Donazione beni

Suprema Corte di Cassazione

sezione I

sentenza 8 gennaio 2014, n. 139

Svolgimento del processo

A seguito di ricorso del 25.3.2004 il Tribunale di Rimini dichiarava la cessazione degli effetti civili del matrimonio celebrato tra M.A. e Ma.Lo. , emettendo i provvedimenti conseguenziali in tema di affidamento e mantenimento del figlio minore.
La decisione, impugnata dal M. in via principale e dalla Ma. in via incidentale, veniva confermata dalla Corte di Appello di Bologna.
In particolare il giudice del gravame riteneva inammissibili i motivi di appello del M. , nella parte in cui questi aveva dedotto la nullità della sentenza per il mancato riconoscimento del decorso del termine di tre anni dal giorno della comparizione dei coniugi davanti al Presidente del Tribunale nel corso del giudizio di separazione, riteneva comunque infondate nel merito le argomentazioni prospettate a sostegno del detto assunto, così come analogamente affermava anche per le ulteriori censure sottoposte al suo esame.
Avverso la decisione M. proponeva ricorso per cassazione affidato a nove motivi, cui resisteva Ma. con controricorso.
La controversia veniva quindi decisa all’esito dell’udienza pubblica del 2.12.2013.

Motivi della decisione

Con i motivi di impugnazione M. ha rispettivamente denunciato: 1) violazione dell’art. 3, n. 2, lett. b, l. 898/70, con riferimento al manifestato giudizio concernente il mancato decorso del termine di tre anni di separazione ininterrotta per la proponibilità della domanda di divorzio, rispetto alla cui valutazione sarebbe stata irrilevante l’acquiescenza alla domanda di separazione che sarebbe stata manifestata in sede di conclusioni nel processo di primo grado da esso ricorrente;
2) violazione degli artt. 100 c.p.c., 3, n. 2 lett. b) l. 898/70, in relazione all’affermata mancanza di interesse all’impugnazione;
3) vizio di motivazione sul profilo sub 2);
4) vizio di motivazione sulla mancanza di prova in ordine all’avvenuta interruzione della separazione;
5) violazione degli artt. 708 c.p.c., art. 3, n. 2 lett. b), l. 898/70, 189 disp. att. c.p.c., rispetto all’individuazione del termine iniziale di decorrenza, ai fini del calcolo del triennio di cui al sopra citato art. 3, n. 2, lett. b). Il primo provvedimento di separazione si sarebbe infatti definito senza l’adozione dei provvedimenti ex art. 708 c.p.c., e ciò avrebbe dovuto far decorrere il termine iniziale in questione dall’instaurazione del secondo procedimento;
6) violazione dell’art. 100 c.p.c., per la mancanza di interesse ad agire della Ma. (nonché dell’art. 112 c.p.c. per l’omessa pronuncia sul punto), attesa la dichiarazione della donna di aver adito il tribunale solo ai fini economici e di essersi già rivolta al Tribunale Ecclesiastico per lo scioglimento del vincolo;
7) vizio di motivazione, con riferimento alla dichiarata inammissibilità delle domande di cui ai punti 4, 5 e 6 delle conclusioni, perché a torto ritenute proposte per la prima volta in appello;
8) violazione del principio della corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato, con riferimento alla dichiarazione di inammissibilità dell’appello in relazione alle domande di cui sub 7;
9) violazione degli artt. 40 e 335 c.p.c., nonché della legge 898/70, con riferimento all’affermata inammissibilità della domanda di condanna della Ma. al pagamento di un’indennità per l’occupazione della casa coniugale.
Osserva il Collegio che i primi tre motivi di impugnazione vanno esaminati congiuntamente, perché pongono sostanzialmente la medesima questione relativa al valore probatorio attribuibile nel giudizio di separazione all’acquiescenza di una parte alla domanda dell’altro coniuge e al conseguente interesse dell’acquiescente alla celebrazione del giudizio. Pur essendo in parte condivisibili nella loro astratta formulazione i rilievi svolti (segnatamente quello concernente l’ininfluenza della mancata opposizione del convenuto alla domanda dell’attore), le censure risultano prive di fondamento, ove si consideri che la sentenza è basata su due ragioni decisionali, di cui una prima consistente nella sopra richiamata adesione alla “pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio”, ed una seconda individuabile nella valutazione di merito, secondo la quale il triennio in questione sarebbe decorso.
Tale valutazione, contrastata dal ricorrente che ha indicato la data della seconda separazione quale termine iniziale di decorrenza, appare corretta atteso che la Corte di Appello ha esattamente ritenuto che il termine da considerare ai fini indicati dovesse farsi risalire alla data della prima separazione, e ciò in quanto la “comparizione personale comporta la formale constatazione della volontà dei coniugi di cessare la convivenza” (p. 8), dal che ulteriormente discende che l’estinzione del processo di separazione non incide sulla constatata manifestazione della detta volontà, come d’altra parte già espressamente affermato da questa Corte (C. 05/15157, C. 90/2799). Ad identiche conclusioni di infondatezza deve poi pervenirsi per quanto concerne il quarto motivo di impugnazione, con il quale il M. ha lamentato un vizio di motivazione, in relazione all’affermata mancanza di prova in ordine alla dedotta interruzione della separazione.
Il vizio è invero insussistente perché, da un lato, il ricorrente ha denunciato una inadeguata interpretazione della documentazione acquisita, lamentando sostanzialmente un errato giudizio di merito in quanto tale non prospettabile in questa sede di legittimità e, dall’altro, ha rappresentato una omessa lettura di documenti da parte del giudice che, ove esistente, avrebbe dovuto farsi valere con un ricorso per revocazione, anziché con il ricorso per cassazione, come verificatosi.
Censure di merito sono state prospettate anche con il quinto motivo di impugnazione, con il quale il M. ha sostanzialmente lamentato che una corretta lettura dei documenti avrebbe dovuto indurre a ritenere che il giorno della comparizione dei coniugi davanti al presidente del primo procedimento non potesse essere considerato come termine iniziale del periodo prescritto dall’art. 3 l. 898/70, e pertanto anche questa doglianza non risulta meritevole di accoglimento.
È palesemente insussistente pure il vizio rilevato con il sesto motivo di impugnazione, essendo sufficiente a configurare l’interesse della Ma. ad introdurre e coltivare il giudizio la definizione degli interessi economici con il coniuge e l’esigenza di conseguire una pronuncia incidente sul proprio “status”, come implicitamente riconosciuto dal giudice del merito. Restano infine il settimo, l’ottavo ed il nono motivo di ricorso, che vanno esaminati congiuntamente perché denunciano l’erroneo giudizio di inammissibilità per tardività delle domande formulate dall’appellante in sede di conclusioni nei punti contrassegnati con i numeri 4, 5 e 6 (sarebbero state proposte per la prima volta in appello), oltre che la violazione del principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato con riferimento alle stesse domande.
Inoltre, per le domande di cui ai numeri 4 e 5 (in esse comprese la richiesta di condanna della Ma. al pagamento di indennità di occupazione della casa coniugale), sarebbe ravvisabile ulteriore errore da parte del giudice del merito, che ne aveva comunque ravvisato l’inammissibilità per ragioni di rito, in quanto avrebbero dovuto essere proposte con rito ordinario, mentre non sarebbe consentita la riunione per connessione.
Ciò premesso, sembra utile precisare che dalla lettura delle conclusioni del M. , quali si desumono dall’esame della sentenza impugnata, si evince che le domande cui si è fatto sopra richiamo riguardano rispettivamente: il riconoscimento dei danni subiti, fra cui quelli esistenziali, morali e biologici (punto 4); la restituzione di beni indebitamente trattenuti (punto 5) ; la condanna a tutte le spese processuali (quindi anche quelle ex 700 c.p.c.), con condanna ex art. 96 c.p.c. (punto 6).
La Corte di appello, come detto, ha ritenuto che per le domande sui punti 4) e 5) fosse ravvisabile un duplice profilo di inammissibilità, vale a dire un primo per tardività ed un secondo per ragioni di rito. Ritiene il Collegio che sia condivisibile la decisione della Corte territoriale.
Dall’esame della sentenza da questa emessa si evince infatti che il primo giudice non ha emesso alcuna decisione in ordine alle domande risarcitorie e restitutorie di cui ai punti 4, 5 e 6 delle conclusioni in appello e che il M. non si è doluto della relativa pretesa omissione, come viceversa avrebbe dovuto se avesse formulato la corrispondente richiesta, circostanza da cui discende alternativamente la novità della domanda in appello (come ritenuto), ovvero il passaggio in giudicato sul punto per omessa impugnazione della ipotetica omissione del primo giudice, ed in ogni caso la preclusione a far valere il preteso diritto in sede di gravame davanti alla Corte di appello di Bologna.
Né può dirsi, come implicitamente suggerisce il ricorrente, che il Tribunale di Rimini abbia deciso sulla domanda da lui formulata nelle diverse articolazioni in cui era composta e che il richiamo ai profili risarcitori contenuto nell’atto di appello possa costituire un presupposto sufficiente ed idoneo per far ritenere correttamente proposta l’impugnazione.
Al riguardo occorre invero considerare che dalle indicazioni riportate nel ricorso si desume che il richiamo ai profili restitutori e risarcitori contenuto negli atti relativi al giudizio di primo grado risulta del tutto generico e di stile, non essendo corredato da alcuna – pur necessaria – specifica indicazione in ordine al bene leso, alle ragioni della lesione e del connesso pregiudizio, all’entità dello stesso, al nesso di causalità fra comportamento ed evento. La conferma del giudizio emesso dalla Corte di Appello in ordine alla tardività delle domande in questione assorbe poi il secondo aspetto di inammissibilità, cioè quello concernente l’inapplicabilità del rito camerale per l’esame delle domande in oggetto (peraltro correttamente enunciato), fra l’altro incentrato sul non condiviso presupposto che il tribunale avesse deciso anche sulle domande restitutorie e risarcitorie. Resta infine assorbita anche la censura relativa al mancato accoglimento della domanda sulle spese processuali, atteso l’esito sfavorevole della lite per il M. .
Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato, con condanna del ricorrente, soccombente, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 3.200, di cui Euro 3.000 per compenso, oltre agli accessori di legge.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *