disconoscimento

Suprema Corte di Cassazione

sezione I

sentenza  11 giugno 2014, n. 13217

Svolgimento del processo

1. – R.C., padre del defunto P.C., convenne in giudizio Z.H., vedova del figlio, e l’avv. G.F., in qualità di curatrice speciale del minore P.C., assumendo che quest’ultimo, nato dalla donna entro il trecentesimo giorno successivo alla morte del padre, non era stato concepito con il coniuge, affetto da impotentia generandi, e chiedendo pertanto il disconoscimento di paternità.
Si costituì la H., negando di avere commesso adulterio ed assumendo di aver concepito il figlio a seguito d’inseminazione artificiale eterologa, alla quale aveva prestato consenso anche il marito.
1.1. – Con sentenza dell’8 agosto 2008, il Tribunale di Palmi accolse la domanda.
2. – L’impugnazione proposta dalla H. è stata rigettata dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria con sentenza del 10 gennaio 2013.
Premesso che in primo grado l’appellante non aveva mai contestato l’assoluta ed irreversibile infertilità del coniuge, ma si era limitata a sostenere che la maternità era stata il frutto di un’inseminazione artificiale eterologa alla quale egli aveva prestato consenso, la Corte ha ritenuto che correttamente la sentenza impugnata avesse posto a carico della H. l’onere di fornire la prova di quanto affermato, in mancanza della quale doveva applicarsi l’art. 235 cod. civ., avuto riguardo all’incontestata estraneità biologica del nato al padre anagrafico. Ha osservato in proposito che la legge 19 febbraio 2004, n. 40, nel vietare espressamente il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, ha introdotto una nuova ipotesi di disconoscimento, in riferimento alla quale ha tuttavia escluso, in ossequio al primato del favor veritatis, la legittimazione ad agire del coniuge o del convivente il cui consenso sia ricavabile da atti concludenti. Precisato inoltre che l’accertata impotenza del coniuge escludeva la necessità di prove ulteriori da parte dell’attore, ha confermato che non era stata offerta una prova convincente di fatti dai quali potesse desumersi il consenso del defunto alla procreazione, ed in particolare del gradimento con cui egli avrebbe accolto la gravidanza della moglie. I testi escussi, sia pur deponendo de relato, avevano infatti negato che i coniugi avessero compiuto ulteriori tentativi d’inseminazione artificiale, rispetto a quelli precedentemente falliti, riferendo del tormento manifestato dall’uomo in ordine all’origine della maternità della donna e dei dissapori conseguentemente insorti con la stessa.
3. – Avverso la predetta sentenza la H. propone ricorso per cassazione, articolato in due motivi. Il C. resiste con controricorso. La curatrice speciale del minore non ha svolto attività difensiva.

Motivi della decisione

1. – Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 235 cod. civ., nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, sostenendo che erroneamente la Corte di merito ha conferito rilievo alla mancata contestazione dell’impotenza del coniuge da parte di essa ricorrente, in quanto la causa, avendo ad oggetto uno status, verteva in materia di interessi indisponibili, in riferimento ai quali il principio di contestazione non può operare. Premesso che la nascita del minore entro il trecentesimo giorno dalla morte del padre rendeva applicabile la presunzione di concepimento in costanza di matrimonio, afferma che l’onere della prova del difetto di paternità gravava sull’attore, il quale era tenuto a dimostrare l’impossibilità della costituzione del rapporto di filiazione; tale prova, da valutarsi con estremo rigore, non poteva nella specie ritenersi acquisita, essendo stato prodotto, a conferma della dedotta impotenza del coniuge, un certificato medico molto datato, e non essendo stato offerto alcun elemento a sostegno di un eventuale adulterio.
1.1. – Il motivo è infondato.
Benvero, il presente giudizio risulta instaurato con atto di citazione notificato il 14 novembre 2008, e pertanto, ai sensi dell’art. 58, comma primo, della legge 18 giugno 2009, n. 69, ad esso non si applica il nuovo testo dell’art. 115, primo comma, cod. proc. civ., introdotto dall’art. 45, comma quattordicesimo, della predetta legge, il quale consente espressamente al giudice di porre a fondamento della decisione i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita, in tal modo esonerando la controparte dalla relativa prova. In quanto promosso in epoca successiva all’entrata in vigore della legge 26 novembre 1990, n. 353, il giudizio è peraltro soggetto all’applicazione dell’art. 167, primo comma, cod. proc. civ., come sostituito dall’art. 11 della predetta legge, il quale, prevedendo che nella comparsa di risposta il convenuto deve prendere posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda, pone a suo carico uno specifico onere di contestazione, il cui inadempimento può ben essere valutato dal giudice ai fini dell’individuazione del thema probandum. Nell’individuare gli effetti della non contestazione, questa Corte ha da tempo distinto l’ipotesi in cui la stessa riguardi i fatti posti dall’attore a fondamento della domanda da quella in cui cada su circostanze dedotte al solo fine di dimostrare l’esistenza dei fatti costitutivi, affermando che nel primo caso essa si configura come un comportamento univocamente rilevante ai fini della determinazione dell’oggetto del giudizio, con efficacia vincolante per il giudice, il quale deve astenersi da qualsivoglia controllo probatorio del fatto e ritenerlo sussistente, mentre nella seconda ipotesi assume rilievo esclusivamente sul piano istruttorio, costituendo una condotta liberamente apprezzabile come semplice argomento di prova, ai fini del giudizio in ordine alla sussistenza del fatto di cui si tratta (cfr. Cass., Sez. Un., 23 gennaio 2002, n. 761; nello stesso senso, più recentemente, Cass., Sez. III, 9 marzo 2012, n. 3727; 19 agosto 2009, n. 18399; 5 marzo 2009, n. 5356; Cass., Sez. II, 20 novembre 2008, n. 27596). Alla stregua di tale orientamento, non merita censura la sentenza impugnata, nella parte in cui, rilevato che a fondamento dell’azione di disconoscimento della paternità era stata fatta valere l’impotentia generandi del genitore anagrafico, ha dato atto, ai fini del relativo accertamento, della mancata contestazione della predetta circostanza, ponendo in risalto l’incompatibilità logica della negazione della stessa con l’assunto difensivo della convenuta, secondo cui il concepimento del minore era stato frutto d’inseminazione artificiale eterologa.
Non può condividersi, in proposito, l’affermazione della ricorrente, secondo cui nella specie l’operatività del principio di non contestazione doveva ritenersi preclusa dall’indisponibilità delle situazioni giuridiche dedotte in giudizio, la cui inerenza allo status di figlio legittimo, impedendo alle parti di vincolare il giudice attraverso proprie dichiarazioni o comportamenti processuali, escludeva anche la possibilità di trarre la prova dei fatti controversi dalla condotta difensiva della convenuta. E’ pur vero che, nella sua originaria prospettazione, la tesi dell’efficacia vincolante della non contestazione trovava giustificazione, sotto il profilo sistematico, nella disponibilità delle situazioni giuridiche sostanziali sottese alla vicenda processuale, e nel conseguente richiamo al principio dispositivo, cui s’ispira il nostro ordinamento processuale civile: fu infatti precisato che l’affidamento esclusivo alle parti del potere di proporre la domanda e di allegare i fatti posti a fondamento della medesima costituisce il risvolto, sul piano processuale, dell’autonomia sostanziale delle parti, la quale si atteggia in sede giurisdizionale come potere di determinare l’oggetto della lite, espungendo determinati fatti dall’ambito degli accertamenti richiesti. Nella successiva evoluzione giurisprudenziale, tale richiamo ha ceduto tuttavia il posto a considerazioni di ordine tecnico collegate alla struttura dialettica del processo, organizzato in base ad una catena di preclusioni successive, e al dovere delle parti di collaborare fin dall’inizio a circoscrivere la materia effettivamente controversa, in ossequio ai canoni di lealtà e probità previsti dall’art. 88 cod. proc. civ., nonché al principio generale di economia che deve sempre informare il processo, soprattutto alla luce del novellato art. 111 Cost., in tal modo venendosi incontro anche alle osservazioni della dottrina, la quale aveva rilevato che l’allegazione dei fatti principali non è espressione dell’autonomia sostanziale, ma solo un problema di tecnica processuale (cfr. Cass., Sez. II, 29 novembre 2013, n. 26859; Cass., Sez. III, 4 aprile 2013, n. 8213; Cass., Sez. I, 27 febbraio 2008, n. 5191; Cass., Sez. V, 24 gennaio 2007, n. 1540). Il venir meno del collegamento con l’autonomia sostanziale delle parti comporta un indubbio spostamento dell’operatività del principio di non contestazione dal piano della determinazione dell’oggetto del processo a quello dell’individuazione del thema probandum, valendo tale comportamento a produrre in via immediata l’esclusione dei fatti non contestati dal novero di quelli bisognosi di prova, e solo indirettamente ed eventualmente la disposizione delle situazioni giuridiche dedotte in giudizio, attraverso la preclusione dell’opponibilità della mancata dimostrazione dei fatti allegati dalla controparte. Vengono conseguentemente a cadere le obiezioni sollevate in ordine all’applicabilità di tale principio nelle controversie relative a diritti indisponibili (cfr. Cass., Sez. lav., 23 marzo 2012, n. 4696; 8 agosto 2011, n. 17091; 30 giugno 2009, n. 15326), pur dovendosi chiarire che in tali materie l’effetto della non contestazione non può essere lo stesso che essa produce in presenza di situazioni giuridiche di cui le parti possono liberamente disporre: l’interesse pubblico che sta alla base dell’indisponibilità della situazione giuridica dedotta in giudizio, seda un lato non impedisce al giudice di avvalersi di tutti gli elementi e degli argomenti di prova di cui dispone ai fini dell’accertamento dei fatti, ivi compresi quelli desumibili dalla condotta processuale delle parti, dall’altro però esclude che egli possa ritenersi vincolato a ritenere sussistenti o insussistenti determinati fatti in virtù di dichiarazioni o ammissioni delle stesse, la cui valutazione resta pertanto devoluta al suo prudente apprezzamento.
1.2. – In quanto attinente all’individuazione dell’efficacia probatoria da attribuire al comportamento processuale della parte, la predetta valutazione costituisce un compito riservato al giudice di merito, il cui apprezzamento è censurabile in sede di legittimità esclusivamente per incongruenza o illogicità della motivazione, non spettando a questa Corte il potere di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, le argomentazioni poste a fondamento della decisione (cfr. Cass., Sez. III, 6 novembre 2001, n. 13686).
Tali argomentazioni nella specie non possono ritenersi scalfite dalla mancata acquisizione di ulteriori elementi a sostegno della domanda, avuto riguardo alla portata decisiva dell’accertata incapacità di generare del padre anagrafico, che, in quanto assolutamente incompatibile con la sussistenza del rapporto di paternità biologica tra il nato ed il coniuge della donna, era di per sé sufficiente ad escludere la necessità della prova di altri fatti o circostanze (cfr. Cass., Sez. I, 15 ottobre 1994, n. 8420; 11 maggio 1982, n. 2825). Nessun rilievo, in particolare, può essere attribuito alla mancata dimostrazione dell’adulterio eventualmente commesso dalla ricorrente, trattandosi di un fatto diverso da quello posto a fondamento della domanda, ed idoneo ad integrare la fattispecie già prevista dall’abrogato art. 235, primo comma, n. 3 cod. civ. (tuttora idonea a legittimare la proposizione della domanda, come si evince dal nuovo testo dell’art. 244 cod. civ., introdotto dall’art. 18 del d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154), la quale dava luogo ad un autonomo titolo dell’azione di disconoscimento della paternità, alternativo a quello di cui al n. 2 della medesima disposizione.
2. – Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione dell’art. 9 della legge n. 40 del 2004, nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, osservando che nel giudizio di disconoscimento della paternità fondato sull’adulterio della moglie le prove genetiche sono inutilizzabili ove risulti il ricorso alla fecondazione eterologa, in quanto la stessa esclude necessariamente il rapporto di derivazione biologica. Precisato inoltre di aver espressamente riconosciuto, in sede d’interrogatorio formale, di essersi sottoposta a precedenti interventi di inseminazione artificiale, afferma che la prosecuzione della convivenza con il coniuge e la felicità da quest’ultimo manifestata per la paternità costituivano fatti concludenti idonei a comprovare il consenso del defunto alla procreazione assistita.
2.1. – Il motivo è inammissibile.
Come si è detto, infatti, il fatto posto a fondamento dell’azione di disconoscimento della paternità proposta nel presente giudizio è costituito non già dall’adulterio della ricorrente, ma dall’impotentia generandi assoluta ed irreversibile del genitore anagrafico, il cui accertamento è stato ritenuto sufficiente ai fini dell’accoglimento della domanda, anche alla luce di quanto riferito dal c.t.u. nominato nel giudizio di primo grado, il quale aveva ritenuto superflua l’effettuazione di indagini genetiche. Risultano pertanto inconferenti le argomentazioni svolte dalla ricorrente in ordine all’inutilizzabilità dei risultati delle predette indagini, le quali presupporrebbero d’altronde l’avvenuta dimostrazione della riconducibilità del concepimento del minore ad un intervento d’inseminazione artificiale, la cui effettuazione, come si evince dalla sentenza impugnata, è rimasta assolutamente sfornita di prova. Ininfluenti devono conseguentemente ritenersi le censure riguardanti il consenso prestato dal coniuge della donna all’inseminazione artificiale, che, postulando anch’esse la predetta dimostrazione, non possono trovare ingresso in questa sede, risultando prive di qualsiasi collegamento con l’effettiva ratio decidendi della sentenza impugnata.
3. – Il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.
Poiché dagli atti risulta che il giudizio in esame è esente dal contributo unificato, non trova applicazione l’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, introdotto dall’art. 1, comma diciassettesimo, della legge 24 dicembre 2012, n. 228.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, e condanna H.Z. al pagamento in favore di C.R. delle spese processuali, che si liquidano in complessivi Euro 3.700,00, ivi compresi Euro 3.500,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi,
oltre agli accessori di legge.

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