guardiano, Rv. 255568; Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012, Pezzo, Rv. 253849; Sez. 1, n. 39598 del 30/09/2004, Burzotta, Rv. 230631; Sez. 6, n. 49 del 08/10/2002, Notaristefano, Rv. 223217).

Pure la richiesta, formulata in sede di appello, di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, per acquisire il filmato dell’impianto di video-sorveglianza (prova preesistente al giudizio di primo grado), è stata correttamente disattesa, perché ritenuta superflua tale acquisizione ai fini del decidere, in considerazione del fatto che il materiale probatorio già presente in atti non evidenziava profili di incertezza in ordine alla ricostruzione della vicenda criminosa di cui si discute e al ruolo attivo in essa svolto dall’imputato.

La rinnovazione in appello dell’istruttoria dibattimentale rappresenta, invero, un istituto di carattere eccezionale, al quale può farsi ricorso, in deroga alla presunzione di completezza dell’istruttoria espletata in primo grado, esclusivamente allorché il giudice ritiene, nella sua discrezionalità, indispensabile la integrazione, nel senso che non è altrimenti in grado di decidere sulla base del solo materiale già a sua disposizione. In sostanza, dinanzi a una richiesta di rinnovazione dell’istruttoria, fondata sull’indicazione di prova preesistente al giudizio di appello, ma non ancora acquisita (noviter producta), al giudice è attribuito, ai sensi dell’art. 603, comma 1, cod. proc. pen., il potere discrezionale di accogliere o meno la sollecitazione in ossequio alla regola di giudizio della ‘non decidibilità allo stato degli atti’, esplicitando, senza incorrere in vizi di manifesta illogicità, le ragioni della scelta operata (Sez. U, n. 2780 del 24/01/1996, Panigoni, Rv. 203574; Sez. 2, n. 41808 del 27/09/2013, Mongiardo, Rv. 256968; Sez. 6, n. 20095 del 26/02/2013, Ferrara, Rv. 256228; Sez. 2, n. 3458 del 01/12/2005, dep. 2006, Di Gloria, Rv. 233391).

Né l’imputato, rimasto contumace in primo grado, aveva invocato, con l’appello, il diritto alla prova ex art. 603, comma 4, cod. proc. pen. (disposizione oggi abrogata dall’art. 11, comma 2, legge 28 aprile 2014, n. 67), provandone la ricorrenza dei presupposti di operatività (caso fortuito, forza maggiore, mancata conoscenza incolpevole del decreto di citazione), sicché la richiesta formulata non può che essere considerata una ordinaria richiesta di rinnovazione ex art. 603, comma 1, cod. proc. pen., soggetta, come si è detto, alla valutazione discrezionale del giudice di appello, che, nel caso concreto, ha adeguatamente giustificato la propria scelta, con l’effetto che la doglianza articolata al riguardo si rivela manifestamente infondata.

2.2. Manifestamente infondato è anche il secondo motivo di ricorso.

La sentenza impugnata, con riferimento alla misura della pena inflitta all’imputato, contenuta – per altro – entro limiti prossimi al minimo edittale, fa buon governo della legge penale e dà conto delle ragioni che hanno guidato, nel rispetto del principio di proporzionalità, l’esercizio del potere discrezionale ex art. 132 cod. pen. della Corte di merito; e ciò anche in relazione al diniego della circostanza attenuante di cui all’art. 62, primo comma, n. 6, cod. pen., della quale non sussistono gli estremi legali (riparazione integrale del danno prima del giudizio), nonché al bilanciamento, in termini di equivalenza, delle accordate circostanze attenuanti generiche rispetto alle aggravanti e alla recidiva contestate, tenuto conto, quanto a quest’ultimo aspetto, della personalità dell’imputato, gravato di altre precedenti condanne.

Le censure mosse a tale percorso argomentativo, assolutamente lineare, sono meramente assertive, inconsistenti e, in parte, orientate anche a sollecitare, in questa sede, una nuova e non consentita valutazione della congruità della pena.

Deve precisarsi, inoltre, che la contravvenzione di cui all’art. 4 della legge n. 110 del 1975, commessa il 19 marzo 2008, si è estinta per prescrizione in data anteriore alla sentenza in verifica, in quanto il relativo termine considerato nella sua massima estensione (anni 5 ex artt. 157, primo comma, e 161, secondo comma, cod. pen.) e tenuto conto anche del periodo di sospensione dal 23 giugno al 14 luglio 2014 – è interamente decorso alla data del 9 aprile 2013. Tale causa estintiva, però, non era stata eccepita dalla parte interessata o rilevata dal giudice in sede di appello e neppure è stata dedotta con i motivi di ricorso.

Ciò posto, la questione di diritto portata all’attenzione delle Sezioni Unite impone di individuare lo spazio cognitivo riservato al giudice dell’impugnazione inammissibile.

È necessario cioè chiarire il rapporto che intercorre, nell’ambito del giudizio di cassazione, tra il ricorso inammissibile e le cause di non punibilità previste dall’art. 129 cod. proc. pen., con particolare riferimento, per quanto qui interessa, alla prescrizione del reato maturata prima della sentenza d’appello, ma non rilevata né eccepita in quella sede e neppure nei motivi di ricorso.

Tale problematica ha costituito oggetto, a partire dagli anni novanta, di ripetuti interventi della giurisprudenza delle Sezioni Unite, al cui esito si è definitivamente riconosciuta, salvo alcune specifiche deroghe, l’efficacia preclusiva dell’inammissibilità dell’impugnazione rispetto alla possibilità di dichiarare eventuali cause di non punibilità.

È opportuno ripercorrere, sia pure in sintesi, tale elaborazione giurisprudenziale, che ha determinato il sostanziale superamento della tradizionale distinzione tra cause di inammissibilità originarie e sopravvenute dell’impugnazione e, quindi, una progressiva erosione dell’area di operatività dell’art. 129 cod. proc. pen., resa inaccessibile dalla preclusione innanzi richiamata.

Devono del pari essere ricordati gli argomenti posti a base della ricostruzione ermeneutica sviluppata in chiave critica sulla specifica questione di diritto che viene in rilievo dalla più recente giurisprudenza di legittimità, che ha posto consapevolmente in discussione la soluzione precedentemente offerta al riguardo dalle Sezioni Unite e ha dato origine al denunciato contrasto interpretativo.

Prima di passare in rassegna tali approdi interpretativi, non va sottaciuto che, nella vigenza del codice di procedura penale del 1930 (r.d. 19 ottobre 1930, n. 1399), stante il regime delle impugnazioni, che prevedeva, in base ad una precisa scansione temporale, prima la dichiarazione di impugnazione (artt. 197 e 199) e poi la presentazione dei motivi (art. 201), la giurisprudenza aveva individuato due distinte categorie giuridiche di cause d’inammissibilità, quelle originarie e quelle sopravvenute.

Le prime colpivano l’impugnazione nel suo momento genetico, con la conseguenza che la stessa era improduttiva di effetti, non era idonea ad introdurre il nuovo grado di giudizio, in quanto presupponeva la formazione del giudicato, e precludeva l’eventuale applicabilità di disposizioni più favorevoli al reo, quali le cause di non punibilità previste dall’art. 152 (Sez. U, n. 2553 del 10/01/1976, Delle Donne, Rv. 132542). Le seconde traevano origine da cause estranee e successive (come la mancata o la irregolare presentazione dei motivi) alla dichiarazione d’impugnazione originariamente ammissibile, non incidevano sulla valida instaurazione del rapporto d’impugnazione e non impedivano, quindi, la valutazione del giudice in merito all’esistenza di eventuali cause di non punibilità, da rilevarsi d’ufficio ai sensi del richiamato art. 152.

Detto orientamento giurisprudenziale, in sostanza, partendo dalla constatazione dell’esistenza di un obbligo da parte del giudice dell’impugnazione di rilevare d’ufficio l’esistenza di eventuali cause di non punibilità, aveva ritenuto, in via di eccezione rispetto a tale obbligo, che era pur sempre necessario accertare prioritariamente la sussistenza dei requisiti minimi richiesti per la proposizione di un atto d’impugnazione idoneo all’instaurazione della corrispondente fase processuale. La presentazione di una impugnazione priva di tali requisiti minimi produceva soltanto la conseguenza di ritardare il giudicato formale, mentre quello sostanziale doveva ritenersi già formato contestualmente alla proposizione dell’atto invalido, con l’effetto che rimaneva preclusa al giudice qualunque valutazione diversa dalla constatazione preliminare e assorbente di inammissibilità. A diversa ed opposta conclusione doveva pervenirsi nel caso di atto d’impugnazione dotato dei requisiti minimi di legge e, in quanto tale, legittimante il rilievo officioso di eventuali cause di non punibilità.

L’assetto normativo del codice di procedura penale vigente (d.P.R. 22 settembre 1988, n. 447) è designato da plurimi profili di novità, quali la scomparsa della distinzione tra dichiarazione e motivi d’impugnazione, il venir meno della competenza alternativa e per taluni casi esclusiva del giudice a quo e di quello ad quem ex artt. 207 e 209 cod. proc. pen. del 1930, modello superato dalla previsione di cui all’art. 591, comma 2, cod. proc. pen. vigente, che affida al solo giudice dell’impugnazione la competenza a dichiararne l’inammissibilità.

L’impugnazione, in coerenza con la logica di razionalizzazione e semplificazione che ispira il codice di rito vigente, deve essere proposta, a norma dell’art. 581 cod. proc. pen., con un unico atto scritto contenente i due elementi di cui consta, ossia la dichiarazione e i motivi, i quali integrano rispettivamente la volontà di non prestare acquiescenza al provvedimento impugnato e il sostrato argomentativo che esplicita le ragioni per le quali si ritiene ingiusta o contra legem la decisione impugnata.

In questo diverso contesto normativo, i plurimi interventi delle Sezioni Unite sul tema d’interesse hanno escluso che l’art. 648 cod. proc. pen., in quanto diretto a regolamentare il giudicato formale e, quindi, a dare avvio alla fase esecutiva, possa essere utilizzato per chiarire il rapporto tra inammissibilità dell’impugnazione e cause di non punibilità ex art. 129 cod. proc. pen. e hanno fatto leva, invece, sulle norme che regolano il processo, individuando in esse la disciplina di riferimento, per stabilire quale dei due dati considerati debba prevalere.

Inizialmente, sulla scia dell’esperienza maturata nel vigore del vecchio codice di rito, si è continuato a fare riferimento alle categorie delle ‘cause originarie’ e ‘cause sopravvenute’, ma si è progressivamente dilatata, come si vedrà, l’area delle prime rispetto a quella delle seconde, sino a pervenire al definitivo abbandono di tale distinzione.

7.1. Con una prima decisione (Sez. U, n. 21 del 11/11/1994, dep. 1995, Cresci, Rv.199903; ribadita da Sez. U, n. 11493 del 24/06/1998, Verga, Rv. 211469), riproponendosi la persistente attualità della dicotomia inammissibilità originaria-inammissibilità sopravvenuta, si è, infatti, precisato che la mancanza, nell’atto d’impugnazione, dei requisiti prescritti dall’art. 581 cod. proc. pen., compreso quello della specificità dei motivi, rende l’atto medesimo inidoneo ad introdurre il nuovo grado di giudizio e a produrre quegli effetti cui si ricollega la possibilità di emettere una pronuncia diversa dalla dichiarazione di inammissibilità. Si è in presenza di una causa di inammissibilità originaria che impedisce di rilevare e di dichiarare, ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., eventuali cause di non punibilità.

Viceversa, l’atto che contiene tutti i requisiti prescritti dall’art. 581 cod. proc. pen. è idoneo a produrre l’impulso necessario a originare il giudizio di impugnazione, con la conseguenza che le ulteriori cause di inammissibilità, quali i motivi di ricorso diversi da quelli consentiti o manifestamente infondati o concernenti violazioni di legge non dedotte in appello (art. 606, comma 3, cod. proc. pen.), devono considerarsi sopravvenute e quindi non ostative all’operatività della disposizione di cui all’art. 129 cod. proc. pen.; e ciò perché l’attività cognitiva richiesta per rilevarle impone un esame, a volte anche approfondito, degli atti processuali, dal quale può emergere una causa di non punibilità, che, per nessuna ragione logica, può essere ignorata e deve, pertanto, essere dichiarata.

7.2. Con un successivo intervento (Sez. U, n. 30 del 30/06/1999, Piepoli, Rv. 213981), pur mantenendosi ferma la distinzione delle due categorie di inammissibilità, si ridefinisce il confine tra le stesse, ampliando l’area delle ipotesi di inammissibilità originaria.

In quest’ultima categoria vengono inclusi, in quanto non implicanti un giudizio di merito e rilevabili agevolmente in limine, tutti i casi elencati nell’art. 591, comma 1, cod. proc. pen. (fatta eccezione della rinuncia all’impugnazione) e le ipotesi di motivi di ricorso diversi da quelli consentiti o concernenti violazioni di legge non dedotte in appello (art. 606, comma 3, cod. proc. pen.). In coincidenza dell’insorgenza di tali cause di inammissibilità, inidonee ad introdurre il giudizio d’impugnazione, si concretizza il giudicato sostanziale, da distinguersi dalla irrevocabilità della sentenza (giudicato formale), che rileva solo ai fini della sua esecuzione e che si determina in coincidenza della formale declaratoria di inammissibilità.

La manifesta infondatezza dei motivi di ricorso ha, invece, una sua peculiarità, nel senso che, pur dovendo essere preliminarmente valutata, la delibazione sulla fondatezza della censura comporta necessariamente una incursione nell’area delle statuizioni di merito, il cui esito non impedisce che vengano rilevate e dichiarate eventuali cause di non punibilità, ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., norma – questa – che esprime un valore di garanzia, insito nel principio del favor rei, e che prevale, nel quadro di un corretto bilanciamento degli interessi in gioco, sulla declaratoria d’inammissibilità, recessiva rispetto all’operatività della prima.

7.3. Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, De Luca, Rv. 217266, nell’affrontare la specifica questione del rapporto tra inammissibilità del ricorso per manifesta infondatezza e prescrizione del reato maturata dopo la scadenza del termine per proporre il ricorso, ricostruisce, a superamento della residuale distinzione tra le due diverse categorie di inammissibilità e in aderenza al dato normativo, una categoria unitaria di inammissibilità dell’impugnazione.

Secondo tale sentenza, esigenze di ordine sistematico, non prese in considerazione dai precedenti approdi delle Sezioni Unite, impongono di assimilare la manifesta infondatezza alle altre ipotesi di inammissibilità, tutte intrinseche alla struttura del ricorso per così come positivamente delineata; non osta a tale assimilazione la metodica di accertamento, assolutamente conforme a quella prevista per altre cause di inammissibilità e conducente comunque ad una pronuncia meramente dichiarativa dagli effetti esclusivamente processuali, consistenti nel precludere l’accesso al rapporto di impugnazione.

L’art. 606 cod. proc. pen., letto nel suo integrale contesto, colloca, infatti, la manifesta infondatezza, al pari degli altri casi previsti, tra le cause di inammissibilità intrinseche al ricorso, sicché non è dato comprendere come possa legittimarsi un differenziato inquadramento dogmatico della medesima rispetto alle altre ipotesi di inammissibilità. L’argomento decisivo, per superare ogni discrimine ‘qualitativo’ tra la manifesta infondatezza e le altre cause di inammissibilità del ricorso, va individuato ‘nel nesso, rilevabile anche sul piano testuale, che collega l’inammissibilità alla tipizzazione delle vie di accesso alla Corte suprema, allo scopo di ridefinire funzione e limiti del giudizio di legittimità, seguendo le linee di un sistema di devoluzione rigorosamente prestabilito sia in senso positivo (v. l’art. 606, comma 1, ma anche l’art. 609, comma 1, soprattutto se oggetto di comparazione con l’effetto devolutivo proprio dell’appello, ex art. 597 cod. proc. pen.) sia in senso negativo (secondo lo schema delineato dall’art. 606, comma 3)’.

In sostanza, secondo tale arresto, il potere-dovere di immediata declaratoria di eventuali cause di non punibilità si attiva soltanto in presenza di un valido atto d’impugnazione. Se questo è connotato, invece, da mera apparenza, nel senso che è privo dei requisiti previsti dagli artt. 581, 591 e 606 cod. proc. pen. e, quindi, è ab origine inammissibile, rimane precluso l’accesso al nuovo grado di giudizio.

Inammissibile deve, quindi, ritenersi il ricorso privo dei requisiti stabiliti dall’art. 581 cod. proc. pen., compreso quello della specificità dei motivi, o proposto per motivi non consentiti, non dedotti in sede di appello o anche manifestamente infondati.

La natura dichiarativa della pronuncia di inammissibilità è meramente ricognitiva della mancata instaurazione del giudizio di legittimità e il relativo accertamento, pur non sempre agevole, implica una tipologia di verifica che prescinde da qualsiasi ‘scrutinio contenutistico del ricorso’ nel confronto con la sentenza impugnata. Con specifico riferimento alla manifesta infondatezza, i criteri rivelatori della medesima sono le censure palesemente inconsistenti, ‘caratterizzate da evidenti errori di diritto nella interpretazione della norma posta a sostegno del ricorso, il più delle volte contrastate da una giurisprudenza costante e senza addurre motivi nuovi o diversi per sostenere l’opposta tesi, ovvero invocando una norma inesistente nell’ordinamento’ o ancora contrassegnate da evidente pretestuosità.

7.4. Sez. U, n. 33542 del 27/06/2001, Cavalera, Rv. 219531, decidendo un ricorso avente ad oggetto esclusivo la richiesta di estinzione del reato per prescrizione, maturata dopo la decisione impugnata ma prima della decorrenza del termine per proporre ricorso, nel ribadire – seguendo lo stesso percorso argomentativo di Sez. U, De Luca – che ogni pronuncia di inammissibilità di risolve in una absolutio ab instantia, evidenzia che, nel caso esaminato, l’atto d’impugnazione era soltanto apparente, in quanto non conteneva censure avverso la decisione, e ciò in violazione della prescrizione di cui all’art. 581, comma 1, lett. a), cod. proc. pen., ma si limitava a reclamare, con un unico motivo, nonostante il giudicato sostanziale, l’applicazione della causa estintiva sopravvenuta alla medesima decisione, doglianza distonica rispetto al regime di tassatività dei ‘casi’ di ricorso ex art. 606, comma 1, cod. proc. pen. e, quindi, non consentita. Coerente la conclusione della inammissibilità del ricorso con effetti assorbenti e preclusivi.

7.5. A completamento dell’iter esegetico intrapreso sin dagli anni ‘90 e seguendo le stesse linee interpretative delle due decisioni da ultimo citate, si pone Sez. U, n. 23428 del 22/03/2005, Bracale, Rv. 231164, che affronta il tema, sovrapponibile a quello oggetto del presente giudizio, della inammissibilità del ricorso per cassazione quale dato preclusivo della possibilità di far valere o di rilevare d’ufficio, ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., l’estinzione del reato per prescrizione, anche se maturata in data anteriore alla pronuncia della sentenza impugnata, ma non dedotta né rilevata dal giudice nel precedente grado.

In tale decisione si ribadisce testualmente che ‘l’intervenuta formazione del giudicato sostanziale derivante dalla proposizione di un atto d’impugnazione invalido, perché contrassegnato da uno dei vizi indicati dalla legge (art. 591, comma 1, con eccezione della rinuncia ad un valido atto di impugnazione; art. 606, comma 3), precluda ogni possibilità sia di far valere una causa di non punibilità precedentemente maturata sia di rilevarla d’ufficio’.

In sostanza, di fronte ad un atto di impugnazione invalido e, quindi, inidoneo ad attivare il corrispondente rapporto processuale, non è possibile riconoscere alle cause di non punibilità già maturate in sede di merito (prescrizione) una loro effettività sul piano giuridico, rimanendo le stesse relegate nella categoria di ‘fatti storicamente verificatisi ma giuridicamente indifferenti per essersi già formato il giudicato sostanziale’.

Si precisa tuttavia – richiamando un inciso criptico di Sez. U, De Luca e un passaggio più esplicito di Sez. U, Cavalera – che al giudice dell’impugnazione inammissibile è consentito, quale eccezione alla regola, confrontarsi, privilegiando l’applicazione dell’art. 129 cod. proc. pen., con peculiari cause di non punibilità rigorosamente delimitate, quali l’abolitio criminis, la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice formante oggetto dell’imputazione, l’ipotesi in cui debba essere dichiarata l’estinzione del reato a norma dell’art. 150 cod. pen., l’ulteriore ipotesi – già considerata da Sez. U, n. 24246 del 25/02/2004, Chiasserini, Rv. 227681 – di estinzione del reato per remissione di querela, intervenuta in pendenza del ricorso per cassazione e ritualmente accettata. Su tale epilogo deve, però, prevalere la declaratoria d’inammissibilità, se questa è riconducibile all’inosservanza del termine per impugnare, considerato che in tal caso il giudicato sostanziale finisce col coincidere con quello formale.

7.6. Nel solco delle indicazioni tracciate dalle pronunce delle Sezioni Unite De Luca, Cavalera e Bracale, si pone una parte della successiva giurisprudenza di legittimità, che ribadisce il principio secondo cui tutte la cause di inammissibilità del ricorso per cassazione (ad eccezione della rinuncia ad un valido atto di impugnazione, costituente causa sopravvenuta di inammissibilità) integrano un vizio intrinseco dell’atto, impediscono la valida costituzione del rapporto processuale d’impugnazione e sono di ostacolo a far valere (secondo alcune decisioni, anche con specifico motivo di ricorso) o a rilevare d’ufficio, ex art. 129 cod. proc. pen., l’estinzione del reato per prescrizione pur se maturata in data anteriore alla sentenza di merito, ma non dedotta né rilevata in quella sede (Sez. 6, n. 25807 del 14/03/2014, Rizzo, Rv. 259202; Sez. 1, n. 6693 del 20/01/2014, Cappello, Rv. 259205; Sez. 3, n. 42839 del 08/10/2009, Imperato; Sez. 1, n. 24688 del 04/06/2008, Rayyan, Rv. 240594).

Dopo le richiamate decisioni delle Sezioni Unite, non si riscontrano nella giurisprudenza di legittimità orientamenti contrari al principio di diritto che nega, in presenza di un ricorso per cassazione inammissibile, la rilevabilità ex officio della prescrizione maturata successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata, a prescindere dal fatto che detta causa estintiva si sia verificata prima o dopo la presentazione del ricorso. Altrettanto dicasi per la ritenuta inammissibilità del ricorso proposto unicamente per fare valere la prescrizione maturata nell’arco temporale compreso tra la decisione impugnata e la presentazione dell’impugnazione.

Il difforme indirizzo esegetico riguarda soltanto il superamento dell’effetto preclusivo del ricorso inammissibile ai fini della declaratoria di estinzione del reato per prescrizione intervenuta prima della sentenza d’appello e da questa non dichiarata.

Tale opzione ermeneutica, in dissenso con la sentenza Sez. U, Bracale, ma prendendo spunto dagli argomenti in essa sviluppati, assimila la prescrizione maturata prima della conclusione della fase di merito all’abolitio criminis, all’incostituzionalità della norma incriminatrice e alla morte dell’imputato, ipotesi – queste ultime – che, secondo la richiamata sentenza, superano la preclusione del ricorso inammissibile, prevalgono sulla stessa ed assegnano al giudice il potere-dovere della cognizione corrispondente. Questa assimilazione legittima, pertanto, l’incondizionata operatività dell’art. 129 cod. proc. pen. e, conseguentemente, la rilevabilità d’ufficio, anche a fronte di un ricorso inammissibile, della prescrizione maturata prima della sentenza d’appello e da questa non rilevata, considerato che la ratio di tale causa estintiva va individuata nel venire meno, proprio per il decorso del tempo, dell’interesse dello Stato ad esercitare la pretesa punitiva e nel garantire comunque all’individuo di non essere esposto, oltre ogni ragionevole limite temporale, al rischio di punizione per fatti remoti. La prescrizione, per il semplice fatto di essersi già verificata ope legis, non può non essere rilevata, tanto che l’ordinamento, con la previsione di cui all’art. 411 cod. proc. pen., relativa ad alcune ipotesi di archiviazione e, quindi, ancor prima dell’instaurazione di un rapporto processuale in senso stretto, inibisce l’inizio dell’azione penale in presenza di un reato estinto per prescrizione.

Secondo tale orientamento, vi sarebbe una sostanziale differenza, in caso di ricorso inammissibile, tra la prescrizione maturata anteriormente alla sentenza impugnata e quella maturata dopo di essa. La prima, in quanto erroneamente non dichiarata dal giudice di merito, non può incontrare alcuna preclusione ad essere rilevata, sia pure tardivamente, in sede di legittimità, proprio per emendare l’errore commesso. La seconda, invece, non può trovare spazio nell’ambito di un rapporto processuale d’impugnazione soltanto apparente, perché non validamente instaurato e quindi mai venuto ad esistenza, con conseguente formazione del giudicato sostanziale, che arresta il decorso del termine di prescrizione (Sez. 4, n. 27160 del 17/04/2015, Fiandaca, Rv. 264100; Sez. 5, n. 10409 del 15/01/2015, Romano, Rv. 263889; Sez. 3, n. 2001 del 30/10/2014, dep. 2015, Fasciana, Rv. 262014; Sez. 3, n. 46969 del 22/05/2013, R., Rv. 257868; Sez. 5, n. 42950 del 17/09/2012, Xhini, Rv. 254633; Sez. 5, n. 47024 del 11/07/2011, Varone, Rv. 251209).

In altri interventi giurisprudenziali, che si pongono sulla stessa linea interpretativa, si precisa ulteriormente che la rilevabilità d’ufficio della causa estintiva del reato maturata prima della decisione di merito e non dichiarata in quella sede in tanto è possibile in quanto non occorra, a tal fine, alcuna attività di valutazione delle prove volta ad individuare l’effettiva data di consumazione del reato, dalla quale fare decorrere il termine di prescrizione, rimanendo tale attività estranea ai compiti istituzionali della Corte di legittimità (Sez. 4, n. 27019 del 16/06/2015, Pejani, Rv. 263879; Sez. 5, n. 26445 del 17/02/2015, Barone, Rv. 26445; Sez. 2, n. 4986 del 21/01/2015, Piccininni, Rv. 262322; Sez. 4, n. 51776 del 26/11/2014, Celotti, Rv. 261580; Sez. 3, n. 15112 del 21/03/2014, Bombara, Rv. 259185; Sez. 3, n. 14438 del 30/01/2014, Pinto, Rv. 259135; Sez. 2, n. 34891 del 15/05/2013, Vecchia, Rv. 256096).

Ritiene il Collegio che debba essere ribadita la linea interpretativa già tracciata da Sez. U, De Luca, Sez. U, Cavalera e Sez. U, Bracale sopra rammentate, i cui percorsi argomentativi, contraddistinti da corretta impostazione sistematica e da rigorosa consequenzialità logica, non sono posti in crisi dai successivi interventi dissonanti, sia pure limitatamente al tema specifico che viene qui in rilievo, della giurisprudenza di legittimità richiamata al precedente punto 9.

Aspetti focali da considerare sono, per un verso, le conseguenze che discendono dalla proposizione di un ricorso inammissibile e, per altro verso, il rapporto tra inammissibilità dell’impugnazione e applicabilità dell’art. 129 cod. proc. pen., senza trascurare, perché aspetto complementare, la coordinazione con gli specifici compiti assegnati alla Corte di cassazione nelle ipotesi di questioni rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del processo e di quelle che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello (art. 609, comma 2, cod. proc. pen.).

È bene ricordare che su tale problematica, emersa già nella vigenza del codice del 1930, l’attuale codice di rito non offre alcuna soluzione esplicita.

In esso v’è la contemporanea presenza di norme che impongono al giudice obbligatorie declaratorie dal contenuto antitetico, senza stabilire alcun ordine di priorità tra le stesse pronunce.

Da un lato, infatti, l’art. 591, comma 2, cod. proc. pen., contenuto nelle disposizioni generali sulle impugnazioni, impone la verifica delle condizioni di ammissibilità dell’atto introduttivo del rapporto processuale finalizzato al controllo della decisione avversata e, in difetto di tali condizioni, la corrispondente declaratoria di inammissibilità, la cui omissione (l’ipotesi logicamente è riferibile al solo atto d’appello) determina certamente una patologia, alla quale può porsi rimedio – in quanto vizio rilevabile in ogni stato e grado del procedimento, ai sensi del comma 4 della citata norma – con il ricorso per cassazione; l’art. 606, comma 3, cod. proc. pen., inoltre, prevede, con riferimento specifico all’impugnazione di legittimità e alle sue peculiarità, la medesima verifica. Da un altro lato, l’art. 129 cod. proc. pen., ispirato alla tutela del favor rei, inteso nella specificazione del favor innocentiae, impone, al contempo, l’immediata declaratoria di ufficio, in ogni stato e grado del processo, di determinate cause di non punibilità.

La rilevata antitesi tra pronunce contemporaneamente imposte dall’ordinamento è, però, soltanto apparente, rinvenendosi in esso disposizioni che consentono, se interpretate secondo canoni di coerenza sistematica, di delineare il regime delle interferenze tra cause di inammissibilità e cause di non punibilità.

11.1. Non può farsi riferimento – come pure si è ritenuto nei primi interventi giurisprudenziali sul vigente codice di rito (Sez. 1, n. 3228 del 08/10/1990, Martino, Rv. 185586) e si continua a sostenere da una parte della dottrina – all’art. 648 cod. proc. pen., quale unica norma che esplicitamente evoca il rapporto tra inammissibilità dell’impugnazione e irrevocabilità della sentenza.

Tale norma, dopo avere premesso che è irrevocabile la sentenza non più soggetta a impugnazione diversa dalla revisione (comma 1), aggiunge che ‘Se l’impugnazione è ammessa, la sentenza è irrevocabile quando è inutilmente decorso il termine per proporla o quello per impugnare l’ordinanza che la dichiara inammissibile. Se vi è stato ricorso per cassazione, la sentenza è irrevocabile dal giorno in cui è pronunciata l’ordinanza o la sentenza che dichiara inammissibile o rigetta il ricorso’ (comma 2). Identica disposizione è contenuta nel comma 3 per il decreto penale di condanna.

Da tale dato testuale si è tratta la conclusione, solo apparentemente logica, che la fase di cognizione del processo si protrarrebbe nel lasso di tempo che intercorre tra la proposizione dell’atto d’impugnazione e la declaratoria, in astratto, d’inammissibilità del medesimo, con la conseguenza che il sopraggiungere di una causa di non punibilità obbligherebbe il giudice a dichiararla, in applicazione dell’art. 129 cod. proc. pen., non essendo ancora irrevocabile la sentenza.

In realtà, l’art. 648 cod. proc. pen. non disciplina l’impugnazione inammissibile, posto che il riferimento ad essa è soltanto indiretto.

La collocazione topografica della norma nel Libro X dell’esecuzione impone di leggerla come volta esclusivamente a individuare il momento in cui la decisione diventa irrevocabile e, quindi, eseguibile.

In particolare, secondo la richiamata norma, comparabile all’art. 576 cod. proc. pen. 1930, la scadenza del termine per proporre impugnazione avverso la sentenza impugnabile, anche nel caso in cui il relativo atto sia stato tardivamente presentato, si iscrive quale condizione per la formazione del giudicato formale. L’utilizzo della particella disgiuntiva ‘o’ che separa questa ipotesi da quella del decorso del termine per impugnare l’ordinanza d’inammissibilità dell’impugnazione indica che l’irrevocabilità della sentenza si realizza automaticamente in coincidenza del verificarsi anche di una sola di esse, con l’ovvia precisazione che il riferimento al provvedimento di cui alla seconda ipotesi non può che riguardare le cause di inammissibilità diverse dalla tardività. A identico esito deve pervenirsi in relazione alla impugnazione di sentenza inoppugnabile. In questi due casi, il giudicato sostanziale si trasforma in giudicato formale.

Diversamente opinando, si perverrebbe all’irragionevole conclusione che l’atto d’impugnazione, pur se largamente tardivo o non previsto, sarebbe sempre idoneo ad impedire il giudicato formale, con intuibili riverberi devastanti sulla fase esecutiva eventualmente già in atto (Sez. U, n. 47766 del 26/06/2015, Butera, Rv. 265107; Sez. U, Chiasserini, cit.; Sez. 1, n. 35503 del 24/06/2014, Kiem, Rv. 260287).

È ovvio che, nei casi d’inammissibilità dell’impugnazione diversi da quelli a cui si è fatto riferimento, l’irrevocabilità della sentenza (giudicato formale) consegue alla irrevocabilità del provvedimento dichiarativo dell’inammissibilità, senza che ciò vada ad incidere – come si preciserà in seguito – sugli effetti del giudicato in senso sostanziale, categoria sganciata dalla disposizione di cui all’art. 648 cod. proc. pen..

Conclusivamente, non può ricavarsi dalla norma in esame alcun principio destinato a disciplinare la fase di cognizione e i poteri esercitabili dal giudice in quella sede. L’accertamento formale della inammissibilità dell’impugnazione interferisce certamente, come di dirà, sui poteri cognitivi del giudice procedente, ma ciò è semplicemente funzionale all’avvio della fase esecutiva e a dare accesso allo ius puniendi.

11.2. Richiamando un passaggio di Sez. U, Cresci, ripreso dai successivi interventi delle Sezioni Unite, è sull’insieme delle norme che regolano il processo che deve, invece, farsi leva, per trarre da esse, seguendo un percorso ermeneutico di ordine sistematico, la disciplina del problematico rapporto tra cause di inammissibilità e cause di non punibilità.

Superata la scansione temporale che, nel vigore del codice del 1930, separava il momento della dichiarazione d’impugnazione da quello della presentazione dei motivi, aspetto questo speculare alla distinzione tra inammissibilità originaria e inammissibilità sopravvenuta, e considerato che il codice vigente prevede l’unicità dell’atto d’impugnazione, che si contraddistingue per la regolamentazione analitica di tutti i requisiti richiesti (artt. 581 e 606, comma 3, cod. proc. pen.), deve ricostruirsi l’inammissibilità dell’impugnazione come categoria unitaria, e ciò in aderenza al dato normativo posto incisivamente in luce da Sez. U, De Luca, le cui conclusioni vanno pienamente condivise e ribadite.

12.1. In sostanza, tutte le ipotesi di inammissibilità previste, in via generale, dall’art. 591, comma 1, lett. a), b), c), cod. proc. pen., e, con riguardo specifico al ricorso per cassazione, dall’art. 606, comma 3, cod. proc. pen. viziano geneticamente l’atto, che, ponendosi al di fuori della cornice normativa di riferimento, provoca la reazione dell’ordinamento con la corrispondente sanzione, quale risposta ad un potere di parte non correttamente esercitato.

Dette ipotesi, a prescindere dalle modalità più o meno agevoli di rilevazione, sono tutte ugualmente intrinseche alla struttura dell’atto, sì da renderlo inidoneo ad investire il giudice del grado successivo della piena cognizione del processo. Le stesse sono, per lo più, espressione di un tatticismo difensivo a fini dilatori, che mira a procrastinare il passaggio in giudicato formale della sentenza, nella prospettiva spesso di propiziare la scadenza dei termini di prescrizione. Il loro accertamento ha natura meramente dichiarativa e, quindi, efficacia ex tunc.

Ciò vale anche per il caso più discusso della ‘manifesta infondatezza’ dei motivi di ricorso, figura per la quale non è ravvisabile alcun discrimine qualitativo rispetto alle altre (Sez. U, De Luca).

Essa deve emergere ictu oculi, senza un particolare sfoggio di dialettica per rilevarla, altrimenti verrebbe meno ogni possibilità di distinguerla dalla ‘semplice infondatezza’, e deve essere delibata secondo canoni valutativi equilibrati ma di massimo rigore, orientati ad evidenziare la pretestuosità della questione dedotta, vale a dire una situazione simile a quella prevista per il giudizio incidentale di costituzionalità, secondo cui, come sottolineato da autorevole dottrina, ‘manifestamente infondate sono quelle eccezioni che non possono essere proposte nisi tergiversatione aliqua’. L’inammissibilità per manifesta infondatezza, al pari degli altri casi, mira a reprimere l’abuso processuale, integrato dalla proposizione di una impugnativa non conforme al modello normativo, priva di ogni base giuridica e contraria ad ogni postulato di razionalità (si veda l’esemplificazione contenuta in Sez. U, De Luca).

12.2. La sola causa di inammissibilità che sfugge all’inquadramento nella unitaria categoria di cui si è detto è la rinuncia alla impugnazione, che sia, però, geneticamente ammissibile (art. 591, comma 1, lett. d), cod. proc. pen.), in quanto è vicenda diversa dalle altre e l’effetto che produce deriva dall’esercizio di un diritto potestativo dell’interessato, che pure è in grado di estinguere il rapporto processuale validamente introdotto, provocando, non appena dichiarata l’inammissibilità, la verificazione del giudicato formale.

È indubbio che la diagnosi di ammissibilità dell’impugnazione – al pari di quanto accade in materia di giurisdizione, di competenza, di improcedibilità per mancanza di querela – deve precedere logicamente e cronologicamente lo scrutinio circa la fondatezza dei motivi proposti e l’eventuale decisione di merito ex art. 129 cod. proc. pen..

Soltanto l’accertata ammissibilità dell’impugnazione, per l’effetto propulsivo che la connota, investe il giudice del potere decisorio sul merito del processo.

Al contrario, la declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione preclude una qualsiasi pronuncia sul merito. La porzione di processo che si svolge tra il momento in cui si sollecita l’instaurazione del grado superiore di giudizio e quello in cui tale sollecitazione è dichiarata inammissibile rimane circoscritta al solo accertamento della questione processuale relativa alla sussistenza del presupposto di ammissibilità e, in difetto di questo, non riserva spazio ad altre decisioni.

Né vale obiettare che l’esame dell’inammissibilità da parte del giudice dell’impugnazione presuppone comunque l’esercizio della potestà giurisdizionale, nel cui ambito, che integra uno ‘stato e grado’ del processo, sarebbe consentito rilevare le cause di non punibilità.

È agevole replicare, con le parole di autorevole dottrina, che l’attività processuale di accertamento di una causa di inammissibilità costituisce, ‘se si vuole, un grado successivo a quello concluso con la sentenza impugnata, ma in senso del tutto formale, e cioè dal punto di vista delle dimensioni esteriori della sequenza procedurale; in realtà qui c’è soltanto un simulacro di un procedimento giurisdizionale, e la declaratoria d’inammissibilità non sta a significare altro che questo: poiché l’atto che la legge definisce impugnazione non è stato posto in essere in conformità alla sua fattispecie normativa, il giudice ad quem non può interloquire sul tema del procedimento, concluso con l’esaurimento del precedente grado, ed anzi deve declinare la questione’.

La sentenza invalidamente impugnata diventa intangibile sin dal momento in cui si concretizza la causa di inammissibilità, che va apprezzata in un’ottica ‘sostanzialistica’ della dinamica impugnatoria e delle relative conseguenze sul piano delle preclusioni processuali (giudicato sostanziale). La successiva declaratoria d’inammissibilità della impugnazione da parte del giudice ad quem ha carattere meramente ricognitivo di una situazione già esistente e determina la formazione del giudicato formale.

L’inammissibilità dell’impugnazione, quindi, paralizza, sin dal suo insorgere, i poteri decisori del giudice, il quale, al di là dell’accertamento di tale profilo processuale, non è abilitato a occuparsi del merito e a rilevare, a norma dell’art. 129 cod. proc. pen., cause di non punibilità, quale l’estinzione del reato per prescrizione, sia se maturata successivamente alla sentenza impugnata sia se verificatasi in precedenza, nel corso cioè del giudizio definito con tale sentenza, destinata a rimanere immodificabile, proprio perché contrastata da una impugnazione inammissibile.

Diversamente opinando, si verificherebbe una impropria ‘sanatoria’ delle situazioni di inammissibilità e risulterebbe arbitrariamente alterato il fisiologico svolgimento dell’iter processuale.

13.1. È pur vero che l’art. 609, comma 2, cod. proc. pen. amplia lo spazio di cognizione del giudizio di cassazione al di là dei motivi proposti, consentendo l’esame delle questioni rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del processo, quali certamente sono le cause di non punibilità di cui all’art. 129 cod. proc. pen..

Il sistema delle impugnazioni, però, è contraddistinto comunque dal principio dispositivo, nel senso che è nella facoltà delle parti dare ingresso, attraverso un atto conforme ai requisiti di legge richiesti, al procedimento di impugnazione e delimitare i punti del provvedimento da sottoporre al controllo dell’organo giurisdizionale del grado successivo. Ne consegue che il momento di operatività dell’effetto devolutivo ope legis non può che coincidere con la proposizione di una valida impugnazione, che investa l’organo giudicante della cognizione della res iudicanda, con riferimento sia ai motivi di doglianza articolati dalle parti sia a quelli che, inerendo a questioni rilevabili d’ufficio, si affiancano per legge ai primi. Laddove l’impugnazione è inammissibile, non può il giudice ex officio dichiarare l’esistenza di una causa di non punibilità, posto che la verifica negativa di ammissibilità dell’impugnazione, come si è detto, ha valore assorbente e preclusivo rispetto a qualsiasi altra indagine di merito.

Esistono all’interno dell’ordinamento fondamentali esigenze di funzionalità e di efficienza del processo, che devono garantire – nel rispetto delle regole normativamente previste e in tempi ragionevoli – l’effettivo esercizio della giurisdizione e che non possono soccombere di fronte ad un uso non corretto, spesso strumentale e pretestuoso, dell’impugnazione.

È il caso di sottolineare che non può farsi leva, a sostegno dell’opposta tesi, sulla ratio ispiratrice dell’art. 129 cod. proc. pen. per trarre argomenti decisivi a favore della prevalenza della declaratoria di non punibilità.

Tale norma non riveste una valenza prioritaria rispetto alla disciplina della inammissibilità, considerato che non attribuisce, di per sé, al giudice dell’impugnazione un autonomo spazio decisorio, svincolato dalle forme e dalle regole che presidiano i diversi segmenti processuali, ma si limita a dettare una regola di giudizio, che deve essere adattata alla struttura del processo per così come normativamente disciplinata e che deve guidare il giudice nell’esercizio dei poteri decisori che già gli competono in forza di una corretta investitura (Sez. U, n. 12283 del 25/01/2005, De Rosa, Rv. 230529). È in questa cornice positiva che va letta e apprezzata la ratio dell’art. 129 cod. proc. pen., che persegue certamente gli obiettivi del favor innocentiae e dell’economia processuale (immediata declaratoria di cause di non punibilità), ma nell’ambito di ben individuate scansioni processuali.

13.2. L’opzione ermeneutica privilegiata, oltre ad avere salde fondamenta sul piano esegetico innanzi illustrato, trova conforto ulteriore nell’art. 610 cod. proc. pen., così come novellato dalla legge 26 marzo 2001, n. 128, che ha affidato alla c.d. ‘sezione-filtro’ della Corte di cassazione il vaglio di ammissibilità dei ricorsi.

In sostanza, la riforma normativa conferma che la verifica sull’ammissibilità del ricorso ha natura prioritaria e autonoma rispetto alla trattazione del merito, tanto da essere stata affidata, per razionalizzare l’organizzazione interna dell’ufficio, ad apposita sezione della Corte.

È sintomatico, peraltro, che nella legge n. 128 del 2001 non v’è alcuna riserva sulla eventuale operatività dell’art. 129 cod. proc. pen., il che avalla, sia pure indirettamente, il carattere assorbente e preclusivo della declaratoria d’inammissibilità del ricorso, ove ritenuta.

13.3. Non si ignora che, nel corso dei lavori preparatori della legge che istituiva la sezione-filtro della Corte di cassazione, fu presentato un ordine del giorno, accolto dal Governo (seduta del Senato in data 6 marzo 2001), nel quale si muovevano pesanti critiche all’approdo interpretativo delineato da Sez. U. De Luca, tanto che lo si stigmatizzava come ‘opinabile nel merito’ e ‘difficilmente comprensibile sul piano del metodo’, fino a definirlo come espressione paradigmatica dello sconfinamento del potere giurisdizionale nelle prerogative riservate al legislatore.

Desta non poche perplessità tale modo di concepire il proprium dell’attività interpretativa affidata al giudice. Si ignora la teoria giusrealista della interpretazione e si fa ricorso suggestivamente ad affermazioni superficiali ed apodittiche. Queste sono smentite dall’articolato percorso argomentativo, qui condiviso, su cui riposa la citata sentenza, che, in stretta aderenza al dato normativo esistente e senza creare tensioni con esso, ricostruisce, con rigorosa coerenza sistematica, il significato delle disposizioni che regolano il processo e, in particolare, l’accesso al rapporto d’impugnazione, senza indulgere in soluzioni – queste sì in tensione insanabile col dato normativo – che appaghino asserite esigenze di giustizia sostanziale, delle quali, proprio in mancanza di una previsione positiva, non può che farsi carico de iure condendo il legislatore.

13.4. Si deve aggiungere che la ricostruzione sistematica operata non si pone in contrasto neppure con i diritti garantiti dagli artt. 6, 1 e 2, e 7, 1, CEDU, posto che è onere della parte interessata attivare correttamente il rapporto processuale d’impugnazione, con l’effetto che, ove ciò non avvenga, il giudice del grado successivo deve limitarsi a dichiarare l’inammissibilità dell’impugnazione e non ha poteri cognitivi sul merito del processo, il cui esito rimane definito dalla pronuncia invalidamente impugnata, che non può più, quindi, essere emendata.

Di fronte a tale situazione, determinata dal comportamento, contrario alle regole processuali, della stessa parte interessata, non v’è alcuna violazione delle garanzie di equità, razionalità e ragionevole durata del processo (art. 6, 1, CEDU), né del diritto di presunzione d’innocenza della persona fino a pronuncia definitiva di colpevolezza (art. 6, 2, CEDU), né della garanzia di prevedibilità di tutte le conseguenze negative – anche sotto il profilo della tutela processuale della condotta realizzata (art. 7, 1, CEDU).

La esposta scelta ermeneutica in ordine alla questione specifica sottoposta all’esame delle Sezioni Unite merita di essere ulteriormente approfondita attraverso il confronto con il diverso orientamento esegetico.

La ritenuta priorità logica e cronologica dell’accertata inammissibilità del ricorso per cassazione, con la conseguente preclusione all’esame del merito e, quindi, alla rilevabilità della estinzione del reato per prescrizione, verificatasi prima della pronuncia della sentenza d’appello, ma non rilevata dal giudice di secondo grado e neppure dedotta dalla difesa dell’imputato, né in sede di gravame né con il ricorso per cassazione, resiste agli argomenti di segno contrario posti a base dell’orientamento interpretativo che ha dato origine al contrasto di giurisprudenza in sede di legittimità.

14.1. Non può essere condivisa la tesi che valorizza la specifica causa di non punibilità di cui si discute oltre la soglia del giudicato sostanziale, ritenendola prevalente sulla declaratoria d’inammissibilità dell’impugnazione.

Se la presentazione di un ricorso invalido comporta l’inammissibilità del medesimo, osta quindi ad un valido avvio della corrispondente fase processuale e determina la formazione del ‘giudicato sostanziale’, deve coerentemente concludersi che il giudice, in quanto non investito del potere di cognizione e decisione sul merito del processo, non può rilevare eventuali cause di non punibilità, ivi compresa la prescrizione del reato intervenuta prima della sentenza conclusiva del grado precedente.

La tesi che si contrasta assimila la estinzione del reato già prescritto nel corso del giudizio di merito e in quella sede non rilevata alle ipotesi derogatorie, in cui il giudice, pur a fronte di una impugnazione inammissibile, ad eccezione di quella proposta fuori termine, mantiene intatta la sua cognizione e, conseguentemente, la possibilità di rendere una decisione diversa dall’inammissibilità. Il riferimento è ai casi – indicati da Sez. U, Bracale – di abblitio criminis, dichiarazione di incostituzionalità della norma incriminatrice applicabile al caso concreto e morte dell’imputato, in relazione ai quali l’inammissibilità dell’impugnazione diventa recessiva.

La ritenuta assimilazione sarebbe giustificata dalla funzione e dalla stessa ratio dell’istituto della prescrizione, che trova attuazione in base all’automatico meccanismo naturale del trascorrere del tempo, conducente, sul piano giuridico, all’estinzione del reato, con la inferenza che, se ‘il giudice non può fare a meno di constatare la morte del reo, non si vede come possa fare a meno di riconoscere la morte del reato’.

L’argomento, pur suggestivo, è meramente assertivo e mostra tutta la sua fragilità.

Non è, infatti, ravvisabile una comune ragione giustificatrice tra l’ipotesi di cui si discute e le deroghe, innanzi indicate, alla generale prevalenza della inammissibilità dell’impugnazione, tenuto conto della peculiare fisionomia dello statuto di queste ultime.

14.2. Più in particolare, i casi di abolitio criminis e dichiarazione di incostituzionalità della norma incriminatrice, determinando la revoca della sentenza di condanna da parte del giudice dell’esecuzione ex art. 673 cod. proc. pen., ben possono essere rilevati, pur in presenza di un ricorso inammissibile, dal giudice della cognizione, che si limita ad anticipare, per ragioni di economia processuale, gli esiti obbligati della fase esecutiva; l’eventuale declaratoria d’inammissibilità, infatti, avrebbe vita effimera e non impedirebbe il successivo intervento derogatorio in executivis. Al contrario, la normativa vigente non prevede che il giudice dell’esecuzione possa revocare il giudicato per intervenuta prescrizione del reato maturata prima della conclusione del processo di merito e non rilevata, sicché non troverebbe alcuna giustificazione l’eventuale intervento al riguardo della Corte di cassazione, investita da un ricorso inidoneo alla valida instaurazione del grado.

Il caso in esame non può essere assimilato neppure alla morte dell’imputato, avvenuta prima della condanna (artt. 150 cod. pen. e 69 cod. proc. pen.). Tale evento determina l’immediata risoluzione del rapporto processuale, tanto che qualunque provvedimento adottato nei confronti di un imputato, ignorandone l’intervenuto decesso, è da considerarsi inesistente giuridicamente, poiché viene a mancare il soggetto (parte processuale necessaria) contro cui far valere la pretesa punitiva. Spetta allo stesso giudice che ha emesso un simile provvedimento il potere-dovere di dichiararne l’inesistenza giuridica e di dare atto dell’intervenuta estinzione del reato per morte dell’imputato anteriormente alla pronuncia dell’anzidetto provvedimento, che può consistere anche nella dichiarazione di inammissibilità del ricorso, il che indirettamente conferma – com’è di intuitiva evidenza – la natura recessiva di questa rispetto alla richiamata causa estintiva (Sez. U, n. 3489 del 23/01/1982, Renna, Rv. 153021; Sez. 6, n. 10199 del 09/03/2010, Iaconis, Rv. 246541; Sez. 6, n. 31299 del 15/07/2009, Rv. 244703; Sez. 1, n. 14509 del 05/03/2009, Lancioni, Rv. 243147; Sez. 6, n. 31470 del 30/04/2003, Conti, Rv. 226207).

È il caso di aggiungere che a non diversa conclusione deve pervenirsi con riferimento alla remissione di querela, intervenuta in pendenza del ricorso per cassazione e ritualmente accettata. Anche tra questo caso e quello d’interesse non sono ravvisabili punti di contatto. La remissione di querela, per la sua peculiare fisionomia, prevale su eventuali cause di inammissibilità e va rilevata e dichiarata dal giudice di legittimità, purché il ricorso sia stato tempestivamente proposto nel rispetto dei termini previsti dall’art. 585 cod. proc. pen. (Sez. U, Chiasserini, cit.). La natura indubbiamente sostanziale della remissione non può essere enfatizzata – nella prospettiva di omologarla tout-court alle altre cause di estinzione del reato – sino al punto da marginalizzarne la valenza processuale e, più specificamente, la sua incidenza sull’oggetto del rapporto processuale. Non può negarsi, invero, che il fondamento politico-criminale della remissione è speculare a quello della querela, nel senso che entrambe sono espressione di un diritto potestativo di parte; la prima, in particolare, è volta ad estinguere gli effetti della condizione di procedibilità già azionata e si designa come condizione di ‘non proseguibilità’ del processo. Tale causa estintiva ha una sua specifica peculiarità, stante il diretto collegamento di essa con l’esercizio dell’azione penale. La sua valorizzazione oltre la soglia del giudicato sostanziale è giustificata dalla prevalenza che deve accordarsi, nei procedimenti per reati perseguibili a querela, alla voluntas del remittente, che, ponendo nel nulla la condizione per l’inizio dell’azione penale, incide sulla progressione del procedimento, il cui epilogo non può che essere la declaratoria di estinzione del reato.

Anche altre deroghe all’effetto preclusivo che deriva dal ricorso inammissibile non offrono argomenti omologabili a sostegno dell’opzione interpretativa che si contrasta.

Il riferimento è agli interventi del Giudice delle leggi e del legislatore sul trattamento sanzionatorio dei reati previsti dalla normativa sugli stupefacenti.

Tali interventi hanno posto il problema del rapporto tra inammissibilità del ricorso e rilevabilità d’ufficio della illegalità (o della non proporzionalità) sopravvenuta della pena inflitta in sede di merito. Trattasi di tema evidentemente diverso e non assimilabile a quello in esame, come agevolmente si evince dagli approdi ermeneutici delle decisioni di seguito indicate.

Sez. U, n. 33040 del 28/07/2015, Jazouli, Rv. 264207, afferma il principio di diritto secondo cui l’illegalità della pena conseguente a dichiarazione d’incostituzionalità di norme riguardanti il trattamento sanzionatorio (cfr. Corte cost., n. 32 del 2014) è rilevabile d’ufficio nel giudizio di cassazione anche in caso di inammissibilità del ricorso. La declaratoria d’incostituzionalità, spiegando effetti ex tunc, incide sul giudicato sostanziale, prevale su di esso e impone al giudice di ricondurre entro limiti legali la sanzione, anticipando in sostanza un intervento che, in difetto, può comunque essere spiegato dal giudice dell’esecuzione (cfr. anche Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, Rv. 260697). Sez. U, n. 46653 del 26/06/2015, Della Fazia, afferma il principio di diritto secondo il quale, in tema di successione di leggi nel tempo, la Corte di cassazione, pur in presenza di un ricorso inammissibile, può d’ufficio ritenere applicabile all’imputato il nuovo e più favorevole trattamento sanzionatorio, disponendo l’annullamento sul punto della sentenza di merito pronunciata prima della modifica normativa in mitius, e ciò perché la finalità rieducativa della pena e il rispetto dei principi di uguaglianza e di proporzionalità impongono di rivalutare, sulla base dei nuovi e più miti parametri edittali, la misura della sanzione precedentemente individuata e non più legalmente conformata. La novella normativa che comporta un mutamento strutturale nei criteri di composizione della pena, rendendo quella inflitta non più in linea con i parametri legali, ha, per così dire, natura ‘esterna’ a qualsiasi valutazione riguardante il processo e integra un motivo ‘costituzionalmente imposto’ (artt. 1 cod. pen., 25, secondo comma, Cost., 7, 1, CEDU e 117, primo comma, Cost.), del quale la Corte di legittimità, anche a fronte di un ricorso inammissibile, deve ‘autoinvestirsi’. Diversamente opinando, conclude la sentenza, si attuerebbe una palese violazione sopravvenuta del diritto fondamentale dell’imputato di vedersi applicato il trattamento sanzionatorio più favorevole, conseguente alla corrispondente scelta espressa dal legislatore sul disvalore della condotta che viene in rilievo.

14.3. Neppure gli ulteriori argomenti sui quali fa leva il contrario orientamento giurisprudenziale possono essere condivisi.

Non quello dell’asserita violazione del principio costituzionale di uguaglianza. Può accadere che, pur in presenza della medesima situazione di fatto e di diritto (prescrizione maturata prima della sentenza d’appello), un imputato bene della estinzione del reato, da lui diligentemente eccepita o comunque rilevata dal giudice di merito; altro imputato, invece, debba subire la condanna, per non avere eccepito la causa estintiva e per non essere stata questa rilevata neppure dal giudice. Trattasi di situazioni che, in relazione alla dinamica processuale in cui si inseriscono, non sono sovrapponibili, considerato che, con riguardo al secondo caso citato, non è soltanto l’error iudicis a determinare il consolidamento della decisione viziata, ma anche la condotta della parte processuale interessata, che propone una impugnazione non conforme al modello legale e inidonea ad instaurare il grado successivo di giudizio. Il discrimine che si vuole accreditare, nello stabilire il rapporto con la declaratoria d’inammissibilità del ricorso, tra prescrizione maturata prima o dopo la sentenza di merito non ha alcun fondamento normativo. L’omessa rilevazione della prescrizione è un dato destinato, come un qualsiasi altro errore, a rimanere privo di rilievo, se non viene attivato il controllo sulla sentenza del giudice precedente, attraverso la proposizione di un valido ricorso.

Privo di consistenza è, infine, l’argomento secondo cui, ancor prima dell’esercizio dell’azione penale e quindi al di fuori dell’instaurazione del rapporto processuale in senso stretto, sussiste l’obbligo di rilevare e dichiarare, con l’archiviazione del procedimento (art. 411 cod. proc. pen.), la prescrizione del reato. Ciò legittimerebbe la conclusione che tale causa estintiva, per il solo fatto di essersi avverata, deve sempre e comunque essere dichiarata anche nell’ambito di un rapporto processuale d’impugnazione non correttamente instaurato.

È agevole replicare che le due ipotesi hanno ratio e fisionomia diverse.

La prima, di natura interlocutoria e sommaria, è ispirata dalla regola di giudizio di cui all’art. 125 disp. att. cod. proc. pen., che impone, a chiusura delle indagini preliminari, di operare un vaglio degli elementi acquisiti nella loro attitudine a giustificare il rinvio a giudizio oppure l’archiviazione per la superfluità dell’accertamento giudiziale (Corte cost., sent. n. 88 del 1991); nella fase delle indagini, non può farsi leva sull’art. 129 cod. proc. pen., la cui applicazione è subordinata all’esercizio dell’azione penale ed è consentita soltanto nella fase processuale vera e propria.

La seconda ipotesi, invece, è propria di quest’ultima fase e non può che conformarsi alle regole che disciplinano la medesima. Ne consegue che, se la parte della sequenza processuale riferibile specificamente al rapporto d’impugnazione è inficiata da invalidità a causa dell’inammissibilità dell’atto introduttivo, il potere cognitivo dell’organo giudicante non può che rimanere circoscritto alla sola rilevazione di tale inammissibilità, che preclude l’esame del fatto in relazione al quale dovrebbe operare la causa di non punibilità ex art. 129 cod. proc. pen..

Alla luce di tutte le argomentazioni sin qui svolte, deve enunciarsi il seguente principio di diritto:

‘L’inammissibilità del ricorso per cassazione preclude la possibilità di rilevare d’ufficio, ai sensi degli artt. 129 e 609, comma 2, cod. proc. pen., l’estinzione del reato per prescrizione maturata in data anteriore alla pronunzia della sentenza d’appello, ma non eccepita nel grado di merito, né rilevata da quel giudice e neppure dedotta con i motivi di ricorso’.

A diversa conclusione deve pervenirsi nel caso in cui con il ricorso per cassazione è dedotta, sia pure come unica doglianza, l’estinzione del reato per prescrizione maturata prima della sentenza d’appello, ma non eccepita dalla parte interessata nel grado di merito né rilevata da quel giudice.

In questa ipotesi, il ricorso non può ritenersi inammissibile e la causa di non punibilità erroneamente non dichiarata dal giudice di merito deve essere rilevata e dichiarata, in accoglimento del proposto motivo, in sede di legittimità.

16.1. Non può condividersi il contrario orientamento espresso da alcune pronunce di legittimità, che, senza particolari approfondimenti ed evocando impropriamente i principi espressi da Sez. U, Cavalera, e Sez. U, Bracale, escludono la possibilità di prendere in considerazione il motivo (unico o associato ad altri motivi pacificamente inammissibili) di ricorso per cassazione volto a fare valere l’estinzione del reato per prescrizione verificatasi prima della pronuncia della sentenza d’appello, per non essere stata tale causa estintiva dedotta né rilevata nel giudizio di merito (Sez. 6, n. 25807 del 14/03/2014, Rizzo; Sez. 3, n. 42839 del 08/10/2009, Imperato; Sez. 1, n. 24688 del 04/06/2008, Ryyan).

16.2. Deve replicarsi che non possono ricavarsi dalle sentenze delle Sezioni Unite evocate da tale orientamento argomenti a conforto della conclusione alla quale lo stesso perviene.

Inconferente è il richiamo a Sez. U, Cavalera, che affronta e risolve la questione, ben diversa, della inammissibilità del ricorso per cassazione proposto unicamente per fare valere la prescrizione maturata ‘dopo’ la decisione impugnata e prima della sua presentazione.

La massima ufficiale di Sez. U, Bracale, può creare effettivamente qualche equivoco nella parte in cui testualmente recita che ‘l’inammissibilità del ricorso per cassazione… preclude ogni possibilità sia di far valere sia di rilevare d’ufficio… l’estinzione del reato per prescrizione, pur maturata in data anteriore alla pronunzia della sentenza d’appello, ma non dedotta né rilevata da quel giudice’. Dall’attenta lettura di questa sentenza, però, si evince che il principio in essa affermato è chiaramente riferibile al caso in cui, nonostante la mancata declaratoria nella sentenza impugnata della prescrizione già maturata, il ricorrente si sia limitato a dedurre con il ricorso censure generiche e, quindi, inammissibili, senza dolersi dell’omessa applicazione dell’art. 129, comma 1, cod. proc. pen. da parte del giudice di merito.

Nessun dato positivo induce a ritenere che non possa censurarsi, con il ricorso per cassazione, l’errore del giudice di appello che ha omesso di dichiarare la già intervenuta prescrizione del reato, pur se non eccepita dalla parte interessata in quel grado.

Il ricorso per cassazione, anche se strutturato su questo solo motivo, è certamente ammissibile, perché volto a fare valere l’inosservanza o l’erronea applicazione della legge penale ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen.. L’error in iudicando si concretizza proprio nella detta omissione, che si riverbera sul punto della sentenza concernente la punibilità. L’impugnazione mira ad emendare tale errore.

L’ammissibilità del ricorso non è pregiudicata dal fatto che il ricorrente, con le conclusioni rassegnate in appello, non ha eccepito la prescrizione maturata nel corso di quel giudizio; né alcuna rilevanza preclusiva all’ammissibilità dell’impugnazione può attribuirsi, in caso di prescrizione verificatasi addirittura prima della proposizione dell’appello, alla mancata deduzione di parte con i relativi motivi (art. 606, comma 3, cod. proc. pen.). L’art. 129 cod. proc. pen. impone al giudice, come recita la rubrica, l’obbligo della immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità e a tale ‘obbligo’ il giudice di merito non può sottrarsi e deve ex officio adottare il provvedimento consequenziale. Se a tanto non adempie, la sentenza di condanna emessa, in quanto viziata da palese violazione di legge, può essere fondatamente impugnata con atto certamente idoneo ad attivare il rapporto processuale del grado superiore, il che esclude la formazione del c.d. ‘giudicato sostanziale’.

In base a quanto argomentato al punto che precede, deve enunciarsi il principio di diritto che segue:

‘È ammissibile il ricorso per cassazione col quale si deduce, anche con un unico motivo, l’intervenuta estinzione del reato per prescrizione maturata prima della sentenza impugnata ed erroneamente non dichiarata dal giudice di merito, integrando tale doglianza un motivo consentito ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen.’.

Dalla ritenuta inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma, che stimasi equa, di euro 1.000,00 a favore della cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 a favore della cassa delle ammende

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