La massima
Il dolo eventuale si differenzia dalla colpa cosciente in quanto il primo consiste nella rappresentazione della concreta possibilità della realizzazione del fatto, con accettazione del rischio (e, quindi, volizione) di esso, mentre la seconda consiste nella astratta possibilità della realizzazione del fatto, accompagnata dalla sicura fiducia che in concreto esso non si realizzerà (quindi, non volizione). Ciò che è necessario e sufficiente per ritenere la sussistenza del dolo eventuale è la rappresentazione, nell’agente, anche della sola possibilità positiva del prodursi di un fatto di reato lesivo di un interesse tutelato dal diritto; lo stato di dubbio sulla possibilità che la condotta posta in essere esiti in un fatto di reato non esclude il dolo, poiché comunque suppone la rappresentazione dell’evento e l’accettazione del relativo rischio. Nella cosiddetta colpa cosciente, invece, il giudizio dubitativo sulla possibilità del verificarsi di un reato si conclude nel giudizio assertivo che il reato, pur previsto, non si verificherà per peculiari circostanze concrete, quali, ad esempio, la particolare perizia acquisita dall’agente in una certa attività.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE I PENALE

SENTENZA 1 agosto 2012, n.  31449

Ritenuto in fatto

 

1. S.L. è stato citato a giudizio per il delitto di omicidio volontario di cui all’art. 575 cod. pen., perché, in (OMISSIS), nel mattino dell'(omissis), “mentre si trovava, quale componente di una pattuglia della polizia stradale, presso l’area di servizio della XX denominata (omissis), esplodendo un colpo di pistola Beretta cal. 9 parabellum (…) all’indirizzo della autovettura Renault Megane Scenic, (…), a bordo della quale si trovavano T.M., N.F., P.S., Sa.Ga. e G.F., mentre questa percorreva la corsia di accelerazione per uscire dall’area di servizio opposta, denominata (omissis), attingeva alla base del collo il predetto Sa.Ga., determinandone la morte”.

La sentenza di primo grado, emessa il 14 luglio 2009 dalla Corte di assise di Arezzo, ha riconosciuto lo S. responsabile del delitto di omicidio colposo aggravato dalla previsione dell’evento (artt. 589 e 61, comma primo, n. 3, cod. pen.), e, con le ritenute attenuanti generiche in rapporto di subvalenza rispetto alla suddetta aggravante, lo ha condannato alla pena di anni sei di reclusione e al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite, Sa.Pi.Gi., D.D. e Sa.Cr., rispettivamente genitori e fratello della vittima, ai quali è stata assegnata, a titolo di provvisionale immediatamente esecutiva, la somma di Euro 70.000 per ciascun genitore e di Euro 50.000 per il fratello.

La sentenza di secondo grado, emessa il 1 dicembre 2010 dalla Corte di assise di appello di Firenze, su impugnazioni del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Firenze, del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Arezzo, dell’Imputato e delle parti civili, in parziale riforma della prima decisione, ha dichiarato lo S. responsabile del delitto di omicidio volontario con dolo eventuale, di cui all’originaria contestazione ai sensi dell’art. 575 cod. pen., e, con le già riconosciute circostanze attenuanti generiche e l’ulteriore diminuente per il giudizio abbreviato condizionato, tempestivamente richiesto dall’Imputato ma ingiustificatamente non accolto dal giudice dell’udienza preliminare, ha rideterminato la pena inflitta allo S. in anni nove e mesi quattro di reclusione, con le sanzioni accessorie dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici e dell’interdizione legale durante l’esecuzione della pena, senza la sospensione della potestà genitoriale, e con condanna alle spese del grado anche a favore delle parti civili, confermando nel resto la prima decisione.

Il fatto, sulla base delle diffuse risultanze istruttorie (testimonianze, rilievi tecnici, consulenze medico-legale e balistica), è stato ricostruito in termini perfettamente coincidenti da entrambe le Corti di merito, pur divergendo le qualificazioni giuridiche di esso cui ciascuna Corte è pervenuta.

Verso le ore 8,30 di domenica (omissis), un gruppo di tifosi della squadra di calcio “Juventus”, partiti con due autovetture da… e diretti a… per assistere ad una partita di campionato, riconoscibili per le felpe con i colori della società sportiva indossate da alcuni di loro, si fermarono all’interno dell’area di servizio autostradale (omissis), pochi chilometri a sud del casello di… in direzione nord, e, mentre uscivano dall’autogrill, furono vittime di un’aggressione da parte di un altro gruppo di tifosi della squadra di calcio “Lazio”, i quali li inseguirono fino all’autovettura in cui gli aggrediti cercarono riparo, colpendo il veicolo con alcuni ombrelli e la fibbia di una cintura e desistendo da tale condotta solo al suono di una sirena azionata da una pattuglia della polizia stradale, accortasi di quanto stava avvenendo, la quale si trovava nella contrapposta area di servizio (omissis), in direzione sud, impegnata in alcuni controlli.

Gli assistenti della polizia stradale, M.M. e S.L., si misero a correre in parallelo rispetto agli aggressori, in precipitoso allontanamento dopo il suono della sirena e un colpo di pistola sparato in aria, a scopo intimidatorio, dallo S. ; i fuggitivi salirono su un’autovettura Renault Scenic, di cui fu preso il numero di targa da un addetto ai servizi in quell’area, su sollecitazione a lui urlata degli stessi verbalizzanti; solo lo S., a quel punto, continuò a correre longitudinalmente seguendo i movimenti dei ragazzi in fuga e, mentre questi si allontanavano a bordo dell’autovettura, esplose un secondo colpo di pistola che attinse la Renault Scenic in fase di uscita dall’area di servizio: il proiettile penetrò all’interno dell’abitacolo e raggiunse al collo, trapassandolo, il giovane che si trovava al centro del sedile posteriore dell’autovettura, Sa.Ga., di anni ventisei, deceduto poco dopo; in quel frangente lo S., cui il capo pattuglia Sc.Ma. chiese se avesse sparato un altro colpo, rispose: “Sì, ho sparato un altro colpo in aria”, e, in effetti, nel caricatore della sua pistola fu constatata la mancanza di due dei quindici proiettili in dotazione.

La morte del Sa. fu determinata da emorragia acutissima conseguita a ferita da arma da fuoco proveniente dalla pistola Beretta in dotazione allo S. ; quest’ultimo, nell’interrogatorio reso nello stesso giorno del fatto, l’(OMISSIS), acquisito ai sensi dell’art. 513, comma 1, cod. proc. pen., avendo l’imputato rifiutato di sottoporsi ad esame nel successivo dibattimento, negò di aver voluto colpire l’autovettura in fase di accelerazione e anche di aver sparato il secondo colpo in aria, e dichiarò che il proiettile era partito mentre egli ancora correva, tenendo impugnata la pistola a braccio teso perpendicolarmente all’asse del corpo.

Dalle deposizioni rese da diversi testimoni, in particolare da coloro che erano presenti nell’area di servizio ovest (H., A., F., R., G. ), emerse invece che l’imputato, dopo aver percorso velocemente a piedi con la pistola in mano buona parte dell’area di servizio, si fermò improvvisamente, soffermandosi per un tempo apprezzabile con variazioni dell’assetto del corpo, come riferito in particolare dal testimone R., paragonante i movimenti dello S. a quelli di uno sparatore al poligono di tiro, e, con le braccia tese e le mani riunite, puntò l’arma in direzione di un bersaglio situato nell’opposta area di servizio, e, quindi, esplose il colpo di pistola che, dopo aver subito una modesta deviazione prevalentemente orizzontale per l’impatto con la rete metallica che divide le due carreggiate autostradali, come da accertamenti dei tecnici nominati dal pubblico ministero, attraversò il finestrino posteriore della Renault Scenic e penetrò nel collo del giovane Sa..

Lo S., con le ultime dichiarazioni spontaneamente rese all’udienza dibattimentale del 6 maggio 2009 davanti alla Corte di assise di Arezzo, cercò di spiegare il contrasto interno alle sue precedenti dichiarazioni (secondo colpo sparato in aria come inizialmente riferito al capo pattuglia, Sc., o accidentalmente partito in direzione dell’autovettura in fuga, come affermato nell’Interrogatorio reso nello stesso giorno del fatto), adducendo di non poter escludere di essersi fermato prima dell’esplosione del proiettile e di aver detto ai suoi colleghi, nell’Immediatezza, di aver sparato per la seconda volta in aria per significare che il colpo era partito ma non aveva attinto nessuno.

Riguardo al profilo psicologico del fatto, entrambe le Corti di merito hanno escluso l’Involontarietà dello sparo per il non intenzionale azionamento del grilletto, secondo la tesi difensiva fondata sulle dichiarazioni dello Sp. e sulle valutazioni del consulente tecnico di parte imputata, prof. Fe., esperto di psicologia dello stress in condizioni critiche, il quale aveva sostenuto che, nella particolare situazione rappresentatasi all’imputato e anche per la dispnea da sforzo derivante dall’asma cronica sofferta dallo stesso, poteva essersi determinata una condizione di perdita di destrezza a carico della mano che impugnava la pistola con esplosione involontaria del colpo mortale.

A confutazione della suddetta linea difensiva, i giudici di merito hanno osservato che lo S. non avrebbe potuto trovarsi nella condizione di stress ipotizzata, poiché egli aveva assistito ad un modesto tafferuglio tra tifosi, già in via di risoluzione dopo l’azionamento della sirena e la rilevazione delle targhe dei veicoli coinvolti, e che il colpo non era stato sparato in corsa, ma allorché l’agente aveva già avuto modo di riprendersi da un eventuale affanno; d’altra parte, in contrasto con la ricostruzione difensiva, si poneva la circostanza che l’imputato aveva tenuto il dito inserito sul grilletto e aveva dovuto esercitare una pressione non inferiore a 2 kg per l’azionamento di esso.

In merito, poi, alla pur dedotta assenza del movente di uno sparo volontario, doveva invece affermarsene l’esistenza poiché l’imputato, con il suo comportamento, aveva manifestato l’intenzione di arrestare la fuga degli aggressori, in sostanza minacciando di fare fuoco con il puntamento della pistola contro l’autovettura su cui erano saliti, e, risultato vano il tentativo di fermarli, si era determinato a sparare per bloccarli ad ogni costo; l’unicità dello sparo, inoltre, non poteva assumere valore decisivo per escludere l’intenzionalità di esso, potendo spiegarsi con il fatto che l’agente si rese conto del suo operato e dell’inutilità di ulteriori colpi, stante l’ormai avvenuto allontanamento dell’autovettura.

L’alternativa esaminata dalle Corti di merito, in punto di qualificazione dell’elemento psicologico del fatto, è stata dunque circoscritta al riconoscimento nell’omicidio del dolo eventuale, ai sensi dell’art. 43, comma primo e primo alinea, cod. pen., o della colpa con previsione, a norma dell’art. 61, comma primo, n. 3, cod. pen..

La Corte di primo grado ha qualificato il fatto come omicidio colposo con previsione dell’evento sulla base delle seguenti considerazioni:

a) non era ragionevolmente ipotizzabile un movente dell’imputato che lo avesse spinto a sparare accettando il rischio che venisse cagionata la morte di qualcuno, ponendosi tale eventualità all’evidenza come foriera di conseguenze negative per lo stesso imputato; più fondatamente appariva formulabile l’ipotesi che, essendo il movente costituito solo dallo scopo di arrestare la fuga di coloro che apparivano come gli aggressori, egli avesse cercato di colpire l’autovettura verosimilmente proprio alle ruote, che costituiscono il bersaglio tipico in siffatte situazioni;

b) la buona visibilità esistente al momento del fatto consentiva allo sparatore di vedere distintamente l’autovettura e di discernere le varie parti di essa, puntando verso la parte bassa del veicolo;

c) la specifica competenza professionale dello S. e i positivi risultati di recente conseguiti nelle esercitazioni di tiro costituivano ulteriore garanzia del suo buon dominio dell’arma;

d) l’accertata deviazione della traiettoria del colpo, sebbene ritenuta di modesta entità e prevalentemente orizzontale, con un excursus verticale di soli 20 centimetri più in alto per l’accertata leggera pendenza della strada nella parte terminale del parcheggio e di immissione nella corsia di accelerazione, avvalorava un’iniziale traiettoria ideale del colpo per cui esso, senza la deviazione, avrebbe attinto l’autovettura più in basso;

e) il contesto dell’azione, riconducibile all’attività istituzionale dello S. di contrasto del crimine e tutela dell’ordine pubblico, consentiva di ravvisare sul piano psicologico la colpa cosciente, mentre sul piano oggettivo era evidente l’inadeguatezza della condotta per eccesso rispetto alla pochezza dell’accaduto.

Sulla base del predetti elementi, la Corte di assise di Arezzo ha ritenuto, quindi, integrato il delitto di omicidio colposo aggravato dalla previsione dell’evento, atteso che la condotta dell’imputato era stata tale da contravvenire alle più elementari regole di comune prudenza e che la sua iniziativa, mediante l’utilizzo della pistola, era stata talmente eccessiva da sconfinare nell’abnorme per macroscopica avventatezza e sconsideratezza, sì da giustificare la determinazione della misura massima della pena e la declaratoria di prevalenza dell’aggravante della previsione dell’evento sulle pur riconosciute attenuanti generiche; d’altra parte, la previsione che il colpo esploso potesse colpire ed uccidere taluno doveva ragionevolmente ritenersi che facesse parte del patrimonio conoscitivo di chiunque e, a maggior ragione, di un esperto assistente della polizia stradale quale, appunto, era l’imputato.

La Corte di assise di appello di Firenze, in accoglimento dei motivi di impugnazione proposti dal Procuratore generale, dal Procuratore della Repubblica e dalle parti civili, ha invece riqualificato il fatto come omicidio volontario con dolo eventuale.

Questi gli elementi che hanno giustificato, secondo il giudice di appello, la diversa qualificazione:

a) la distanza in cui si trovava l’autovettura presa di mira (almeno 50 metri) era tale da escludere la possibilità di attingere il bersaglio con apprezzabile precisione, tenuto conto dell’arma corta impugnata dallo S. che consentiva un tiro di precisione, come indicato dai consulenti tecnici del pubblico ministero, entro una distanza molto inferiore (circa 25 metri) rispetto a quella esistente in concreto; tale circostanza non poteva essere ignorata dall’Imputato proprio perché appartenente alle forze dell’ordine con normale esperienza nell’uso delle armi e a conoscenza, per lo specifico servizio svolto nella polizia stradale, dei luoghi in cui stava operando;

b) la presenza della rete metallica che divide le due carreggiate autostradali avrebbe dovuto indurre l’imputato a rappresentarsi che il colpo esploso sarebbe stato del tutto verosimilmente deviato per l’impatto del proiettile contro la rete stessa, con l’eventualità certamente non improbabile di fare assumere al colpo qualsiasi traiettoria e di ridurre ulteriormente, pertanto, la probabilità di attingere con precisione la parte bassa dell’autovettura anziché il suo abitacolo;

c) la mobilità del bersaglio al momento dello sparo, essendo il veicolo appena partito (l’autista, T., esaminato come testimone assistito, aveva riferito che era innestata la prima marcia quando sentì il tonfo del colpo), costituiva ulteriore elemento di alcatorietà della destinazione del proiettile esploso;

d) l’esempio del lanciatore di coltelli, cui aveva fatto ricorso il primo giudice a sostegno della qualificazione del fatto come omicidio colposo con previsione dell’evento, non era pertinente, posto che, nel caso in esame, non esistevano fattori che inducessero l’agente ad escludere l’evento letale per il pieno dominio, da parte sua, della situazione. Al contrario, io specifico contesto in cui fu attuato lo sparo e, in particolare, la notevole distanza del bersaglio, la rete interposta tra lo sparatore e il suo obiettivo, il movimento dell’autovettura in fase di spostamento, integravano altrettante incognite circa l’effettivo approdo del proiettile, cosicché, nella fattispecie, non sussistevano quei fattori impeditivi o contromisure idonei a sostenere la ragionevole speranza che il colpo non avrebbe attinto alcuno, e, d’altronde, non risultava in alcun modo che l’imputato avesse una pregressa esperienza in circostanze analoghe;

e) la semplice non razionalità del movente non costituiva elemento in sé sufficiente ad escludere la volontarietà della condotta, potendo questa realizzarsi pur in presenza di un movente che appaia non tenere conto del rapporto tra costi/rischi e benefici, stante l’Innegabile possibilità che l’agire umano sia ispirato anche da motivi istintuali o d’impeto, e, nel caso in esame, l’azione fu ispirata dalla volontà di impedire, comunque, l’allontanamento dell’autovettura;

f) le incoerenti dichiarazioni dell’imputato, sottrattosi all’esame in dibattimento, e la sua ultima versione circa la non volontarietà del colpo mortale, in contrasto con tutte le risultanze istruttorie, impedivano di valutare la sua condotta nei termini della colpa cosciente, ritenuta dal primo giudice, e imponevano di ancorare l’indagine sull’atteggiamento psicologico al concreto svolgimento del fatto e alle sue modalità esecutive, l’uno e le altre concorrenti nel dimostrare la rappresentazione e l’accettazione del rischio dell’evento più grave da parte dell’agente.

Ad avviso della Corte di assise di appello, non esisteva, dunque, alcuna equivalenza tra i fattori deponenti a favore dell’Inquadramento del fatto come omicidio colposo con previsione dell’evento e gli elementi idonei, invece, a qualificarlo come omicidio volontario con dolo eventuale, e, pertanto, non si imponeva la preferenza da accordare all’ipotesi più favorevole all’imputato, come ritenuto dalla Corte di primo grado.

2. Avverso la sentenza della Corte di assise di appello ha proposto ricorsi per cassazione lo S. tramite i suoi difensori, avvocati Federico Bagattini e Francesco Molino, autori di distinti atti di impugnazione.

3. L’avvocato Federico Bagattini deduce tre motivi di ricorso.

3.1. Con il primo motivo lamenta la contraddittorietà e/o la manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza del dolo eventuale del reato di omicidio, per l’assenza di un movente razionale della condotta e della stessa volontarietà di essa, e per l’incompatibilità tra dolo d’impeto e dolo eventuale.

L’irrazionalità dell’azione escluderebbe la possibilità di attribuire all’imputato la volontà dell’evento mortale, anche solo in termini di eventualità ed accettazione del rischio, come correttamente ritenuto dal giudice di primo grado.

Il giudice di appello, riconoscendo che lo S. agì senza tener conto del rapporto tra costi/rischi e benefici, avrebbe posto a fondamento della sua condotta una deliberazione improvvisa ed istintiva in contrasto con l’affermata ricorrenza di tutti gli elementi valutativi che consentono all’autore l’apprezzamento del rischio e, pertanto, di agire con dolo eventuale.

Le circostanze di fatto che si opponevano, secondo la Corte distrettuale, al pieno dominio della situazione da parte dell’imputato, vale a dire la visibilità dell’auto sul versante opposto dell’autostrada e la non trascurabile distanza di essa rispetto allo sparatore, la presenza detta rete metallica e il fatto che il veicolo preso di mira fosse in movimento, non potevano rientrare nel fuoco di una lucida rappresentazione, neppure nella forma dell’accettazione del rischio, da parte dell’imputato che agì impetuosamente; senza tralasciare che il giudice di appello non aveva escluso che lo S. avesse avuto, seppure non continuativamente, la piena visuale dell’automobile, ciò che avrebbe dovuto ingenerare, secondo un’interpretazione ispirata al favor rei, almeno il legittimo dubbio sull’intima convinzione ovvero sulla ragionevole speranza dell’agente di poter attingere con successo il bersaglio nella parte inferiore, senza alcuna accettazione di ulteriori rischi o danni collaterali.

3.2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce carenza, contraddittorietà e/o manifesta Illogicità della motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza del dolo eventuale del reato di omicidio in relazione all’assenza di una concreta previsione dell’evento.

La Corte distrettuale avrebbe fondato l’accettazione del rischio del risultato letale su una costruzione in termini puramente astratti della previsione dell’evento, senza tener conto delle specifiche connotazioni psicologiche del fatto e, in particolare, del riconosciuto dolo d’impeto che avrebbe indotto lo S. a sparare e che si porrebbe in insuperabile contrasto con la percezione di tutti gli elementi fattuali della scena criminis; il giudice di appello, sulla scia delle valutazioni del primo giudice, avrebbe fondato la previsione dell’evento su massime di esperienza (id quod plerumque accidit) e sulla posizione istituzionale dello S. (homo eiusdem condicionis et professionis), quale operatore della polizia stradale preposto al delicato compito della tutela dell’ordine pubblico anche con le armi, per dedurne, in via meramente astratta, che lo stesso non poteva non sapere che il colpo di pistola, esploso in quelle specifiche circostanze, avrebbe potuto attingere taluno degli occupanti del veicolo preso di mira.

La necessaria valutazione in concreto della rappresentazione dell’evento, con accettazione del relativo rischio, non avrebbe consentito invece di superare il ragionevole dubbio, da risolvere nel rispetto del favor rei, che l’imputato avesse agito, nella situazione data, nella soggettiva convinzione, a torto o a ragione, della non verificazione dell’evento, come correttamente ritenuto dalla Corte di primo grado. E questa conclusione risulterebbe pienamente compatibile sia con la personalità dello S., poliziotto non particolarmente propenso all’uso delle armi, la cui condotta professionale non aveva mai dato adito a rilievi; sia con le condizioni psico-fisiche dell’imputato al momento dello sparo, non fatte oggetto di attento scrutinio da parte delle Corte distrettuale, per l’incidenza di peculiari fattori di stress legati alla corsa effettuata in direzione dei fuggitivi e alla delicata attività di servizio appena compiuta nell’altra area di servizio; sia con il comportamento dello S. immediatamente successivo al fatto, anch’esso trascurato nella vantazione del giudice di appello, segnato dalla profonda prostrazione alla notizia della morte del giovane Sa. in conseguenza dello sparo.

3.3. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta ulteriore vizio della motivazione nel triplice profilo della mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità, per la ritenuta esistenza del dolo eventuale nonostante fosse emersa, dall’Istruzione svolta, una maggiore entità della deviazione del proiettile, a seguito del suo impatto sulla rete divisoria delle carreggiate autostradali, rispetto alla modesta ampiezza di essa ritenuta dai giudici del doppio grado del processo di merito.

Tale dato sarebbe avvalorato dalle dichiarazioni dei testimoni, N., P., G. e T., compagni di viaggio della vittima, circa la posizione avanzata dell’autovettura rispetto al parcheggio, allorché fu attinta dal proiettile mortale, ma i giudici di merito non avrebbero tenuto conto delle predette testimonianze, incorrendo nel vizio motivazionale e nella conseguente violazione della regola che impone la condanna solo se l’imputato risulti colpevote al di là di ogni ragionevole dubbio. Entrambe le Corti di assise avrebbero fondato le proprie ricostruzioni della traiettoria del colpo sul postulato che lo S. tenesse puntata la pistola contro l’autovettura e, su tale base, avrebbero costruito una traiettoria ideale del proiettile, deviato dalla rete metallica, caratterizzata da un ristretto cono o ventaglio di linee. Le obliterate testimonianze dei compagni della vittima, esaminati come testimoni assistiti e certamente non propensi ad attenuare la responsabilità dell’imputato, avallerebbero invece una posizione dell’autovettura molto più avanzata verso l’immissione in autostrada e, quindi, più distanziata dall’area di parcheggio nel mirino dell’imputato rispetto a quella ritenuta in sentenza, con la conseguenza che la deviazione del proiettile sarebbe stata significativamente più ampia di quella stimata in motivazione, secondo un’oscillazione compresa tra 112 e i 30 o più metri, e, perciò, idonea ad incidere sulla stessa possibilità di prevedere in concreto l’evento lesivo nel senso che, come ammesso dalla stessa Corte di appello in un passaggio motivazionale testualmente trascritto dal ricorrente, se non vi rosse stato l’impatto del proiettile contro la rete metallica e la rilevante deviazione derivatane, il Sa. verosimilmente non sarebbe stato colpito perché l’autovettura non sarebbe stata attinta o il colpo l’avrebbe raggiunta In una posizione più arretrata.

Il fondato dubbio su tale rilevante elemento di fatto (entità della deviazione del proiettile), per la sua incidenza sulla previsione dell’evento, sarebbe quindi incompatibile con la tesi dell’accettazione del rischio e con la pronuncia di condanna per omicidio volontario.

4. L’avvocato Francesco Molino deduce due motivi di ricorso.

4.1. Con il primo motivo lamenta l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge penale, da parte della Corte di assise di appello, per la non corretta individuazione del discrimine tra omicidio colposo con previsione dell’evento e omicidio volontario con dolo eventuale e, di conseguenza, per l’errata qualificazione del fatto ai sensi dell’art. 575 cod. pen..

All’esito di una diffusa disamina, in dottrina e giurisprudenza, dei predetti istituti con la sottolineatura di due filoni interpretativi nella definizione del dolo eventuale, il primo che accentua il criterio della rappresentazione e dell’accettazione del rischio e il secondo che privilegia il requisito della previsione concretamente possibile dell’evento, mentre la colpa cosciente postula l’astratta previsione dell’evento accompagnata dalla convinzione che esso in concreto non si realizzerà, il ricorrente rileva, anche sulla base dell’analisi della giurisprudenza di legittimità in tema di dolo indiretto che sarebbe stata male interpretata dalla Corte distrettuale, che il fatto attribuito allo S. non potrebbe essere qualificato come omicidio volontario con dolo eventuale, pena la violazione dell’indefettibile primato della volontà in ogni delitto doloso.

Lo S. non volle uccidere il giovane Sa. e, neppure, si rappresentò la concreta possibilità che ciò avvenisse, poiché egli operò in una situazione di liceità, quale custode della sicurezza pubblica messa in pericolo dal violento scontro tra due gruppi contrapposti di tifosi, e, seppure eccedette nelle modalità del suo intervento, ciò configurerebbe una colpa e non il ritenuto dolo eventuale, posto che l’imputato, per la sua esperienza e dimestichezza con le armi, poteva ragionevolmente contare sul fatto che dalla sua condotta non sarebbe derivato alcun danno alle persone, né poteva prevedere che tra la sua azione e il tragico effetto conseguitone si inserissero una serie di variabili (la distanza, la presenza della rete tra le due corsie e l’autovettura in movimento) che determinarono l’Imponderabile esito.

La sentenza impugnata avrebbe, pertanto, erroneamente applicato la legge penale, dovendo ritenersi la sussistenza, nel caso in esame, del reato di omicidio colposo e non doloso, come del resto confortato dall’analitica menzione di precedenti analoghi decisi da questa Corte di cassazione e richiamati dallo stesso giudice di appello, nei quali, benché attinenti a fatti più gravi di quello in esame, era stata riconosciuta la colpa e non il dolo eventuale.

4.2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce la manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione in punto di ritenuta volontarietà dello sparo da parte dello S., riproponendo il motivo di appello fondato sulla relazione del prof. Fe., consulente nominato dalla difesa, il quale, con valutazioni non adeguatamente contraddette dalle Corti di merito, aveva rilevato le condizioni di stress in cui versava lo S. al momento del fatto, tali da rendere plausibile l’azionamento involontario del grilletto con l’esplosione incontrollata del colpo che aveva stroncato la vita del giovane Sa..

5. Il difensore delle parti civili, avvocato Michele Monaco, ha depositato memoria in data 28 gennaio 2012, nella quale confuta analiticamente tutti i motivi di impugnazione proposti dai difensori dell’imputato, concludendo per il rigetto di entrambi i ricorsi, senza presentare richieste risarcitorie per avere le parti civili già conseguito pieno ristoro del danno subito, come dichiarato dallo stesso difensore.

 

Considerato in diritto

 

1. Entrambi i ricorsi sono infondati.

Conviene procedere all’esame dei motivi secondo un duplice criterio: quello della pregiudizialità di una censura rispetto all’altra e quello della trattazione congiunta delle doglianze comuni ai due ricorsi.

1.1. Il primo articolato motivo del ricorso proposto dall’avvocato Bagattini, nella sua principale implicazione, adduce, seppure sulla base di un postulato diverso e addirittura opposto, alla medesima conclusione perorata dal secondo motivo del ricorso formulato dall’avvocato Molino.

Il tema comune è quello dell’involontarietà della condotta consistita nell’esplosione del secondo colpo di pistola, che cagionò la morte di Sa.Ga., da parte dell’assistente della polizia di Stato, S.L..

Il primo difensore, avvocato Bagattini, pone a fondamento dell’assunto la mancanza di un movente razionale inteso come causa logica immanente all’azione attribuita all’Imputato, e non come mero motivo a delinquere, sostenendo che, nelle specifiche circostanze del caso, essendosi verificata, come rilevato dai giudici di merito, una semplice scaramuccia tra tifosi di opposte fedi calcistiche, risoltasi con il repentino allontanamento del gruppo dei tifosi laziali, a seguito della sirena azionata dalla pattuglia di polizia presente nell’opposta area di servizio e del primo colpo di pistola in aria sparato dallo stesso S., non vi era ragione alcuna perché l’assistente di polizia puntasse la pistola contro i giovani tifosi per arrestarne la fuga, come dimostrato dal fatto che fu proprio lo S. a gridare alle persone presenti nell’area in cui si era verificato il tafferuglio di prendere il numero di targa dell’automobile prima che si allontanasse, ciò che avrebbe consentito, allertando i colleghi poliziotti in servizio sull’altro versante dell’autostrada, di identificare agevolmente i suoi occupanti, tenuto conto che l’autostrada è “una città chiusa in movimento”, secondo l’efficace definizione del funzionario di polizia, dott. Ma., nel corso del suo esame dibattimentale, richiamata in sentenza.

Il secondo difensore, avvocato Molino, pone Invece a fondamento della pretesa involontarietà della condotta il contenuto della consulenza medico-legale di parte imputata, a firma del prof. Fe., circa la situazione di elevato stress in cui si sarebbe trovato lo S. per la gravità dell’aggressione posta in essere nell’area di servizio opposta a quella dove egli si trovava, la quale sarebbe proseguita pur dopo l’azionamento della sirena da parte della pattuglia di polizia e l’esplosione del primo colpo di pistola in aria.

Tale condizione di elevato stress avrebbe causato alterazioni biomeccaniche con perdita di destrezza a carico degli arti superiori e aumento della forza fisica, che, combinandosi tra loro, sarebbero state idonee a compromettere il controllo motorio superiore da parte dello S. e a determinare, con un forte senso di paura, una contrazione involontaria della sua mano che impugnava la pistola contro i fuggitivi a mero scopo intimidatorio, con involontaria esplosione del secondo colpo rivelatosi, purtroppo, mortale.

Osserva, sul punto, questa Corte che il giudice di appello ha puntualmente esaminato il tema dell’involontarietà dello sparo, richiamando innanzitutto le deposizioni dei testimoni i quali, pur con varianti tra runa e l’altra versione a causa dei diversi punti di osservazione di ciascuno, avevano tutti riferito di aver visto l’imputato fermarsi, dopo aver seguito di corsa i movimenti degli aggressori, e, quindi, puntare la pistola in avanti, con una mano o addirittura con due mani, In direzione della contrapposta area di servizio; lo stesso imputato, come pure rilevato dalla Corte di merito, nelle dichiarazioni spontanee rese all’udienza del 6 maggio 2009, testualmente riportate nella sentenza d’appello (pag. 16), non aveva escluso di aver potuto esplodere il colpo dopo essersi fermato, a braccia tese, né aveva dato una plausibile spiegazione della contraddizione tra la sua prima versione di aver sparato in aria anche il secondo colpo e quella successiva dello sparo accidentalmente partito, limitandosi ad allegare un generico stato di confusione.

La Corte territoriale, con motivazione adeguata e coerente, ha ritenuto che non fosse sostenibile una perdita di destrezza alla mano, derivata da stress o dispnea da sforzo, determinante l’involontario azionamento dei grilletto dell’arma, tenuto conto che l’imputato non era coinvolto in alcuna situazione che mettesse a repentaglio la sua incolumità personale e che il colpo non fu esploso durante la corsa, ma allorché lo S. si era già fermato e aveva avuto modo di riprendersi da un eventuale affanno; sarebbe stata necessaria, inoltre, un’energia non indifferente, pari ad almeno 2 kg, come precisato dai consulenti balistici del pubblico ministero, per l’esplosione del secondo colpo, e lo sparo accidentale avrebbe supposto il costante mantenimento del dito dell’imputato nel ponticello dal quale era possibile azionare il grilletto: le predette circostanze sono state, quindi, ritenute incompatibili con l’accidentalità del gesto di sparo tenuto conto, altresì, dell’esperienza nell’uso delle armi da riconoscersi all’imputato in servizio nella polizia stradale.

Anche la prospettata assenza di un movente razionale è stata adeguatamente esaminata dalla Corte di appello per escludere che essa costituisse un elemento distonico rispetto alla volontarietà dello sparo, con la corretta rilevazione che la mera irrazionalità del movente non è elemento sufficiente ad escludere la volontarietà della condotta.

Va, al riguardo, precisato che il movente è la causa psichica della condotta umana e lo stimolo che induce l’individuo ad agire e, perciò, è distinto dal dolo che è l’elemento costitutivo del reato e riguarda la sfera della rappresentazione e volizione dell’evento (Sez. 1, n. 466 dell’11/11/1993, dep. 19/01/1994, Hasani, Rv. 196106); le cause psichiche dell’agire umano, poi, non sono necessariamente razionali, ma al contrario sono aperte alle ispirazioni e impulsi più vari e misteriosi, insondabili come la complessità dell’animo umano.

Correttamente, dunque, la Corte territoriale ha tenuto distinto, nel caso in esame, il movente con la sua apparente irrazionalità, attinente al foro interno dell’agente conoscibile solo nella misura in cui trovi riscontro in una rappresentazione esterna, dal dolo quale elemento psicologico del fatto reato storicamente accaduto e, perciò, fenomenicamente rilevabile, escludendo che dall’irrazionalità del primo potesse dedursi l’inesistenza del secondo e l’involontarietà della stessa condotta.

Ne discende l’Infondatezza del motivo finora esaminato, in punto di in volontarietà dello sparo mortifero ovvero di mancanza della coscienza e volontà dell’azione (cosiddetta suitas) di cui all’art. 42, comma primo, cod. pen., nella duplice prospettiva sostenuta dai ricorrenti sulle opposte premesse, da un lato, delle condizioni di elevato stress in cui si sarebbe trovato lo S. a causa della percepita gravità dello scontro fisico in atto tra le opposte tifoserie tale da fargli perdere il controllo dei suoi movimenti con involontaria pressione sul grilletto dell’arma, e, dall’altro, dell’assenza di alcun movente razionale all’azione di sparare per essersi il medesimo scontro già risolto, senza vittime né altri effetti dannosi o pericolosi, con l’allontanamento del gruppo dei tifosi laziali che avevano aggredito i tifosi juventini, di cui l’assistente di polizia S. avrebbe avuto piena percezione.

1.2. Passando all’esame degli ulteriori motivi, già indicati nella parte espositiva, la seconda censura del ricorso proposto dall’avvocato Bagattini critica la completezza, la coerenza e la logicità della sentenza impugnata con riguardo alla qualificazione dell’elemento psicologico dell’omicidio come dolo eventuale, mentre il primo motivo del ricorso dell’avvocato Molino denuncia l’inosservanza o l’erronea applicazione della legge penale in ordine alla medesima qualificazione.

Il terzo motivo proposto dall’avvocato Bagattini lamenta, infine, il vizio motivazionale con riguardo a specifici dati istruttori, emergenti dalle testimonianze degli amici del Sa., che sarebbero stati illegittimamente ignorati dalla Corte di merito nella sua ricostruzione del fatto, sebbene rilevanti, ad avviso del ricorrente, per escludere o almeno porre in dubbio il ritenuto dolo eventuale.

Va aggiunto che anche il primo motivo del ricorso dell’avvocato Bagattini, laddove ritiene incompatibile il dolo d’impeto che la Corte di appello avrebbe riconosciuto nel fatto di omicidio con il dolo eventuale, è analogo ai precedenti risolvendosi nella censura della motivazione in punto di elemento psicologico del reato.

Stima la Corte che sia opportuna la trattazione congiunta delle dette censure, poiché esse convergono, con diversi accenti e sottolineature, nel rappresentare vizi interpretativi e motivazionali con riguardo al medesimo elemento di fattispecie, costituito dal dolo eventuale ravvisato dalla sentenza impugnata nel fatto commesso dall’imputato.

Il confine tra dolo eventuale e colpa con previsione appartiene, come è noto, alla consolidata giurisprudenza di questa Corte, nel senso che il dolo eventuale si differenzia dalla colpa cosciente in quanto il primo consiste nella rappresentazione della concreta possibilità della realizzazione del fatto, con accettazione del rischio (e, quindi, volizione) di esso, mentre la seconda consiste nella astratta possibilità della realizzazione del fatto, accompagnata dalla sicura fiducia che in concreto esso non si realizzerà (quindi, non volizione) (Sez. 4, n. 28231 del 24/06/2009, dep. 09/07/2009, Montalbano, Rv. 244693; Sez. 4, n. 13083 dellO/02/2009, dep. 25/03/2009, Bodac, Rv. 242979; Sez. 4, n. 11024 del 10/10/1996, dep. 20/12/1996, Boni, Rv. 207333, tutte citate nella sentenza impugnata, nella nota n. 10 in calce alla pagina 23; mentre sulla definizione del dolo eventuale e sui confini di esso rispetto ad altre forme di dolo: Sez. U, n. 3428 del 1991; n. 748 del 1993; n. 3571 del 1996).

È opportuno precisare, alla luce anche degli approfondimenti dottrinali in materia, che la distinzione tra dolo e colpa non va impostata in termini quantitativi ovvero sul maggiore o minore grado di possibilità con cui l’agente ha previsto il prodursi dell’evento; né con il ricorso agli stati cosiddetti affettivi come la speranza o il desiderio che l’evento, pur previsto, non si verifichi, assunto come criterio dirimente per escludere il dolo a favore della colpa con previsione; e, neppure, con le situazioni di contesto, lecito o illecito, in cui si operi, come nel caso di uso delle armi da parte dei tutori dell’ordine a tutela della sicurezza pubblica, o di impiego di esse da parte degli autori di un delitto per assicurarsene il provento o l’impunità.

Ciò che è necessario e sufficiente per ritenere la sussistenza del dolo eventuale è la rappresentazione positiva, nell’agente, anche della sola possibilità positiva del prodursi di un fatto di reato lesivo di un interesse tutelato dal diritto, ed esiste un solo criterio certo per stabilire quale è stato l’atteggiamento del soggetto nei confronti dell’evento rappresentato. Questo criterio consiste nel comportamento tenuto: se l’agente si determina ad una certa condotta, malgrado la previsione che essa possa sfociare in un fatto reato, ciò significa che accetta il rischio implicito nel verificarsi dell’evento; qualora avesse voluto sottrarsi a tale rischio, qualora non avesse acconsentito all’evento, non avrebbe agito. Ne discende che io stato di dubbio sulla possibilità che la condotta posta in essere esiti in un fatto di reato non esclude il dolo, poiché comunque suppone la rappresentazione dell’evento e l’accettazione del relativo rischio.

Nella cosiddetta colpa cosciente, invece, il giudizio dubitativo sulla possibilità del verificarsi di un reato si conclude nel giudizio assertivo che il reato, pur previsto, non si verificherà per peculiari circostanze concrete, quali, ad esempio, la particolare perizia acquisita dall’agente in una certa attività. Tale elemento psicologico si caratterizza, dunque, per la previsione negativa che un fatto reato non si realizzerà e, sebbene ben diverso da quello di chi agisce senza neppure configurarsi la possibilità astratta di cagionare un risultato vietato, non può però confondersi con lo stato mentale di chi, rappresentandosi la possibilità di porre in essere una figura criminosa, non arrivi a superare la situazione di dubbio consapevole e accettato che determina il dolo definito eventuale.

Tanto premesso nella definizione dei concetti giuridici che rilevano nel presente processo, si impongono subito alcune precisazioni.

Non è, innanzitutto, esatto che la Corte d’appello, ammettendo la possibile assenza di un movente razionale nella condotta dell’imputato, abbia dedotto che lo S. esplose il secondo colpo, rivelatosi fatale per lo sfortunato Sa., con dolo d’impeto, e ciò a prescindere dalla compatibilità logico-concettuale tra dolo d’impeto e dolo eventuale non sussistendo inconciliabilità tra previsione dell’evento ed assenza di riflessione, posto che anche al dolo d’impeto inerisce naturalmente un profHo di consapevolezza e previsione degli esiti della condotta voluta, in funzione del nesso di causalità che deve legare i due termini del fatto (Sez. 1, n.879 dei 29/11/1994, dep. 26/01/1995, Dumlao, Rv. 200110), e che la risposta immediata o quasi immediata ad uno stimolo esterno, connotante il dolo d’Impeto, non esclude la lucidità dell’agente e non richiede, neppure, una immediatezza assoluta della risposta allo stimolo, essendo diversi, in ogni soggetto, i tempi di reazione (Sez. 1, n. 39791 del 30/09/2005, dep. 02/11/2005, Masciovecchio, Rv. 232943).

Nel passaggio motivazionale, sul punto, testualmente riportato dal ricorrente (seconda implicazione, in termini di negazione del dolo eventuale, del primo motivo del ricorso dell’avv. Bagattini), la Corte territoriale si limita, in realtà, a confutare la tesi dell’appellante di incompatibilità tra l’assenza di un movente razionale e la concreta previsione e accettazione del rischio, assumendo testualmente “l’innegabile possibilità che l’agire umano possa essere ispirato anche da motivi istintuali o d’Impeto” per poi aggiungere, nel rigo immediatamente successivo, che, “nella specie, la causale del fatto è ipotizzatale e ravvisatale nella volontà (dello S. : nd.r.) di impedire comunque che l’autovettura (con i cinque tifosi della Lazio a bordo: n.d.r.) si allontanasse” (pag. 18 della sentenza impugnata).

Il decidente non ha, dunque, compiuto una ricostruzione dell’elemento psicologico del fatto con netta opzione a favore del dolo d’impeto, ma al contrario ha attribuito allo sparatore, S., la ferma determinazione di arrestare ad ogni costo, avvalendosi dell’arma di ordinanza, l’allontanamento dell’automobile dei giovani che si erano resi autori della precedente aggressione, utilizzando il riferimento ai motivi istintuali o d’impeto che possono ispirare l’agire umano come mero argomento rafforzativo della critica della tesi difensiva circa l’incompatibilità tra la mancanza di un movente razionale e il dolo eventuale, sicché ingiustificatamente il ricorrente ne ha tratto la conclusione della sicura attribuzione all’Imputato del dolo d’impeto.

Quanto, poi, alle obliterate testimonianze dei compagni della vittima circa la posizione dell’autovettura al momento in fu raggiunta dal colpo che attinse prima la rete metallica posta tra le due corsie autostradali, poi il vetro del finestrino posteriore sinistro dell’automobile al cui interno era Sa.Ga. e infine lo stesso Sa. (terzo motivo del ricorso dell’avvocato Bagattini), va osservato che, contrariamente alla doglianza difensiva, la concreta entità della deviazione della traiettoria del proiettile ha formato oggetto di puntuale accertamento da parte della Corte territoriale che, con argomentazioni adeguate e coerenti, ha confutato la tesi difensiva secondo la quale essa sarebbe stata molto maggiore di quella ritenuta dal giudice di primo grado, rilevando innanzitutto che non era stato possibile determinarla con esattezza, tenuto conto dei dati, non precisamente accertati, attinenti alle esatte posizioni dello S. e dell’autovettura in cui si trovava il Sa., nonché alla velocità di marcia di quest’ultima, una volta partita; ha sottolineato la ragionevolezza della conclusione del giudice di primo grado circa la non particolare ampiezza di tale deviazione sul piano orizzontale, poiché l’impatto con la rete, come desumibile dalla minima estroflessione da essa subita, accertata dai consulenti in balistica del pubblico ministero, doveva essere stato di entità molto modesta avendo il proiettile solo scortecciato il filo metallico; ha rimarcato che il colpo era comunque diretto contro l’autovettura al cui interno si trovava il Sa., pur ammettendo la possibilità che, in caso di mancata deviazione, il proiettile avrebbe potuto non attingere l’autovettura o raggiungerla in una posizione più arretrata e non colpire la vittima; ha concluso la plausibile ricostruzione del fatto, sul punto, osservando, da un lato, l’irragionevolezza della tesi difensiva del puntamento della pistola in direzione diversa da quella in cui si trovava realmente il veicolo, poiché tale condotta non avrebbe avuto neanche l’efficacia intimidatoria che lo stesso imputato aveva finito con l’annettere al suo gesto, e, dall’altro lato, che l’approdo del colpo sul veicolo, malgrado la deviazione, era ben compatibile con il puntamento della pistola verso lo stesso e l’esplosione del proiettile al suo indirizzo, dovendo tenersi conto del tempo di reazione tra la percezione della posizione dell’autovettura e del suo movimento e l’esplosione del colpo, tale da far si che il colpo potesse essere idealmente direzionato verso la posizione in cui si trovava il veicolo all’atto del puntamento della pistola, mentre lo stesso, nel frattempo, allorché il colpo fu esploso, se ne era già allontanato.

A fronte di tale messe di argomenti, l’omessa considerazione delle testimonianze dei compagni di viaggio della vittima, peraltro riportate in modo frammentario nel motivo di ricorso e, quindi, in termini inidonei a consentire a questa Corte di apprezzarne il loro rilievo ai fini decisori, non configura il vizio motivazionale denunciato, posto che il giudice di merito non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni che hanno determinato il suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo; nel qual caso devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (Sez. 4, n. 1149 del 24/10/2005, dep. 13/01/2006, Mirabitia, Rv. 233187; Sez. 6, n.20092 del 04/05/2011, dep. 20/05/2011, Schowick, Rv. 250105; e altre conformi).

Procedendo all’esame del motivi che denunciano, sia sotto il profilo della violazione di legge (primo motivo del ricorso dell’avvocato Molino), sia sotto il profilo del difetto di motivazione (secondo motivo del ricorso dell’avvocato Bagattini), il mancato apprezzamento in concreto della rappresentazione dell’evento letale con la consapevole accettazione del rischio del suo verificarsi, da parte dell’Imputato, essi rimandano immediatamente al tema principale del presente processo che attiene non tanto alla definizione da ritenersi pacifica del dolo eventuale in sé e nella sua delimitazione dalla colpa con previsione dell’evento (o cosciente), quanto piuttosto al criterio di accertamento di esso.

D’altronde, la conforme ricostruzione del fatto nelle due sentenze di merito impone a questa Corte, in risposta alle censure dei ricorrenti, un controllo eminentemente metodologico dell’analisi compiuta dal giudice di appello con esiti divergenti, per il ritenuto dolo eventuale, rispetto a quelli raggiunti dal giudice di primo grado che aveva, invece, affermato la ricorrenza della colpa cosciente.

Al riguardo, è già stato correttamente osservato che l’indagine psicologica per accertare il dolo eventuale dell’agente va compiuta essenzialmente sul fatto, nel suo svolgimento reale, nonché sulle modalità esecutive di esso e su ogni altro elemento obiettivo che concorra a dimostrare un atteggiamento doloso, caratterizzato dall’intenzione o, meglio, dalla volontà di agire finalizzata intrinsecamente ad uno scopo determinato e perseguito (Sez. 2, n. 3957 del 17/02/1993, dep. 26/04/1993, Tonsig, Rv. 193919).

La difficoltà di provare un elemento di fattispecie che, come il dolo, appartiene alla realtà in tenore dell’agente, rende necessario che l’indagine psicologica sia ancorata al solido fondamento delle modalità estrinseche ed obiettive del fatto, valutate secondo una serie di regole di esperienza, la conformità alle quali, in mancanza di dati da cui inferire che, nel caso concreto, la dinamica volitiva non si è ad esse adeguata, è sufficiente per ritenere dimostrato il fatto psicologico da provare.

Dimostrare il dolo significa, quindi, inferire da dati esterni conclusivi, l’ambito dei quali non è assolutamente suscettibile di essere aprioristicamente determinato, e alla luce di appropriate massime di esperienza, un comportamento psicologico o interno; con la conseguenza che solo ove si profili un elemento, da cui possa dedursi la rottura della consequenzialità tra fatto esterno, massima di esperienza e fatto psichico da provare, sarà possibile affermare la mancanza della volizione del fatto materialmente posto in essere.

Ritiene la Corte che il giudice di appello abbia fatto corretta applicazione dei criteri metodologici sopra enunciati.

Sono stati, infatti, puntualmente esaminati il reale svolgimento del fatto e le sue modalità esecutive con valorizzazione dei dati oggetti vi incontroversi, costituiti, come si è detto, dal puntamento della pistola contro l’autovettura degli aggressori in fuga, dalla buona visibilità del veicolo ma anche dalla distanza di essa dal punto in cui si trovava l’imputato (almeno cinquanta metri) in relazione alla garanzia di precisione di tiro dell’arma corta utilizzata (solo venticinque metri), dalla presenza della rete metallica che divide le due carreggiate autostradali e dal movimento del veicolo, senza trascurare di considerare, costituendo anch’essi elementi oggettivi della fattispecie di indubbio rilievo nella ricognizione dell’elemento psicologico del fatto, la competenza in materia di armi discendente dal ruolo istituzionale dello S. come assistente della polizia di Stato.

Tali dati oggettivi sono stati, quindi, interpretati alla luce delle massime di esperienza, secondo le quali l’esplosione di un colpo di pistola a quella distanza dall’obiettivo, pur costituito dalla parte inferiore del veicolo in movimento, non poteva oggettivamente garantire anche al più esperto tiratore la precisione del bersaglio in relazione al tipo di arma corta (pistola) utilizzata e alle altre peculiarità del caso (presenza della rete metallica e movimento del veicolo), con la ragionevole conclusione che l’autore dello sparo si rappresentò la possibilità di cagionare un evento dannoso (si pensi solo all’ipotesi in cui fossero improvvisamente transitati, in quel frangente, sulle corsie autostradali altri veicoli che avrebbero potuto essere attinti dal proiettile in corsa) e, ciononostante, effettuò lo sparo e, perciò, ne accettò tutte le possibili conseguenze.

La predetta deduzione in tema di dolo eventuale, oltre ad essere pienamente coerente con l’id quod plerumque accidit, non è contraddetta, nel caso concreto in esame, come erroneamente ritenuto dalla Corte di primo grado, ma al contrario rafforzata, secondo la corretta valutazione della Corte di appello, dalla specifica competenza in materia di armi e dal servizio di garanzia dell’ordine pubblico prestato dall’Imputato, come assistente della polizia stradale, in quello specifico frangente e contesto territoriale.

Le condizioni soggettive dell’agente, Invero, se accreditano l’intenzione di sparare alle ruote dell’autovettura come ritenuto dal giudice di primo grado, dall’altro confermano l’informata, per così dire, rappresentazione dei rischi insiti nell’azione di sparo alla luce delle circostanze oggettive ed estrinseche del fatto, più volte ricordate.

Lo stesso S., d’altronde, nelle sue dichiarazioni spontanee in data 6 maggio 2009, già sopra richiamate, ha testualmente dichiarato che, dopo aver sentito il colpo che sarebbe stato accidentalmente esploso dalla sua pistola e aver notato che l’autovettura sulla quale si trovavano gli aggressori era in movimento, pensò tra sé e sé: “È andata bene, non è successo niente”, quasi provando un senso di sollievo derivante, con ogni evidenza, dalla consapevolezza della incontrollabile pericolosità del suo gesto.

In questo senso va, dunque, intesa la pur corretta affermazione che si legge nella sentenza impugnata, a torto censurata dai ricorrenti, secondo la quale la colpa con previsione, oltre a non trovare fondamento nelle modalità oggettive del fatto per l’inesistenza di fattori impeditivi dell’evento o di contromisure, non sarebbe stata neppure prospettata dallo stesso agente il quale, negando di aver esploso volontariamente il secondo colpo di pistola in contrasto con tutte le risultanze istruttorie, non avrebbe consentito alcuna valutazione dei suo comportamento nei suddetti termini di colpa cosciente.

Tale affermazione non postula, come erroneamente ritenuto dai ricorrenti, una inversione dell’onere della prova in punto di elemento psicologico del reato di omicidio, poiché quest’ultimo, secondo I rilievi che precedono, deve ritenersi provato sulla base del comportamento cosciente e volontario dell’agente, il quale sparò in direzione di un’autovettura trasportante ben cinque persone nelle note condizioni di tempo e di luogo, donde, alla luce della comune esperienza, la consapevolezza nell’autore del concreto rischio di ledere l’integrità fisica altrui, comprendente, come pure si è detto, anche il dubbio del verificarsi di siffatta lesione e, ciononostante, l’attuata esplosione con accettazione, pertanto, di tutte le sue possibili conseguenze.

La mancata allegazione, da parte dell’imputato, di plausibili dati idonei ad interrompere la detta correlazione tra fatto esterno e sua componente psichica ha inteso, piuttosto, sottolineare, nella prospettiva del giudice di appello, rispettoso del rigore che deve ispirare ogni decisione e in special modo un giudizio di colpevolezza diverso e più grave rispetto a quello formulato dal primo giudice, l’assenza, nel processo, di altri spazi di indagine, neppure aperti dall’Imputato, utili alla ricostruzione dell’elemento psicologico dell’omicidio di Sa.Ga. in termini diversi rispetto a quelli conseguenti all’accurata analisi dello svolgimento reale del fatto e delle sue modalità esecutive, esitata nel riconoscimento del dolo eventuale per avere lo S., intenzionato a colpire l’autovettura e non i suoi occupanti, agito in condizioni oggetti ve tali da rappresentargli concretamente anche il rischio, da lui accettato, di attentare all’incolumità fisica altrui, come purtroppo verificatosi.

2. Alla luce di tutto quanto precede si impone, dunque, il rigetto di entrambi i ricorsi per l’infondatezza dei motivi proposti, e la condanna del ricorrente, a norma dell’art. 616, comma primo, cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali.

Nulla va disposto con riguardo alle parti civili che, per loro stessa ammissione, hanno già ottenuto il risarcimento del danno subito, senza dunque più titolo a partecipare al processo e ad essere ristorate delle spese del presente grado, neppure richieste.

 

P.Q.M.

 

Rigetta i ricorsi e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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