www.studiodisa.it

Suprema Corte di Cassazione

sezione I

sentenza n. 18541 del 2 agosto 2013

Svolgimento del processo

Con la sentenza impugnata, confermando la pronuncia di primo grado, la Corte d’Appello di Roma ha accolto l’opposizione a decreto ingiuntivo proposta da S.M. e M.P. M. avverso il decreto loro notificato in qualità rispettivamente di debitore principale e fideiussore della s.p.a.
Banca di Roma (attualmente Capitalia S.P.A.) per l’importo di L. 89.419.249. A sostegno dell’opposizione era stato dedotto, in primo grado, che la somma richiesta era nettamente superiore a quella dovuta, non solo perchè uno dei due saldi passivi era stato pagato ma anche perchè era stata illegittimamente praticata la capitalizzazione trimestrale degli interessi e l’applicazione di un tasso superiore a quello stabilito dalla L. n. 108 del 1996. Veniva, infine, rilevato che, in violazione del principio di buona fede, era stato immotivatamente revocato il fido, concesso solo poco tempo prima. A seguito dell’accoglimento dell’opposizione da parte del Tribunale, fondata sull’insufficienza probatoria dei saldaconti certificati prodotti dall’istituto bancario a sostegno del credito azionato, nel giudizio a cognizione piena a fronte delle contestazioni degli opponenti, sull’appello della banca, la Corte territoriale ha affermato per quel che ancora interessa:

a) che gli opponenti nel corso del giudizio di primo grado avevano contestato l’entità del credito anche in ordine all’illegittima capitalizzazione degli interessi passivi da reputarsi mera argomentazione difensiva, pacificamente prospettabile senza incorrere in preclusioni;
b) che l’istituto bancario nel primo grado del giudizio aveva prodotto esclusivamente certificati di saldaconto e non estratti conto;
c) che il giudice di primo grado aveva condivisibilmente ritenuto tali documenti inidonei a sostenere la prova nel giudizio a cognizione piena, non potendo reputarsi sufficiente la certificazione del dato finale da parte dei dirigenti della banca;
d) non era applicabile l’invocato art. 2710 cod. civ. non versandosi nella specie in “rapporti inerenti all’esercizio dell’impresa”;
e) gli estratti conto prodotti nel secondo grado dovevano ritenersi irrilevanti perchè temporalmente riferibili al periodo successivo al 30/6/93, riportando come dato iniziale saldaconti passivi non verificabili.
Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione S.P.A. Capitalia affidandosi ad un unico articolato motivo di ricorso. Hanno resistito con controricorso il S. e la M..

Motivi della decisione

Con l’unico motivo di ricorso viene censurata la violazione e falsa applicazione degli artt. 1832, 1857, 2220 cod. civ. e del D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 119 nonchè il vizio di motivazione della sentenza impugnata per non aver correttamente valutato la produzione nel giudizio d’appello degli estratti dei due conti correnti oggetto di causa. In primo luogo la banca ricorrente ha rilevato la tempestività della produzione, dal momento che nella fattispecie non si applicano le preclusioni previste dall’art. 345 cod. proc. civ. nella formulazione vigente dopo l’entrata in vigore della L. n. 353 del 1990, essendo il giudizio stato introdotto prima del 30/4/1995.
In secondo luogo viene rilevato che gli estratti conto costituiscono la puntuale rappresentazione contabile delle operazioni intercorse tra le parti in un periodo predeterminato e la loro non contestazione, nel termine di sessanta giorni dal ricevimento periodico, ne sancisce l’approvazione. Pertanto deve reputarsi incontestabile sia la movimentazione debitoria e creditoria che il saldo in essi contenuto in quanto mai oggetto di rilievi da parte del cliente. Ne consegue che tale documentazione può essere disattesa solo in presenza di circostanziate e dettagliate contestazioni della parte debitrice. Deve aggiungersi che l’estratto conto costituisce prova anche nei confronti del fideiussore. In ordine al difetto di rilevanza, sollevato dalla Corte d’Appello, la parte ricorrente evidenzia che la banca non era tenuta a fornire gli estratti conto fin dall’inizio del rapporto dal momento che il cliente era stato messo in grado di valutare la legittimità della pretesa della banca mediante l’invio periodico degli stessi. Deve, pertanto, escludersi che fosse tenuta a tale produzione in giudizio dal momento che, ai sensi dell’art. 1832 cod. civ., nelle controversie banca cliente possono venire in considerazione soltanto le poste che non siano coperte dalla tacita approvazione del conto. Peraltro la controparte dopo aver esaminato la documentazione prodotta non aveva sollevato rilievi nè in ordine al saldo iniziale nè in ordine a quello finale. Infine l’art. 119 T.U.B. riconosce al cliente il diritto di richiedere a proprie spese soltanto gli estratti conto degli ultimi dieci anni mentre l’art. 2220 cod. civ. sancisce il principio secondo il quale le scritture contabili devono essere conservate per dieci anni, potendo successivamente essere distrutte.
Qualora il motivo non fosse accolto viene infine sollevata eccezione d’illegittimità costituzionale degli artt. 2220 cod. civ. e dell’art. 50 T.U.B. con riferimento agli art. 3 e 24 Cost. Se si condivide l’assunto della Corte d’Appello, secondo il quale gli estratti conto depositati nel giudizio di secondo grado sarebbero irrilevanti perchè non provato lo svolgimento del rapporto fin dal suo sorgere, ne dovrebbe conseguire l’illegittimità delle norme che prescrivono la distruzione dei documenti contabili dopo dieci anni.

Sarebbe infatti singolare da un lato permettere la distruzione delle scritture contabili più vecchie di un decennio e dall’altro non riconoscere agli estratti conto quella efficacia probatoria atta a dimostrare quale fosse l’ammontare del saldo in epoca anteriore al decennio.
Occorre preliminarmente osservare che nella sentenza impugnata non viene censurata l’ammissibilità, sotto il profilo della tempestività, della produzione degli estratti conto relativi ai conti correnti dai quali è stato desunto il credito azionato in via monitoria. La Corte d’Appello ne ha ritenuto l’insufficienza probatoria per non essere stata messa in grado di ricostruire attraverso di essi i rapporti di dare avere dai quali è sorto il credito contestato. Al riguardo deve rilevarsi che l’operatività sanante dell’art. 1832 cod. civ., come affermato nel fermo orientamento di questa Corte, riguarda gli accrediti e gli addebiti considerati nella loro realtà effettuale, nonchè la verità contabile, storica e di fatto delle operazioni annotate, ma non impedisce la formulazione di censure concernenti la validità ed efficacia dei rapporti obbligatori sottostanti (tra le più recenti, Cass. 11626 del 2011). Nella specie, la contestazione relativa all’illegittima applicazione degli interessi anatocistici, costituisce una censura relativa alla validità delle condizioni contrattuali stabilite dall’istituto bancario e sottoscritte dal cliente idonea ad alterare, nonostante la correttezza contabile delle annotazioni eseguite sul conto, il risultato finale. Al riguardo è stato affermato con orientamento costante dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. 17679 del 2009; 23974 del 2010) che la mancata contestazione degli estratti conto inviati al cliente dalla banca, oggetto di tacita approvazione in difetto di contestazione ai sensi dell’art. 1832 cod. civ., non vale a superare la nullità della clausola relativa agli interessi ultralegali, perchè l’unilaterale comunicazione del tasso d’interesse non può supplire al difetto originario di valido accordo scritto in deroga alle condizioni di legge, richiesto dall’art. 1284 cod. civ. Ne consegue che superata la fase monitoria, nella quale possono essere prodotti gli estratti conto relativi all’ultima fase di movimentazione del conto, ai sensi del citato art. 50 T.U.B. attualmente vigente, nel successivo giudizio a cognizione piena, una volta che sia stata contestata, per mancanza dei requisiti di legge, la pattuizione degli interessi ultralegali la banca è tenuta a produrre gli estratti conto a partire dall’apertura del conto, anche oltre il decennio “perchè non si può confondere l’onere di conservazione della documentazione contabile con quello di prova del proprio credito”. (Cass. 23974 del 2010). La contestazione relativa all’illegittima capitalizzazione degli interessi, determina, alla luce del consolidato orientamento di questa Corte (S.U. 21095 del 2004), la necessità di verificare fin dall’inizio del rapporto e nei limiti dell’applicabilità della prescrizione (S.U. 24418 del 2010), ove eccepita, l’esistenza e l’applicazione della previsione negoziale invalida. La produzione degli estratti conto relativi ad una frazione temporale unilateralmente individuata dalla banca nella fase più recente di operatività del rapporto, è radicalmente inidonea ad assolvere all’onus probandi posto a carico di essa. La norma contenuta nell’art. 2220 cod. civ., secondo la quale le scritture contabili devono essere conservate per dieci anni dall’ultima registrazione costituisce uno strumento di tutela per i terzi estranei all’attività imprenditoriale volto a garantire l’accesso, la conoscibilità e la trasparenza delle attività d’impresa. Così definita (Cass. 1842 del 2011) la ratio legis dell’art. 2220 cod. civ., la previsione di un così ampio lasso temporale di operatività dell’obbligo di conservazione dei documenti contabili, non può essere interpretata come una limitazione legale dell’onus probandi posto a carico di chi è tenuto, conformemente ai creditori non imprenditori, a fornire la prova integrale del proprio credito, non potendo sottrarsi a tale onere, nel giudizio a cognizione piena, quando le contestazioni del debitore riguardano l’intera durata del rapporto.
Pertanto deve concludersi per la manifesta infondatezza della adombrata eccezione d’illegittimità costituzionale dell’art. 2220 cod. civ., correlato all’art. 50 T.U. n. 385 del 1993, dovendosi ribadire la radicale diversità tra le esigenze probatorie (di natura sommaria, o fondate sulla fede privilegiata attribuita ad alcuni documenti unilateralmente provenienti dal creditore, cfr. Cass. 9695 del 2011) della fase monitoria da quelle del giudizio a cognizione piena, ove occorre dimostrare l’esistenza e l’entità del proprio credito mediante la puntuale applicazione dell’art. 2697 cod. civ..

Al rigetto del ricorso segue l’applicazione del principio della soccombenza in ordine alle spese di lite del presente procedimento.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente procedimento liquidate in Euro 2500,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi ed oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 aprile 2013.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *