Corte di Cassazione, sezione I penale, sentenza 28 giugno 2016, n.26776

Il reato di molestia ex art. 660 cod. pen. realizzato con telefonate e SMS si configura laddove il comportamento sia connotato dalla caratteristica della petulanza, ossia da quel modo di agire pressante, ripetitivo, insistente, indiscreto e impertinente che finisce, per il modo stesso in cui si manifesta, per interferire sgradevolmente nella sfera della quiete e della libertà delle persone “o per altro biasimevole motivo”, ovvero qualsiasi altra motivazione che sia da considerare riprovevole per se stessa o in relazione alla persona molestata, e che è considerata dalla norma come avente gli stessi effetti della petulanza

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE I PENALE

SENTENZA 28 giugno 2016, n.26776

Rilevato in fatto

Con sentenza emessa il 1 aprile 2015, il Tribunale di Genova condannava R.S. alla pena di euro 300 di ammenda ed al risarcimento dei danni in favore della parte civile per il reato di cui all’art. 660 cod. pen., ‘perché, per petulanza con telefonate ed SMS continue ed anche notturne, recava molestia al coniuge separato M.M.’. Fatto commesso in Ne, sino al mese di dicembre 2010. Le indagini erano originate dalla denuncia presentata dalla parte offesa che aveva riferito di aver ricevuto per più di un mese telefonate ripetute e messaggi disturbanti da parte della moglie separata, nonostante avesse cambiato più volte numero di telefono. Le telefonate ed i messaggi, avente tutti, tranne uno, per oggetto il rapporto con i figli, erano disturbanti e proseguivano nonostante il divieto imposto alla ex moglie.

Rilevava il giudicante che la frequenza e la continuità delle telefonate dimostravano che il mezzo telefonico era stato utilizzato non per uno scopo normale di comunicazione, ma per esercitare un indebito disturbo al ricevente. Veniva così disattesa la tesi difensiva secondo cui telefonate e messaggi erano stati inoltrati dal figlio.

Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputata che con un primo motivo eccepisce violazione di legge in relazione agli artt. 660 – 42 cod. pen.; illogicità della motivazione in relazione alla qualificazione della condotta ed all’elemento soggettivo. Il fine della S. non era quello di arrecare disturbo, ma di ricercare un contatto con il marito separato nell’interesse dei figli. Il giudizio di penale responsabilità era stato emesso anche in relazione alle comunicazioni a mezzo SMS, che secondo la giurisprudenza (è citata la sentenza della Cassazione n. 24.670 del 2012) non costituisce comunicazione.

2.1. Con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione di legge e connessa mancanza di motivazione in relazione all’art. 54 cod. pen.: l’imputata si trovava in stato di necessità in quanto le telefonate e gli SMS erano determinati dalla necessità di ottenere un dialogo funzionale e necessario per il sostentamento (e l’educazione) dei figli. Rileva che la parte offesa era stata condannata per il reato di cui all’art. 570 cod. pen. e che l’imputata era stata sfrattata per morosità ed aveva difficoltà a gestire i figli. Il giudice aveva omesso ogni motivazione sul punto dello stato di necessità, anche putativo.

2.2. Violazione di legge processuale. Il giudice aveva utilizzato, nonostante l’opposizione della difesa, i risultati di un’attività di indagine disposta dal pubblico ministero dopo la scadenza del relativo termine (la notizia di reato era stato iscritta il 12 gennaio 2011, mentre il decreto del pubblico ministero era del 3 novembre 2011); tabulati erano stati acquisiti dopo la scadenza dei termine di cui all’art. 405 del codice di rito e in assenza di proroga; doveva essere effettuato all’indagata nuovo avviso ex art. 415 bis cod. proc. pen.

Considerato in diritto

Il terzo motivo di ricorso, il cui esame va svolto preliminarmente, non è fondato perché, a prescindere dall’utilizzo dei tabulati telefonici, è la stessa ricorrente ad ammettere che le telefonate e i messaggi in contestazione, ritenuti fonte di molestia o di disturbo, sono stati effettuati con il suo telefono. Questa Corte ha fissato il principio per il quale, quando con il ricorso per cassazione si lamenti, come nella specie, l’inutilizzabilità di un elemento a carico, il motivo di ricorso deve illustrare, a pena di inammissibilità per aspecificità, l’incidenza dell’eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta ‘prova di resistenza’ (Sez. 6, n. 18764 del 05/02/2014, Barilari, Rv. 259452) perché gli elementi di prova acquisiti illegittimamente devono incidere, scardinandola, sulla motivazione censurata e diventano irrilevanti ed ininfluenti quando non abbiano, come nella specie, alcun peso reale sulla decisione dei giudice di merito.

II ricorso è fondato nel merito. Premesso che la giurisprudenza più recente di questa Corte di Cassazione (Sez. 3, n. 28680 del 26/03/2004 – dep. 01/07/2004, Modena, Rv. 229464; Sez. 1, Sentenza n. 30294 del 24/06/2011, Rv. 250912; sez. 1, Sentenza n. 10983 dei 22/02/2011, Rv. 249879) ha condivisibilmente affermato che ‘La disposizione di cui all’art. 660 cod. pen. punisce la molestia commessa col mezzo dei telefono, e quindi anche la molestia posta in essere attraverso l’invio di short messages system (SMS) trasmessi attraverso sistemi telefonici mobili o fissi, i quali non possono essere assimilati a messaggi di tipo epistolare, in quanto il destinatario di essi è costretto, sia ‘de auditu’ che ‘de visu’, a percepirli, con corrispondente turbamento della quiete e tranquillità psichica, prima di poterne individuare il mittente, il quale in tal modo realizza l’obiettivo di recare disturbo al destinatario (l’arresto giurisprudenziale citato dalla difesa del ricorrente a dimostrazione della non suscettibilità dei messaggi di posta elettronica a configurare il reato contestato non è pertinente al caso de quo riguardando il diverso caso dell’uso della messaggeria elettronica), si osserva che il reato contestato punisce chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero con il mezzo dei telefono, per petulanza o altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo.

Ai fini della sussistenza dei reato è necessario che il comportamento sia connotato dalla caratteristica della petulanza, ossia da quel modo di agire pressante, ripetitivo, insistente, indiscreto e impertinente che finisce, per il modo stesso in cui si manifesta, per interferire sgradevolmente nella sfera della quiete e della libertà delle persone ‘o per altro biasimevole motivo’, ovvero qualsiasi altra motivazione che sia da considerare riprovevole per se stessa o in relazione alla persona molestata, e che è considerata dalla norma come avente gli stessi effetti della petulanza (v. Cass., Sez. 1, 7.1.1994 n. 3494, Benevento).

Ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo dei reato in questione, inoltre, è sufficiente la coscienza e volontarietà della condotta che sia oggettivamente idonea a molestare e disturbare terze persone, sicché l’elemento psicologico del reato di cui all’art. 660 c.p. sussiste anche quando l’agente esercita (o ritiene di esercitare) un suo diritto, quando il di lui comportamento nei confronti del soggetto passivo si estrinsechi in forme tali da arrecargli molestia o disturbo, con specifico intento di ottenere, eventualmente per vie diverse da quelle legali, il soddisfacimento delle proprie pretese (in tal senso, v., fra le altre, Cass., Sez. 1, 3.2.1992 n. 2314, Gerlini). La fattispecie richiede sotto il profilo soggettivo la volontà della condotta e la sua direzione verso il fine specifico di interferire inopportunamente nell’altrui sfera di libertà (Sez. 1, 1.10.1991, n. 11755 rv 188987).

Sul punto dell’elemento soggettivo del reato, la sentenza è motivata solo in modo apparente, perché omette ogni accertamento sul dolo specifico, anzi contiene riferimenti fattuali che dovevano portare ad escluderlo.

Nella specie, infatti, il giudice ha ammesso che le ragioni dell’imputata a ricercare il contatto con il marito separato riguardavano problematiche con i figli e ragioni economiche connesse al mancato pagamento della somma versata in sede di separazione personale, ma ha considerato integrato il reato avendo di mira gli effetti che da essa erano rifluiti nella sfera della persona offesa che ‘non gradendo le chiamate le interrompeva’. Tale ragionamento non rispecchia il contenuto della norma che è incentrato sulla molestia dell’atto e non sulla percezione che di esso ha il destinatario. Cosicchè, una volta riconosciuto che le telefonate e gli sms vertevano ‘su questioni non futili e di rilevante interesse per i figli’ è illogico definirle petulanti e fonti di disturbo, come se fosse giustificabile il comportamento del genitore che per sottrarsi agli obblighi a suo carico (economici e di assistenza) rifiuti ogni colloquio con il coniuge separato.

Nel comportamento posto in essere dalla ricorrente non è evidenziabile un fina di petulanza, né tantomeno biasimevole motivo.

Consegue l’annullamento, senza rinvio, della sentenza impugnata, perché il fatto non sussiste. Ogni ulteriore motivo è assorbito.

P.Q.M.

Annulla, senza rinvio, la sentenza impugnata, perché il fatto non sussiste

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