Suprema Corte di Cassazione

sezione I

sentenza 4 dicembre 2013, n. 27118

Svolgimento del processo

Con sentenza del 2 febbraio 2006 la Corte di appello di Napoli, in parziale riforma della sentenza del Tribunale della stessa città in data 23 luglio 2001, riduceva da lire 73.614.389 a lire 58.732.082 la somma dovuta da F..G. e da G..G. in relazione al saldo debitore del conto corrente intrattenuto dalla prima, dal 27 febbraio 1990 al 9 aprile 1997, presso la Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. e garantito con fideiussione dal secondo. In particolare, per quanto ancora interessa, la Corte di appello – premessa l’esposizione dei motivi di appello e tra essi quello relativo alla domanda di restituzione dei titoli il cui importo era stato prima accreditato sul conto e poi stornato. ovvero alternativamente di risarcimento dei danni per la mancata restituzione osservava che: 1) l’applicazione del tasso di interessi dell’11,75%, anziché del 10,50% come secondo gli appellanti era stato convenuto, doveva ritenersi legittima “atteso che, non essendovi stata contestazione da parte dei G. , è da ritenere che con tale loro comportamento essi accettarono tacitamente l’applicazione di tale tasso nella suindicata misura, stabilita peraltro dall’art. 4 della L. 154/92”; 2) la doglianza relativa alla applicazione di commissioni di massimo scoperto non concordate era infondata poiché il c.t.u. aveva accertato che quelle applicate non si discostavano da quelle generalmente applicate su piazza nel periodo de quo.
G.F. e G. propongono ricorso per cassazione, deducendo tre motivi. La Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. resiste con controricorso illustrato anche con memoria.

Motivi della decisione

Con il primo motivo i ricorrenti deducono la violazione dell’art. 1284, terzo comma, c.c. nonché il vizio di motivazione, lamentando che la Corte di appello erroneamente aveva affermato la legittimità del tasso d’interesse dell’11,75%, senza considerare che, da un lato, l’art. 1284 c.c. prevede la pattuizione scritta degli interessi in misura superiore a quella legale e che, d’altro canto, tale previsione era confermata dall’art. 4, primo comma, della legge n. 152/1992; inoltre, la clausola contrattuale che rinviava la misura degli interessi agli usi di piazza doveva ritenersi nulla.
Il motivo è inammissibile.

Risulta dalla sentenza impugnata, ed il punto non è stato oggetto di censura, che gli odierni ricorrenti hanno contestato l’applicazione di un tasso di interesse superiore a quello convenuto, pari al 10,50%. In questa sede, pertanto, non può trovare ingresso, in quanto nuova, la questione relativa alla nullità di un rinvio agli usi di piazza, che richiederebbe un non consentito accertamento di fatto.
Il giudizio deve essere, pertanto, limitato alla legittimità dell’applicazione dell’interesse dell’11,75% anziché del convenuto 10,50%. In proposito, trovano applicazione le disposizioni dettate dalla legge n. 154/1992 all’art. 4, secondo comma, (“L’eventuale possibilità di variare in senso sfavorevole al cliente il tasso di interesse e ogni altro prezzo e condizione deve essere espressamente indicata nel contratto con una clausola approvata specificamente dal cliente”) e all’art. 6, quinto comma, che prevede l’obbligo di comunicazione al cliente della variazione sfavorevole e la facoltà di quest’ultimo di recedere dal contratto, nonché, dopo l’abrogazione di dette norme, dalle analoghe disposizioni dettate dagli art. 117, quinto comma, e 118 del d.lgs. n. 385/1993.

Sulla inosservanza di tali disposizioni nulla è stato, tuttavia, dedotto dai ricorrenti, che propongono inammissibilmente soltanto la predetta questione della nullità del rinvio agli usi di piazza.

Con il secondo motivo i ricorrenti deducono la violazione degli artt. 1418 e 1283 c.c., lamentando che la Corte di appello aveva ritenuto legittima l’applicazione delle commissioni di massimo scoperto, pur in mancanza di una specifica pattuizione, soltanto sul rilievo che le commissioni applicate non si discostavano da quelle usualmente praticate su piazza nel periodo.

Il motivo è fondato.

Invero, indipendentemente dalla natura assunta nel contratto de quo dalla commissione di massimo scoperto (accessorio che si aggiunge agli interessi passivi sulle somme utilizzate dal cliente accreditato ovvero remunerazione dell’obbligo della banca di tenere a disposizione del cliente una determina somma per un determinato periodo di tempo, indipendentemente dal suo utilizzo, come oggi è espressamente previsto dall’art. 117 bis del d.lgs. n. 385/1993, introdotto dal d.l. n. 201/2011 e modificato dal d.l. n. 29/2012) può dirsi certa l’erroneità del riferimento alle condizioni applicate su piazza. Prima dell’entrata in vigore della legge n. 154/1992 un eventuale rinvio del contratto all’uso di piazza rendeva l’eventuale pattuizione nulla per indeterminatezza, come la giurisprudenza ormai consolidata ha ripetutamente affermato con riferimento agli interessi (e plurimis Cass. 28 marzo 2002, n. 4490; Cass. 18 settembre 2003, n. 13739). Dopo l’entrata in vigore della legge n. 154/1992 “i contratti devono indicare il tasso di interesse e ogni altro prezzo e condizione praticati” (art. 4, primo comma) e le clausole contrattuali di rinvio agli usi sono nulle e si considerano non apposte (art. 4, terzo comma) e si applicano “gli altri prezzi e condizioni resi pubblici” (art. 5, lett. b), secondo una disciplina ribadita, nella sua formulazione originaria, applicabile ratione temporis, dall’art. 117 del d.lgs. n. 385/1992. Ne consegue l’erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto legittima l’applicazione delle commissioni su massimo scoperto in quanto le stesse “non si discosta(va)no da quelle generalmente applicate su piazza nel periodo de quo
Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano la violazione dell’art. 112 c.p.c., lamentando che la Corte di appello aveva omesso ogni pronuncia sulla loro domanda tesa ad ottenere la restituzione dei titoli il cui importo era stato prima accreditato e poi stornato dal conto corrente, ovvero alternativamente il risarcimento dei danni.
Il motivo è fondato. Risulta dalla stessa sentenza impugnata (pag. 3) la proposizione della domanda sulla quale la Corte di appello non si è pronunziata.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il primo motivo del ricorso ed accoglie gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte di appello di Napoli in diversa composizione.

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