cassazione

Suprema Corte di Cassazione

sezione I

sentenza 16 aprile 2014, n. 8867

Rilevato in fatto

Che:
1. Le società Romana Tiburtina Immobiliare s.p.a., Famiglia Zeppieri s.n.c. e FINTRE s.r.l., nella loro qualità di socie della C.A.I. Centrale Acquisizioni Immobiliari s.r.l., hanno chiesto al Tribunale di Roma che, previa disapplicazione o accertamento dell’inesistenza o dell’invalidità del decreto ministeriale del 29 luglio 1997, con il quale era stata disposta la messa in liquidazione della socia di maggioranza Edera s.p.a. (e nominato liquidatore il Dott. D.F. ), dichiarasse la inesistenza, nullità o annullasse la delibera con cui la assemblea della s.r.l. C.A.I. aveva deciso di non accogliere la richiesta della Banca della Ciociaria di locazione di un immobile sociale.
2. Le società attrici hanno dedotto l’illegittimità della nomina dell’amministratore unico che aveva convocato l’assemblea; la carenza di potere del commissario liquidatore della s.p.a. Edera nel delegare alla partecipazione all’assemblea l’avv.to A. che aveva espresso il voto determinante ai fini della assunzione della delibera impugnata; la violazione da parte dell’avv.to A. dell’art. 32 della legge fallimentare che vieta al curatore di delegare i suoi poteri senza autorizzazione dell’ISVAP nella sua veste di autorità tutoria.
3. Il Tribunale di Roma (sentenza n. 21922/2005) ha respinto tutte le domande proposte dalle società attrici e la Corte di appello di Roma ha confermato la decisione del giudice di primo grado specificamente sul punto del difetto di interesse all’impugnazione della delibera assembleare controversa che aveva avuto per oggetto una decisione di carattere gestionale di competenza dell’amministratore.
4. Ricorrono per cassazione le società Romana Tiburtina Immobiliare s.p.a., Famiglia Zeppieri s.n.c. e FINTRE s.r.l. e si affidano a quattro motivi di impugnazione: a) violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 342 c.p.c. (in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.); b) violazione e falsa applicazione degli artt. 2909 c.c., 324 c.p.c. (in relazione all’art. 360 nn. 3 e 4 c.p.c.); c) violazione e falsa applicazione degli artt. 2364, 2377, 2378, 2379, 2486, 2909 cod. civ. e degli artt. 99, 100, 324, 342 c.p.c. (in relazione all’art. 360 nn. 3 e 4 c.p.c.) ; d) violazione e falsa applicazione degli artt. 90 e 91 c.p.c., 60 del R.D. n. 1578/1933, 1 e 5 del D.M. 5 ottobre 1994 n. 585 e successive modifiche (in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.).
5. Le ricorrenti sottopongono alla Corte i seguenti quesiti di diritto: a) con riferimento al primo motivo di ricorso: “dica la Corte, con riguardo ad impugnazione di delibera assembleare di s.r.l. (come nella specie la C.A.I.) da parte dei suoi soci di minoranza (come le odierne ricorrenti), fondata anzitutto sulla deduzione della inesistenza e/o nullità della delibera perché assunta con il voto determinante di soggetto non legittimato a rappresentare il socio di maggioranza (come nella specie il sedicente commissario liquidatore de L’Edera s.p.a.) e respinta dal giudice di primo grado (come nella specie dal Tribunale di Roma con la sentenza n. 21922/2005) senza esaminare l’anzidetta deduzione, se – in presenza della rituale, tempestiva e specifica riproposizione della stessa in secondo grado da parte delle originarie attrici – il giudice di appello, che ometta anch’esso di esaminare la ripetuta deduzione, incorra o meno nel vizio di violazione dell’art. 112 c.p.c.”;
b) con riferimento al secondo motivo di ricorso: “dica la Corte, con riguardo a giudizio di impugnazione instaurato dai soci di minoranza di s.r.l. (come nella specie le odierne ricorrenti, socie della C.A.I. s.r.l.) per conseguire la declaratoria di inesistenza, nullità e/o l’annullamento di delibera assembleare negatoria della proposta di locazione di cespite sociale, se il giudice di appello – che confermi la statuizione reiettiva dell’impugnazione pronunciata dal Tribunale (come nella specie il Tribunale di Roma con la citata sentenza n. 21922/2005), in ragione della pretesa (non vincolatività e quindi) inimpugnabilità della delibera qualificata da esso giudice di appello come parere non vincolante richiesto dall’amministratore a scopi meramente consultivi – violi o meno il giudicato interno formatosi sull’accertamento, operato dal Tribunale, del carattere deliberativo e vincolante della determinazione dell’assemblea in quanto adottata, in base agli art. 2364, comma 1, n. 4 c.c. e 2486 c.c. (nel testo applicabile in causa ratione temporis), su espressa delega dell’amministratore, volontariamente spogliatosi dei propri poteri gestori in relazione alla questione demandata all’organo assembleare”;
c) in relazione al terzo motivo di ricorso: “dica la Corte, con riguardo ad impugnazione per inesistenza, nullità e/o annullabilità di delibera assembleare di s.r.l. (come nella specie la C.A.I.) negatoria dell’approvazione di una proposta di locazione di cespite sociale, avanzata dai soci di minoranza (come le odierne ricorrenti), e respinta dal Tribunale (come nella specie il Tribunale di Roma con la citata sentenza n. 21922/2005), se il giudice di appello possa o meno rigettare il gravame pronunciando la non vincolatività e quindi la inimpugnabilità della anzidetta delibera, adottata dall’assemblea su delega di poteri dell’amministratore, in ragione della pretesa indelegabilità, da parte dell’amministratore medesimo, delle proprie funzioni gestorie e della conseguente qualificabilità della stessa delibera come mero parere non vincolante”;
d) con riferimento al quarto motivo di ricorso: “dica la Corte, con riguardo ad impugnazione di delibera assembleare di s.r.l. (come nella specie la C.A.I.) da parte dei soci di minoranza (come le odierne ricorrenti), se il giudice di appello – in presenza di contestazioni mosse dalle appellanti alla liquidazione delle spese disposta dal Tribunale (come nella specie il Tribunale di Roma con la citata sentenza n. 21922/2005) e concernenti la mancata indicazione del valore della causa e quindi della tariffa applicabile, nonché dei criteri di applicazione delle voci liquidate a titolo di onorari e di diritti – possa limitarsi ad una generica conferma della liquidazione globale effettuata dal primo giudice, assumendone a priori la congruità rispetto all’importanza e al numero delle questioni trattate, o debba invece (cosi come prescritto da Cass. n. 21932/2006) rideterminare l’ammontare del compenso dovuto al professionista, specificando il sistema di liquidazione adottato e la tariffa professionale applicabile alla controversia, onde consentire l’accertamento della conformità della liquidazione a quanto risulta dagli atti e dalle tariffe”.
6. Si difende con controricorso la C.A.I. Centrale Acquisizioni Immobiliari s.r.l..
7. Le parti depositano memorie difensive e documenti. In particolare le ricorrenti fanno rilevare che è passata in giudicato la dichiarazione di inesistenza del D.M. 20177/1997 di messa in liquidazione della EDERA.

Ritenuto in diritto

Che:
8. Il primo motivo di ricorso è infondato. Le ricorrenti non considerano che il Tribunale e la Corte di appello hanno ritenuto la pregiudizialità della questione relativa al difetto di interesse all’impugnazione in considerazione del carattere non vincolante per l’amministrazione del deliberato assembleare.
9. In riferimento alla questione delle conseguenze della pronunciata inesistenza del D.M. 29 luglio 1997 con il quale è stata disposta la messa in liquidazione della EDERA s.p.a. non può non richiamarsi la giurisprudenza di questa Corte (cfr. in particolare Sezioni Unite n. 27346 del 24 dicembre 2009 e da ultimo Cass. civ. sezione I n. 19017 dell’8 agosto 2013) secondo cui una volta aperta la procedura di liquidazione coatta amministrativa, con un atto formalmente idoneo ad aprirla, creati ed immessi i suoi organi nel possesso e nell’amministrazione dei beni del soggetto ad essa sottoposto, investiti detti organi dei poteri liquidatori e rappresentativi e dei correlati poteri processuali, secondo le regole della procedura, si viene a creare una struttura organizzativa – nel cui ambito il commissario liquidatore ha per legge capacità processuale attiva e passiva – che nella realtà giuridica non può più essere, logicamente e realisticamente, considerata dall’ordinamento come inesistente e mai esistita. Né va trascurato che la inesistenza giuridica del provvedimento, sotto il profilo qui dedotto, non riconducibile a una carenza di potere in astratto dell’amministrazione che lo abbia emesso, come tale normalmente risultante ictu oculi, bensì ad una carenza di potere in concreto, può richiedere valutazioni giuridiche ed accertamenti complessi e di dubbio esito. Cosicché una volta che la procedura sia stata aperta dall’organo formalmente competente nelle forme di legge e la struttura organizzativa sia stata posta in essere ed abbia iniziato a operare, le imprescindibili esigenze di certezza giuridica, coessenziali all’ordinamento, delle quali l’interprete deve tenere conto, implicano soluzioni giuridiche che prendano atto della situazione venutasi a creare, sulla base di un provvedimento formalmente idoneo all’apertura della procedura, e la rendano gestibile a garanzia degl’interessi coinvoltivi in attesa che – in mancanza d’interventi di autotutela – intervenga un provvedimento giurisdizionale idoneo a determinarne la chiusura.
10. Il principio generale di conservazione degli atti, di cui sono espressione l’art. 21 (ora art. 18) della legge fallimentare, secondo cui la revoca della sentenza dichiarativa del fallimento non infirma gli atti legalmente compiuti dai suoi organi, nonché gli artt. 10 e 33 del d.lgs. n. 270 del 8 luglio 1999, n. 270, artt. 10 e 33 (relativo alla nuova disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza) e l’art. 4, comma 1 bis, del decreto legge n. 347 del 23 dicembre 2003, convertito, con modificazioni, nella legge n. 39 del 18 febbraio 2004, (che dispone misure urgenti per la ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza) è estensivamente applicabile alla liquidazione coatta amministrativa nei termini più ampi, con la conseguenza che la stabilità degli effetti non viene meno perfino in ipotesi di dichiarazione di radicale inesistenza giuridica del provvedimento di apertura della procedura concorsuale, se non ex nunc, dopo il ritorno in bonis della società a seguito di pronuncia passata in giudicato.
11. Il secondo e terzo motivo di ricorso vanno esaminati congiuntamente in relazione alla stretta consequenzialità logica e giuridica che li caratterizza. In primo luogo deve contestarsi la formazione di un giudicato interno nel senso rappresentato dalle odierne ricorrenti. Tale affermazione di parte ricorrente si fonda unicamente sull’estrapolazione di un passaggio della motivazione della sentenza di primo grado che non è idonea a formare alcun convincimento sul punto e che appare in contraddizione logica, nella interpretazione sottostante all’eccezione di giudicato, con quello che è stato il contenuto della decisione di primo grado riportato dalla Corte di appello nella sua motivazione (“il Tribunale respingeva tutte le domande proposte avendo ritenuto la carenza di interesse delle società attrici ad ottenere la caducazione della delibera impugnata”).
12. Esclusa la formazione di un giudicato interno sul carattere deliberativo e vincolante della determinazione dell’assemblea, deve invece ritenersi che le decisioni di merito abbiano entrambe attribuito alla deliberazione assembleare un carattere non vincolante conseguente alla attribuzione normativa e statutaria agli amministratori dei poteri di amministrazione ordinaria e straordinaria della società.
13. La Corte ritiene, per altro verso, contraddittorio, e in definitiva pregiudizievole per i diritti della minoranza, l’affermazione per cui dalla non vincolatività della deliberazione deriverebbero l’inesistenza di effetti giuridici diretti con conseguente difetto di interesse alla impugnazione. Attraverso la delega alla assemblea della scelta su una opzione amministrativa e in presenza di un ostacolo normativo e statutario che impedisce l’attribuzione alla determinazione assembleare di un carattere vincolante si verrebbe altrimenti a realizzare, denegando l’interesse all’impugnazione, una doppia esenzione di responsabilità di cui beneficerebbero gli amministratori e la maggioranza dei soci a scapito della minoranza cui invece appartiene l’interesse a far accertare i profili di invalidità della deliberazione e/o di abusività della opzione amministrativa che ne costituisce il contenuto.
14. In questa prospettiva i due motivi di ricorso appaiono fondati perché una volta accertato, e non contestato, il carattere deliberativo della determinazione assembleare derivante dalla scelta dell’amministratore di assoggettarsi alla volontà assembleare rispetto a una determinata opzione amministrativa non può ritenersi precluso lo strumento dell’impugnazione in relazione a un ipotetico potere dell’amministratore di disattendere in un futuro incerto l’indicazione dell’assemblea.
15. All’accoglimento dei due motivi di ricorso appena esaminati consegue la cassazione della sentenza impugnata con rinvio alla Corte di appello di Roma anche per la decisione sulle spese del giudizio di merito (con ciò restando assorbito dalla decisione l’esame del quarto motivo di ricorso) e del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo e terzo motivo, assorbito il quarto motivo, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Roma che, in diversa composizione, deciderà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
 

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