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Suprema Corte di Cassazione

sezione feriale

sentenza 28 agosto 2015, n. 35773

Ritenuto in fatto

1. B.B. ricorre per cassazione impugnando la sentenza emessa in data 12 gennaio 2015 con la quale la Corte di appello di Palermo ha confermato quella del tribunale di Trapani che, a seguito di giudizio abbreviato, aveva condannato il ricorrente, con la diminuente del rito, alla pena di mesi dieci di reclusione per il reato previsto dagli articoli 81 cpv. cod. pen., 5 decreto legislativo 10 marzo 2000. n. 74 perché, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, nella qualità di titolare della ditta individuale B.B., con sede in (…) ed esercente l’attività di trasporto merci su strada, al fine di evadere le imposte sui redditi, ometteva di presentare, essendovi obbligato, le prescritte dichiarazioni annuali ai fini delle imposte relative agli anni d’imposta 2005-2006-2007, con conseguente evasione delle imposte dirette relative ai predetti anni di imposta per un ammontare complessivo superiore a Euro 77.468,53 per ciascun anno (Euro 139.388,69 per il 2005; Euro 80.504,20 per il 2006; Euro 111.384,70 per il 2007). Fatto commesso in Alcamo il 29 gennaio 2007 per l’anno di imposta 2005, il 24 dicembre 2007 per l’anno di imposta 2006, il 29 dicembre 2008 per l’anno di imposta 2007.
2. Per la cassazione dell’impugnata sentenza il ricorrente, tramite il difensore, solleva un unico motivo di gravame, articolato in più questioni, con il quale lamenta la violazione della legge penale e l’illogicità della motivazione su punti decisivi per il giudizio (articolo 606, comma 1, lettere b) ed e), codice di procedura penale) sul rilievo che la Corte di appello avrebbe erroneamente ritenuto superata la soglia di punibilità per ciascuno dei tre anni di imposta convalidando il contenuto dell’accertamento svolto dalla Guardia di Finanza che tuttavia non aveva contabilizzato alcun costo in relazione all’attività svolta dal ricorrente, con conseguente illogicità della motivazione in parte qua, non essendo ipotizzabile che l’imputato avesse svolto un’attività economica senza sostenerne i costi.
Peraltro, la Corte territoriale sarebbe incorsa nel vizio di violazione di legge UÈ, laddove ha onerato il ricorrente di provare il mancato superamento della soglia di punibilità.
Né la Corte d’appello ha considerato come la soglia di punibilità fissata nel capo di imputazione fosse inferiore a quella invece necessaria per la integrazione della fattispecie di reato contestato, tanto alla luce della sentenza della Corte costituzionale (il riferimento è alla sentenza n. 80 del 2014 della Corte costituzionale).
Peraltro la Corte distrettuale avrebbe, illogicamente e con mancanza di motivazione, negato al ricorrente la concessione delle attenuanti generiche.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è fondato per quanto di ragione in relazione all’anno di imposta 2005, mentre è infondato nel resto.
2. La Corte territoriale, quanto al calcolo dell’imposta evasa, ha osservato come il ricorrente si fosse limitato a contestare la correttezza della metodologia utilizzata dal tribunale per verificare il superamento della soglia, rappresentata dall’ammontare dell’imposta, affermando che, a tal fine, si sarebbe tenuto conto dei soli ricavi e non anche dei costi, senza però specificare quali voci passive sarebbero state ignorate e quale l’incidenza di esse sul calcolo finale. Sotto tale aspetto, la Corte distrettuale ha ricordato che l’imputato, presente alla verifica compiuta dagli operanti in data 20 maggio 2011, non solo non aveva formulato alcuna osservazione, alle contestazioni delle violazioni, ma neppure aveva esibito alcuna scrittura contabile, né alcun altro documento fiscale obbligatorio, relativo agli anni d’imposta dal 2005 al 2009, nonostante i reiterati inviti rivoltigli (per i quali pertanto il ricorrente è stato considerato un evasore totale).
Perciò la valutazione del tribunale è apparsa alla Corte d’appello del tutto corretta sul rilievo che, per la determinazione dell’imposta evasa, è sufficiente tenere conto soltanto dei ricavi aziendali quando manchino del tutto elementi che possano far ritenere la contemporanea esistenza di costi.
3. Nel pervenire a tali conclusioni, la Corte del merito si è uniformata all’indirizzo già espresso da questa Corte secondo il quale la determinazione delle imposte evase è legittimamente operata anche tenendo conto soltanto dei ricavi aziendali in assenza di elementi che facciano ritenere l’esistenza di poste passive (Sez. 3, n. 35858 del 07/06/2011, Feneri ed altri, Rv. 251281).
Va infatti considerato come, nel caso in esame, i giudici non siano stati minimamente posti a conoscenza dell’esistenza di costi sicché, in ragione degli elementi versati in atti, ad essi non si può rimproverare di aver omesso di approfondirne l’ammontare quando la loro esistenza sia stata solo genericamente affermata senza che lo stesso ricorrente sia stato in grado di specificare quali voci passive sarebbero state pretermesse e come le stesse avrebbero inciso sul calcolo finale.
4. Altrettanto inesatta è l’affermazione, appena accennata in ricorso, secondo cui l’ambito di operatività della sentenza n. 80 del 2014 della Corte costituzionale avrebbe comportato ratione temporis un innalzamento della soglia di punibilità ad Euro 103.291,38, soglia che non sarebbe stata integrata con riferimento alle violazioni relative all’imposta dovuta per l’anno 2006.
Sul punto va brevemente ricordato che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 80 del 12/03/2014, ha statuito che è costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 3 Cost., l’art. 10-terdel d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, nella parte in cui, con riferimento ai fatti commessi sino al 17 settembre 2011, punisce l’omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla relativa dichiarazione annuale, per importi non superiori, per ciascun periodo di imposta, ad Euro 103.291,38.
L’art. 10-ter del d.lgs. n. 74 del 2000 infatti prevedeva, per effetto del richiamo all’art. 10-bis dello stesso d.lgs., una soglia di punibilità più bassa (50.000 Euro) di quelle previste (anteriormente alle modifiche introdotte con l’art. 2, comma 36-vicies semel, del d.l. n. 138 del 2011, aggiunto dalla legge di conversione n. 148 del 2011) per i reati di omessa dichiarazione (77.468,53 Euro) e di dichiarazione infedele (103.291,38 Euro), ledendo così il principio di uguaglianza per le conseguenze sanzionatorie palesemente illogiche che ne derivavano.
Prima del citato intervento legislativo, infatti, a causa del difetto di coordinamento tra dette soglie, nel caso in cui l’IVA dovuta dal contribuente si situasse nell’intervallo tra i 50.000,00 Euro e i 77.468,53 Euro, veniva trattato in modo deteriore chi avesse presentato regolarmente la dichiarazione IVA, senza versare l’imposta dovuta, rispetto a chi non avesse presentato la dichiarazione, in quanto, nel primo caso, il contribuente rispondeva del reato di omesso versamento dell’IVA, stante il superamento della relativa soglia di punibilità, mentre nel secondo rimaneva esente da pena, non risultando attinto il limite di rilevanza penale dell’omessa dichiarazione.
Analoga discrasia si riscontrava in rapporto alla soglia prevista in relazione al reato di dichiarazione infedele.
Sul rilievo che le sperequazioni sanzionatorie manifestamente irragionevoli rendono censurabile l’esercizio della discrezionalità pure spettante al legislatore in materia di configurazione delle fattispecie astratte di reato (v., ex plurimis, Corte cost. sent. n. 68/2012, n. 273/2010 e n. 47/2010), la Consulta ha ritenuto leso, nel caso di specie, il principio di eguaglianza attinto dal fatto che l’omessa dichiarazione e la dichiarazione infedele costituiscono illeciti incontestabilmente più gravi, sul piano dell’attitudine lesiva degli interessi del fisco, rispetto all’omesso versamento dell’IVA, considerato il carattere certamente più insidioso per l’amministrazione finanziaria che tali condotte presentano.
Tuttavia, con le modifiche recate dal citato art. 2, comma 36 vicies semel, del d.l. n. 138 del 2011, tale distonia è venuta meno e, siccome la nuova disciplina è espressamente applicabile ai soli fatti successivi alla sua entrata in vigore (17 settembre 2011), il vulnus costituzionale permaneva con riguardo ai fatti commessi sino a tale data.
Al fine di rimuovere nella sua interezza la riscontrata duplice violazione del principio di eguaglianza, è stato quindi necessario allineare la soglia di punibilità dell’omesso versamento dell’IVA (per i fatti commessi prima del 17 settembre 2011) alla più alta fra le soglie di punibilità delle violazioni in rapporto alle quali si manifestava l’irragionevole disparità di trattamento: quella, cioè, della dichiarazione infedele (Euro 103.291,38).
Nel caso in esame, il ricorrente, sebbene avesse commesso i fatti anteriormente al 17 settembre 2011, aveva tuttavia superato la soglia di punibilità di 77.468,53 Euro, soglia che non può essere ritenuta irragionevole rispetto a quella fissata, per i fatti commessi anteriormente al 17 settembre 2011, in Euro 103.291,38 a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 80 del 2014 perché, in tale caso, la soglia di punibilità più bassa per il reato di omessa dichiarazione non può certamente ritenersi irragionevole rispetto alla soglia più alta prevista per il reato di omesso versamento dell’Iva costituendo il primo, rispetto al secondo, un illecito di maggiore gravità, per come si desume anche dal trattamento sanzionatorio edittale predisposto in via astratta nelle rispettive fattispecie di reato.
5. Quanto infine alle doglianze riguardanti il trattamento sanzionatorio, la Corte territoriale ha sottolineato che la pena edittale per il delitto contestato va da uno a tre anni di reclusione e che dunque il tribunale aveva già applicato il minimo della pena edittale, computando un aumento per la continuazione di soli mesi tre di reclusione, per i reati satelliti, con la conseguenza che la pena finale, applicata in concreto, doveva ritenersi del tutto avulsa da ogni ingiustificato rigorismo, adeguata e proporzionale al danno cagionato all’erario, alla reiterazione della condotta replicata per ben tre anni, nonché infine alla capacità a delinquere dell’imputato (a carico del quale risultavano plurimi precedenti penali per fatti compresi tra il 1994 il 2008).
Alla stregua di tali circostanze la Corte ha ritenuto l’imputato non meritevole della concessione delle attenuanti generiche e della riduzione discrezionale della pena.
Sotto tali aspetti, il ricorrente non si è minimamente confrontato con la ratio decidendi della sentenza impugnata e la doglianza deve dunque ritenersi del tutto priva di specificità.
6. La sentenza impugnata deve tuttavia essere annullata senza rinvio per prescrizione in ordine al reato contestato per l’anno di imposta 2005, essendo la causa estintiva del reato maturata (in data 29 settembre 2014), in epoca precedente all’emanazione della sentenza d’appello (del 12 gennaio 2015), che avrebbe dovuto rilevarla.
Ciò comporta anche l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Palermo per la definitiva commisurazione del trattamento sanzionatorio con riferimento ai residui reati per gli anni di imposta successivi, non potendo questa Corte procedere direttamente alla determinazione della pena in mancanza, nelle sentenze di merito, dell’indicazione del reato ritenuto più grave ed essendo stato l’aumento sanzionatorio per i reati satelliti fissato in misura globale.
Il ricorso va rigettato nel resto.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata con riferimento al reato contestato per l’anno di imposta 2005 perché estinto per prescrizione, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Palermo per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio.
Rigetta nel resto il ricorso.

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