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Suprema Corte di Cassazione

sezione feriale

sentenza 18 novembre 2013, n. 46151

Ritenuto in fatto

1. L.R. ricorre per cassazione avverso la sentenza della Corte d’appello di Messina, in data 14-1-13, con la quale è stata confermata la sentenza di condanna emessa in primo grado, in ordine al delitto di cui all’art. 323 cp perché, in qualità di dirigente scolastico dell’istituto (omissis) , stipulando il contratto di lavoro a tempo determinato n. … del 23-9-2005, previa individuazione del destinatario con provvedimento pari numero dello stesso giorno, con cui veniva conferito a F.G. l’incarico di docente supplente fino al termine delle attività didattiche, per l’insegnamento di scienze matematiche, fisiche e naturali nella scuola media, per 6 ore settimanali di lezione, con decorrenza dal 23-9-05 e cessazione al 30-6-06, presso il citato istituto scolastico – in violazione delle norme sulle modalità di conferimento delle supplenze di cui agli artt. 1,2, 3, 4, 5,7 del DM 25 maggio 2000 n. 201, che imponevano il rispetto delle graduatorie – intenzionalmente procurava a F.G. l’ingiusto vantaggio patrimoniale derivante dagli effetti dell’indebito ottenimento della citata supplenza (percepimento del relativo trattamento economico; incremento del punteggio in graduatoria) ed al contempo arrecava un danno a M.N. , che precedeva il designato e che aveva titolo alla nomina.
2. La ricorrente deduce, con il primo e il secondo motivo, erronea sussunzione della condotta nella fattispecie astratta di cui all’art. 323 cp poiché, nel caso di specie, non si tratta di assegnazione di sede ad un docente disoccupato ma solo di incarico di supplenza temporanea per completamento di orario e cumulabilità di diversi rapporti di lavoro nello stesso anno scolastico, al fine di sostituire il personale temporaneamente assente e per la copertura dei posti resisi disponibili dopo il 31 dicembre di ciascun anno, conformemente alla previsione dell’art. 4 d.m. 25-5-2000 n. 201. Si trattava infatti di conferire un incarico di supplenza temporanea per coprire degli spezzoni orari residui, insufficienti alla formazione di una cattedra autonoma, facendo ricorso, per ragioni di economia e di funzionalità, a docenti già occupati, nella stessa scuola o in altre vicine, facilmente raggiungibili, con disponibilità di ore residue. Orbene, nelle ipotesi di conferimento di supplenze temporanee per completamento di orario, si versa in una fattispecie autonoma rispetto a quella afferente alle supplenze conferite utilizzando le graduatorie di Circolo e di Istituto e il criterio da applicare è esclusivamente quello della facile raggiungibilità delle sedi scolastiche. La M. già effettuava alcune ore di lezione in un istituto scolastico di P. e dunque avrebbe dovuto percorrere circa 60 km da (OMISSIS) laddove il F. , che insegnava a (OMISSIS) , non avrebbe avuto alcun problema a raggiungere (OMISSIS) , che dista soltanto 30 km. È comunque da tener presente che, nella graduatoria dell’Istituto, che era l’unica graduatoria di riferimento, non dovendosi far ricorso, ai fini in disamina, alla graduatoria provinciale, la prof.ssa M. e il Prof. F. presentavano la stessa valutazione e cioè 75 punti ed erano quindi in posizione paritaria.
1.1. Con il terzo motivo, si deduce insussistenza del dolo intenzionale poiché l’imputata ha agito senza alcun intento di arrecare vantaggio o danno a chicchessia e al solo fine di perseguire l’interesse pubblico dell’amministrazione scolastica.
1.2. Con il quarto motivo, si denuncia contraddittorietà della motivazione poiché la Corte d’appello, da un lato, ha affermato la sussistenza della violazione del regolamento, nella parte concernente le modalità di conferimento delle supplenze in ipotesi di completamento di orario e, dall’altro, ha escluso l’applicabilità dell’art. 7, riguardante le supplenze conferite utilizzando le graduatorie di Circolo e di Istituto, su cui si era basata la sentenza di primo grado.
1.3. Con il quinto motivo, si deduce travisamento del fatto, in quanto la Corte territoriale ha travisato non solo la tematica inerente ai criteri normativi per il conferimento di incarichi di supplenza nei casi di completamento di orario ma anche la regola della facile raggiungibilità della sede e della c.d. “tabella di associabilità dei Comuni” nell’ambito degli Istituti Comprensivi, per determinare il canone della vicinanza delle sedi scolastiche onde conferire l’incarico di supplenza temporanea per completamento di orario e cumulabilità di diversi rapporti di lavoro nello stesso anno scolastico.
1.4. Con il sesto motivo, si deduce inutilizzabilità della testimonianza del sacerdote prof. S.C. poiché l’esame è stato condotto attraverso la tecnica della semplice richiesta di conferma delle precedenti dichiarazioni testimoniali rese non in dibattimento ma nella fase delle indagini preliminari. Questa prova non avrebbe pertanto dovuto essere trasfusa nella motivazione della sentenza di primo grado e valutata come riscontro alla testimonianza accusatoria di C..T. , coniuge della parte civile.
1.5. Con il settimo motivo, si deduce inosservanza dell’art. 192 co 2 cpp, in relazione alla inattendibilità estrinseca oggettiva dei testi de relato C..T. e C..S. , che evocano dialoghi intercorsi post factum tra i due testi e la professoressa L. , dopo che la stessa aveva emanato l’atto amministrativo di conferimento dell’incarico di supplenza temporanea. Trattasi di testi non obiettivi poiché il T. è il marito della M. e S. è amico di entrambi.
2. Le doglianze appena esposte sono state ulteriormente illustrate e argomentate con motivi nuovi, depositati il 9-8-13, in cui si rappresenta anche che non sussiste la prova della collusione fra la L. e la sorella del F. , non potendo essa desumersi dalla sola circostanza che quest’ultima fosse stata docente in organico nell’Istituto diretto dalla L. .
Si chiede pertanto annullamento della sentenza impugnata.

Considerato in diritto

3. La disamina prenderà le mosse dall’analisi del terzo motivo di ricorso, che è fondato. Ormai da lungo tempo, le Sezioni unite (Sez. Un. 12-10-93, Cassata, in Cass. pen., 1994, p. 1186, n. 685; Sez. un., 14-2-96, Mele, in Cass. pen., 1996, p. 2505, n. 1419; Sez. un. 15-12-92, Cutruzzolà, in Cass. pen., 1993, p. 1095, n. 646), procedendo ad un’actio finium regundorum tra i concetti di dolo intenzionale, diretto ed eventuale, hanno enucleato dal sistema i seguenti principi: : si ha dolo intenzionale allorché l’evento sia dall’agente perseguito come scopo finale; dolo diretto ove l’evento, pur non perseguito dal reo, si rappresenti alla sua mente in un’ottica di elevata probabilità o di certezza; dolo eventuale qualora l’azione venga posta in essere con la consapevolezza che l’evento, non direttamente voluto, ha la probabilità di verificarsi in conseguenza della propria azione e con accettazione volontaristica di tale rischio. Ed in tale prospettiva, le Sezioni unite, hanno esteso l’area del dolo eventuale fino a ricomprendervi la rappresentazione in termini di mera possibilità, affermando che sussiste il dolo eventuale allorché l’agente, ponendo in essere una condotta diretta ad altri scopi, si rappresenti la concreta possibilità del verificarsi di ulteriori conseguenze della propria azione e, nonostante ciò, agisca, accettando il rischio di cagionarle (Sez. un.,14-2-96, Mele, in Cass. pen., 1996, p. 2505, n. 1419).
Come è noto, soltanto la prima forma di dolo è compatibile con il reato di abuso d’ufficio. Il legislatore ha infatti inteso, con l’avverbio “intenzionalmente”, rendere necessario che l’evento sia la conseguenza immediatamente presa di mira dall’agente, escludendo, in tal modo, le condotte poste in essere sia con dolo diretto che con dolo eventuale (Sez. VI 8-4-2003, n. 21443, rv. n. 226040). Occorre dunque la rappresentazione e la volizione dell’evento di vantaggio patrimoniale o di danno come conseguenza diretta e immediata della condotta dell’agente e obiettivo primario da quest’ultimo perseguito. Ne deriva che, se l’evento tipico è una semplice conseguenza accessoria dell’operato dell’agente, volto a perseguire, in via primaria, l’obiettivo della realizzazione di un interesse pubblico di preminente rilievo, riconosciuto dall’ordinamento, non è ravvisabile il dolo intenzionale e pertanto il reato non è configurabile (Sez. VI 24-2-2004 n. 21091, rv. n. 228811; Sez. VI 6-5-2008, n. 35859, rv. n. 241210). L’elemento soggettivo del delitto di cui all’art. 323 cp consiste dunque nella coscienza e volontà del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio di abusare dei poteri inerenti alle proprie funzioni o al proprio servizio, avendo di mira, alternativamente o congiuntamente, l’ingiusto vantaggio patrimoniale o il danno altrui, che non debbono pertanto essere semplicemente cagionati come risultato accessorio della condotta (Sez. VI, 20-9-2002 n. 34624, Cass. pen. 2003, 2651).
3.1. La prova dell’intenzionalità del dolo esige l’acquisizione di elementi idonei a radicare la certezza che la volontà dell’imputato sia stata precipuamente orientata a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto. Tale certezza non può derivare esclusivamente dal comportamento non iure dell’agente ma deve essere inferita anche da altri elementi sintomatici, quali la specifica competenza professionale dell’agente, l’apparato motivazionale su cui si fonda il provvedimento e i rapporti personali tra il pubblico ufficiale e il soggetto che riceve vantaggio patrimoniale o subisce danno (Sez. VI, 27-6-2007, n. 35814, rv. n. 237916). Ne deriva che, sebbene non sia indefettibile la prova della collusione del pubblico ufficiale con i beneficiari dell’abuso, essendo sufficiente la verifica del favoritismo posto in essere mediante l’abuso dell’atto di ufficio (Sez. VI 19-11-1999, Giansante, Cass. pen. 2001, 123), nella prospettiva dell’accertamento del dolo, assumeranno rilievo i rapporti personali tra i predetti soggetti, il contesto fattuale ed ogni altro elemento idoneo a dimostrare che l’iter amministrativo sfociato nell’emanazione del provvedimento sia stato preceduto, accompagnato o seguito da accordi con il pubblico ufficiale o comunque da pressioni dirette a sollecitarlo o a persuaderlo al compimento dell’atto illegittimo (Sez. VI 21-5-2009, n. 40499, rv. n. 245010).
4. Nel caso in disamina, l’apparato logico posto a fondamento della sentenza di secondo grado non è esente da vizi, non evincendosi con chiarezza sulla base di quali argomentazioni i giudici di merito siano pervenuti all’asserto relativo alla sussistenza del dolo intenzionale. La Corte territoriale si è infatti limitata a porre in rilievo le testimonianze del T. e di padre S. . L’incongruenza delle spiegazioni fornite (la continuità didattica,in una circostanza; la bravura del F. nel gestire una classe indisciplinata, in un’altra occasione) dimostrerebbe come, da parte della L. , non vi fosse stata alcuna difficoltà d’interpretazione della normativa in materia ma soltanto la precisa volontà di favorire il F. . Non sarebbe casuale, a dire della Corte territoriale, che, in dibattimento, la L. abbia cercato di giustificare la decisione attraverso l’unico spazio apparentemente praticabile, nel frattempo individuato: quello cioè di una possibile questione interpretativa del regolamento, approfittando della circostanza inerente al servizio della M. a P. e senza più alcun riferimento a quanto esternato al T. e allo S. . Di qui la conclusione secondo la quale, nel caso sub iudice, ci si trova di fronte non ad una interpretazione pur obiettivamente erronea ma volta, ad esempio, ad agevolare, sotto il profilo organizzativo, la scuola, bensì ad una interpretazione precipuamente volta, per collusione con la sorella del F. , che operava all’interno dell’istituto, ad attribuire illegalmente al F. un ulteriore incarico.
5. Orbene, in tema di sindacato del vizio di motivazione, il compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta dai giudici di merito, bensì di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (Sez. un. 13-12-95 Clarke, rv. 203428).
In questa prospettiva, non può non rilevarsi come sia completamente estranea al tessuto motivazionale della sentenza impugnata la tematizzazione del profilo inerente ai rapporti tra i protagonisti della vicenda. Non si evince infatti quale sia stato l’iter logico -giuridico esperito dai giudici di merito per pervenire all’asserto relativo alla sussistenza di una collusione tra l’imputata e la sorella del F. : ciò che non può certo evincersi dalla semplice circostanza che quest’ultima operasse dentro l’istituto. Il giudice a quo non specifica infatti da quanto tempo la sorella del F. lavorasse all’interno dell’istituto, né con quale qualifica né in che rapporti fosse con la L. . Nemmeno è dato comprendere sulla base di quale itinerario logico il giudice di secondo grado pervenga alla conclusione relativa alla pretestuosità della prospettazione inerente ad una erronea interpretazione della normativa disciplinante la materia, da parte dell’imputata. In quest’ordine di idee, non può ritenersi esente da censure, sotto il profilo concettuale, l’argomentazione relativa alla varietà di giustificazioni offerte dall’imputata in merito alle ragioni dell’emissione, da parte sua, del provvedimento incriminato, essendo del tutto conforme all’id quod plerumque accidit che un soggetto moduli il proprio atteggiamento assertivo a seconda del contesto in cui si trova ad affrontare un determinato argomento e dell’interlocutore al quale si rivolge. È pertanto ben possibile che, nell’ambito di colloqui privati, si faccia riferimento a profili di opportunità, come la continuità didattica, o ad aspetti inerenti ai meriti del soggetto interessato, come l’abilità dimostrata nella gestione dei rapporti con una classe di alunni particolarmente indisciplinati; mentre in un contesto del tutto eterogeneo, come un dibattimento penale, si proponga un argomentare incentrato su profili di legittimità del provvedimento amministrativo. Così come incongrua è l’affermazione secondo la quale la mancata revoca del provvedimento, da parte della L. , sarebbe dipesa dalla convinzione che, alla fine, la M. si sarebbe astenuta dal denunciare i fatti o dal far valere i propri diritti, nonostante le insoddisfacenti spiegazioni ricevute. Il giudice a quo, infatti, nulla dice in merito alle ragioni per le quali un soggetto che assuma la lesione della propria sfera giuridica ad opera di un atto amministrativo e che, per di più, riceva dall’autore del provvedimento spiegazioni incongrue al riguardo, dovrebbe astenersi dal presentare denuncia o comunque dall’attivarsi a tutela dei propri diritti; né in merito alle ragioni per le quali un pubblico ufficiale, qualora sia ben consapevole dell’illegittimità di un provvedimento emesso e si accorga della reazione del soggetto danneggiato, dovrebbe non revocare l’atto, rischiando una denuncia penale.
6. Dal complesso delle argomentazioni svolte si evince l’impossibilità logica di inferire dall’architettura concettuale delineata dal giudice a quo conclusioni di segno accusatorio supportate da una piattaforma di spessore argomentativo così consistente da valicare la soglia del ragionevole dubbio. Il giudice di merito avrebbe dovuto ricostruire con precisione l’accaduto, in stretta aderenza alle risultanze processuali; verificare se queste ultime, valutate non in modo parcellizzato ma in una prospettiva unitaria e globale, potessero essere ordinate in una costruzione razionale e coerente; trarre una sintesi logica dal materiale probatorio disponibile e dare alle argomentazioni difensive una risposta puntuale (Sez. VI, 11-2-08, n. 34042/07, Napolitano) e di spessore tale da prevalere sulla versione dell’imputato e da approdare sul solido terreno della verità processuale (Cass. 25-6-1996, Cotoli, rv. n. 206131), facendo uso di massime di esperienza consolidate e affidabili e non di mere congetture. E, al riguardo, occorre notare come la giurisprudenza di legittimità abbia tracciato un netto discrimen tra massima di esperienza e mera congettura : una massima di esperienza è un giudizio ipotetico a contenuto generale, indipendente dal caso concreto, fondato su ripetute esperienze ma autonomo da esse, e valevole per nuovi casi (Cass. Sez. VI 7-3-2003, n. 31706, Abbate, rv n. 228401). Si tratta dunque di generalizzazioni empiriche, tratte, con procedimento induttivo, dall’esperienza comune, che forniscono al giudice informazioni su ciò che normalmente accade, secondo orientamenti largamente diffusi nella cultura e nel contesto spazio-temporale in cui matura la decisione. Dunque, nozioni di senso comune (common sense presumptions), enucleate da una pluralità di casi particolari, ipotizzati come generali, siccome regolari e ricorrenti, che il giudice in tanto può utilizzare in quanto non si risolvano in semplici illazioni o in criteri meramente intuitivi o addirittura contrastanti con conoscenze e parametri riconosciuti e non controversi. Nelle massime di esperienza, il dato è connotato da un elevato grado di corroborazione, correlato all’esito positivo delle verifiche empiriche cui è stato sottoposto e quindi la massima può essere formulata sulla base dell’id quod plerumque accidit. La congettura invece si iscrive nell’orizzonte della mera possibilità sicché la massima è insuscettibile di riscontro empirico e quindi di dimostrazione. Pertanto, nella concatenazione logica di vari sillogismi, in cui si sostanzia la motivazione, possono trovare ingresso soltanto le massime di esperienza e non, come nel caso in disamina, le mere congetture (Cass. 22-10-1990, Grilli, Arch n. proc. pen. 1991, 469).
7. Non può pertanto affermarsi che i giudici di secondo grado abbiano preso adeguatamente in esame tutte le deduzioni difensive né che siano pervenuti alla conferma della sentenza di prime cure attraverso un itinerario logico-giuridico immune da vizi, sotto il profilo della correttezza logica,e sulla base di apprezzamenti di fatto esenti da connotati di contraddittorietà o di manifesta illogicità e di un apparato giustificativo coerente con una esauriente analisi delle risultanze agli atti (Sez. un. 25-11-’95, Facchini, rv. 203767).
8. La sentenza impugnata va dunque annullata con rinvio alla Corte di appello di Reggio Calabria,per nuovo esame. Tale epilogo decisorio, comportando un pronunciamento di natura rescindente, determina l’ultroneità della disamina degli ulteriori motivi di ricorso.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo esame alla corte di appello di reggio calabria.

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