fallimento-impresa

Suprema Corte di Cassazione

sezione I

sentenza 16 dicembre 2013, n. 28015

Ritenuto in fatto e in diritto

1.- Con la sentenza impugnata – depositata il 7.4.2011 -la Corte di appello di Catanzaro ha rigettato il reclamo proposto da S.C. contro la sentenza dichiarativa di fallimento della s.r.l. “Syntesi”, emessa su ricorso della stessa società, di cui il reclamante era stato amministratore.
La Corte di appello ha ritenuto infondati i motivi di reclamo che attenevano all’assoggettabilità o meno a fallimento della società fallita, in quanto consorzio con attività esterna e non interna, come sostenuto dal reclamante, e alla sussistenza dello stato di insolvenza. Contro la sentenza di appello lo S. ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi. Non ha svolto difese la curatela intimata.
2.1.- Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 1 L. fall, e vizio di motivazione. Deduce che l’attività di trasporto per conto terzi contenuta nell’oggetto sociale era necessitata da esigenze di autorizzazione per attività da svolgersi in favore dei consorziati. Non vi è mai stata attività edilizia. Si trattava di consorzio che non svolgeva attività commerciale e con rilevanza interna e la Corte di appello avrebbe potuto accertarlo con una c.t.u. Si duole che il giudice di appello abbia deciso sulla base della previsione statutaria. Erroneamente la Corte di appello avrebbe ritenuto sussistente il fine lucrativo sulla base soltanto della previsione statutaria.
2.2.- Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 5 L. fall., e vizio di motivazione. In sintesi contesta che il consorzio si trovasse in stato di insolvenza: il consorzio ha generato perdite solo a causa del comportamento dei soci che ne hanno voluto, poi, il fallimento.
2.3.- Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2602, 2612 e ss. c.c. e vizio di motivazione. Deduce che la fallibilità o meno di un soggetto giuridico non è data dalla circostanza che lo stesso svolga attività mutualistica o lucrativa ma dalla rilevanza esterna o meno dell’attività svolta e che la stessa sia o meno di natura commerciale tanto che, ricorrendone i presupposti, può essere dichiarato il fallimento anche di un soggetto che svolge attività mutualistica. La Corte di appello avrebbe erroneamente ritenuto la fallibilità sulla base della sola previsione statutaria della divisione di utili, elemento non qualificante. Per contro manca ogni risposta in merito alla rilevanza esterna dell’attività svolta dal consorzio, il quale ha operato solo nell’interesse delle società consorziate.
3. – Il primo e il terzo motivo – connessi – possono essere esaminati congiuntamente.

Le censure sono infondate.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Sez. L, Sentenza n. 2503 del 1993, in motivazione), “costituiscono centri d’imputazione di rapporti giuridici, autonomi rispetto alle imprese consorziate -secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine le sentenze 441-89, 1052-69, 1282-51) – i consorzi con attività esterna (art. 2612 ss. c.c.), ai quali vengono attribuite, appunto, funzioni imprenditoriali esterne. Ciò emerge, infatti, dalla speciale disciplina di tali consorzi, che attiene – oltreché alla previsione di un sistema di pubblicità legale (art. 2612 c.c.), in funzione delle informazioni dei terzi circa la struttura organizzativa del consorzio – alla già ricordata rappresentanza in giudizio (art. 2613 c.c, cit.), al fondo comune (art. 2614 c.c) e, soprattutto, alla responsabilità verso terzi (art. 2615 c.c). Anzi è stata, proprio, la modifica di quest’ultima disposizione (mediante l’art. 3 L. 377-76) – che ha introdotto la responsabilità esclusiva del consorzio con attività esterna (v. Cass. 441-89, cit.), per le obbligazioni assunte in suo nome (delle quali, in precedenza, rispondevano, solidalmente ed illimitatamente, anche coloro che avevano agito in nome del consorzio) – a dilatarne l’autonomia, inducendo (una autorevole dottrina) a prospettare, addirittura, l’autonomia patrimoniale perfetta. Quale che sia la latitudine della loro autonomia, pare certo, tuttavia, che il consorzio con attività esterna sia imprenditore e, come tale, soggetto al fallimento (v. Cass. 441-89, cit.) – che non si estende però ai consorziati (non essendo costoro illimitatamente responsabili delle sue obbligazioni: art. 2615, primo comma, c.c.) – nonché, in genere, agli statuti (per i diversi tipi) di impresa, ove ne ricorrano i presupposti ed i requisiti rispettivi. Né privo di significato è il processo di assimilazione alla società per azione, quale emerge dalla parziale estensione (ai sensi dell’art. 2615 bis c.c., sub art. 4 L. 377-76) della disciplina della società stessa ai consorzi con attività esterna (v. Cass. 441-89, cit.). Ne risulta che siffatti consorzi sono entità giuridiche, autonome rispetto alle imprese consorziate, nonché portatrici di interessi e posizioni giuridiche soggettive, distinti da quelli delle imprese stesse”.
In virtù del testo novellato dell’art. 2602 codice civile, scopo dell’organizzazione comune del consorzio può anche essere, oltre alla disciplina della concorrenza tra le imprese dei singoli consorziati, lo svolgimento di alcune fasi delle attività d’impresa medesime e ciò, secondo la migliore dottrina, confermerebbe l’opinione da tempo manifestata dalla dottrina stessa secondo la quale assume rilievo nella qualificazione del consorzio la caratteristica di “impresa ausiliaria” rispetto all’impresa consorziata. Talché il consorzio, partecipando della stessa natura dell’imprenditore commerciale consorziato, ne condivide l’assoggettabilità a procedura concorsuale.
4.- Ciò premesso in diritto, quanto ai vizi di motivazione denunciati, va osservato che la Corte di merito ha accertato – fornendo adeguata giustificazione – che la società consortile fallita era costituita in forma di consorzio con attività esterna, evidenziando che “è lo stesso statuto del consorzio, oltre che la forma di società di capitali in cui esso si esprime, a contenere l’espressa previsione di un’attività esterna come parte dell’oggetto sociale”, posto che l’art. 3 dell’atto costitutivo menziona, come “oggetto lo svolgimento, con propria organizzazione dei mezzi necessari e per conto dei soci consorziati, delle seguenti attività: esecuzione lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria di beni mobili ed immobili, di impianti elettrici, igienico sanitari, di riscaldamento e condizionamento, di pulizia; – trasporto e movimentazione merci per conto terzi;
servizi amministrativi, contabili ed elaborazione dati e qualsiasi altro servizio reale”. Inoltre, l’art. 33 dello statuto prevede che “il risultato di esercizio è ripartito o destinato secondo la deliberazione presa in merito dall’Assemblea. In caso di risultato positivo, almeno il 5% dell’utile deve comunque essere destinato alla riserva ordinaria, secondo il disposto dell’art. 2340 c.c.”, mentre, secondo l’art. 34, “il pagamento dei dividendi è effettuato nei termini e secondo le modalità stabilite dall’assemblea o dal consiglio di amministrazione o dall’ amministratore unico”.
La società – secondo la Corte di merito – mostra di avere, come elemento costitutivo del suo oggetto sociale, un’attività commerciale che si riverbera e si rivolge all’esterno, il che ne fa ex sé un consorzio con attività esterna, per come definito espressamente nell’art. 2612 c.c., secondo il quale il consorzio svolge alcune attività in confronto di soggetti terzi (e tali non sono i consociati rispetto all’attività consortile) atteggiandosi nei confronti di questi come un autonomo centro di imputazione e di responsabilità.
Correttamente, pertanto, la sentenza impugnata ha ritenuto applicabile la normativa sul fallimento alla società in questione, posto che le società costituite nelle forme previste dal codice civile ed aventi ad oggetto un’attività commerciale sono assoggettabili a fallimento, indipendentemente dall’effettivo esercizio di una siffatta attività, in quanto esse acquistano la qualità di imprenditore commerciale dal momento della loro costituzione, non dall’inizio del concreto esercizio dell’attività d’impresa, al contrario di quanto avviene per l’imprenditore commerciale individuale. Sicché, mentre quest’ultimo è identificato dall’esercizio effettivo dell’attività, relativamente alle società commerciali è lo statuto a compiere tale identificazione, realizzandosi l’assunzione della qualità in un momento anteriore a quello in cui è possibile, per l’impresa non collettiva, stabilire che la persona fisica abbia scelto, tra i molteplici fini potenzialmente raggiungibili, quello connesso alla dimensione imprenditoriale (Sez. 1, Sentenza n. 21991 del 06/12/2012).
Talché sono infondate anche le censure relative alla motivazione in fatto.
5.- Quanto al secondo motivo, va rilevato che con esso si contesta soltanto genericamente la sussistenza dello stato di insolvenza, senza una specifica censura dell’adeguata motivazione della sentenza impugnata, la quale ha desunto il presupposto oggettivo di fallibilità dall’analisi dei bilanci, che indicava, alla fine del 2008, debiti per Euro 1.017.638 (costituiti da debiti verso dipendenti ed enti previdenziali, debiti verso l’erario per imposte, debiti verso fornitori), con una perdita d’esercizio di Euro 31.197,18, a fronte di un attivo costituito da crediti -chirografari – per complessivi Euro 965.485, da riscuotere però anche in confronto dei consociati, di cui almeno due risultavano falliti (Euro 203.719,29 vantati nei confronti della Edil Bruzia srl, fallita, ed Euro 435.412,90 nei confronti della Dolce Forno srl, anch’essa fallita). Tali dati, unitamente all’inesistenza di personale e di beni di “nessun genere” in capo alla società, perché tutti i beni strumentali erano stati venduti nel marzo 2008, la totale erosione del capitale sociale e l’inesistenza della liquidità – pur figurante in bilancio – hanno correttamente indotto la corte di merito a rigettare il reclamo in punto insolvenza e tale motivazione appare solo genericamente impugnata. Il ricorso, dunque, deve essere rigettato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

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