Cassazione toga rossa

Suprema Corte di Cassazione

sezione I

sentenza 12 febbraio 2014, n. 6695

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza in data 14.12.2012 la Corte d’appello di Lecce riformava solo in punto pena la pronuncia emessa il 27.5.2011 dal gip del Tribunale della medesima città per il reato di tentato omicidio in danno della moglie, G.A., che era stata colpita con un martello da carpentiere ripetutamente alla testa, mentre si trovava seduta sul letto, intenta a guardare la televisione. Per questo fatto di sangue occorso all’interno delle mura domestiche, all’imputato che assumeva di aver agito per uccidere la moglie che non voleva più vedere soffrire, in quanto affetta da emiparesi e che non era in grado di assistere per problemi economici, la Corte territoriale concedeva le circostanze attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti ritenute e, ravvisata la diminuente di cui all’art. 56 c. 4 cod. pen., lo condannava alla pena di anni sette, mesi uno e giorni dieci di reclusione. Riteneva sussistente il reato di tentato omicidio, perché la donna era stata sorpresa da tergo e colpita con tre colpi di martello nella zona temporo parietale sinistra, cadendo dal letto in una pozza di sangue. L’imputato era rimasto in attesa che la moglie decedesse, ma vedendo dopo circa venti minuti che la stessa era ancora in vita, aveva allertato il 118. La Corte opinava nel senso che lo stadio dell’azione si spinse ben al di là della piena integrazione del tentato omicidio, avendo l’agente posto in essere tutto quanto necessario per condurre all’evento morte, come da lui stesso ammesso, cosicchè aveva escluso che si potesse ravvisare la desistenza. Veniva invece ritenuto il recesso attivo, visto che il P. aveva chiamato il 118, cosicchè evitò che la donna, senza le cure ospedaliere, andasse incontro a sicura morte. Per il buon comportamento processuale tenuto venivano concesse al prevenuto le circostanze attenuanti generiche, cosicchè la pena veniva diminuita da anni dodici di reclusione alla misura suindicata.
2. Avverso tale decisione, interponeva ricorso per cassazione l’imputato personalmente, per dedurre violazione degli artt. 56, 575, 577 cod. pen.: in sostanza la difesa insiste sul fatto che il P. non solo avrebbe operato un recesso attivo, ma avrebbe desistito volontariamente dalla sua azione, nel senso che decise autonomamente e volontariamente di non proseguire nell’azione criminosa di colpire ulteriormente la moglie e di impedire l’evento.

Considerato in diritto

Il motivo di ricorso che è stato sviluppato è manifestamente infondato, ragion per cui deve essere dichiarato inammissibile.
Corretto è stato l’operato delle Corti di merito che hanno ravvisato nei comportamento tenuto dall’imputato, spinto al gesto più estremo per ragioni di disperazione avverso la moglie gravemente malata, il recesso attivo e non già la desistenza. Corretta è stata l’interpretazione dei due istituti, che come è noto si distinguono in funzione della tempistica dell’intervento interruttivo dell’evento: infatti secondo le linee interpretative offerte da questa Corte (Sez. I, 28.2.2012, n. 11746, Rv 252259) la desistenza può aver luogo solo nella fase del tentativo incompiuto e non è configurabile se siano stati posti in essere atti da cui trae origine il meccanismo causale che produce l’evento, rispetto ai quali può operare al massimo il recesso attivo, laddove il soggetto abbia tenuto una condotta attiva che valga a scongiurare l’evento. Orbene, nel caso di specie è di solare evidenza che l’imputato nel chiamare il soccorso medico intervenne in una fase di intervenuto esaurimento della condotta tipica (circa venti minuti dopo aver infierito), tanto è vero che disse che dopo averla colpita attese che la donna morisse ma, vedendo che ciò non avveniva, chiamò l’autoambulanza, mettendo in atto un’azione che nessuno gli impose, quindi volontaria, che consentì di portare i soccorsi che fronteggiarono l’emergenza e misero in salvo la G. Dunque l’imputato dopo aver esaurito il suo proposito di morte, ritornò sui suoi passi e si riattivò, interrompendo il processo di causazione dell’evento, chiamando i soccorsi che si profilarono provvidenziali per la vita dell’offesa. Non vi era spazio alcuno per poter ritenere che il P. avesse operato in una fase più anticipata, poichè l’azione fu da lui portata ad uno stadio talmente avanzato, da non rendere più possibile un arretramento apprezzabile in termini di desistenza.
Si impone quindi la dichiarazione di inammissibilità del ricorso; a tale declaratoria, riconducibile a colpa del ricorrente, consegue la sua condanna al pagamento delle spese del procedimento e di somma che congruamente si determina in euro mille, a favore della cassa delle ammende, giusto il disposto dell’art. 616 cpp, così come deve essere interpretato alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 186/2000 .

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di euro mille alla cassa delle ammende.

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