Corte di Cassazione, sezione II civile, sentenza 29 novembre 2016, n. 24255

La banca è corresponsabile di riciclaggio per la mancata segnalazione del dipendente di operazioni sospette di riciclaggio la cui “fumosità” poteva essere dedotta dal numero degli assegni emessi

Suprema Corte di Cassazione

sezione II civile

sentenza 29 novembre 2016, n. 24255

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BIANCHINI Bruno – Presidente
Dott. PARZIALE Ippolisto – Consigliere
Dott. ORILIA Lorenzo – rel. Consigliere
Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere
Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 8417-2014 proposto da:

(OMISSIS) SPA, elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS);

– ricorrente –

contro

MINISTERO ECONOMIA FINANZE, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende o e legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 187/2013 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 11/02/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/10/2016 dal Consigliere Dott. LORENZO ORILIA;

uditi gli Avvocati (OMISSIS), (OMISSIS), difensori del ricorrente che hanno chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PEPE Alessandro, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1 Con sentenza 11.2.2013, la Corte d’Appello di Palermo, accogliendo l’impugnazione del Ministero dell’Economia e delle Finanze, ha rigettato, in riforma della sentenza di primo grado, l’opposizione proposta dal (OMISSIS) spa quale obbligato in solido contro l’ordinanza ingiunzione n. 50432 del 4.12.2011 emessa dal Ministero in relazione alla violazione della L. n. 197 del 1991, articolo 3 (omessa segnalazione di operazioni bancarie sospette, consistenti nella emissione, da parte di una societa’ correntista presso l’Agenzia di (OMISSIS) durante il periodo di direzione di (OMISSIS), di circa trecento assegni bancari per complessive lire 5.799.500.000, ma tutti di importo inferiore alla soglia dei 20 milioni di lire e con l’ordine di pagamento “a me stesso”).

Per giungere a tale conclusione la Corte d’Appello ha dapprima rigettato le eccezioni riproposte dalla banca appellata rilevando:

– che quella di decadenza era da ritenersi infondata sulla scorta della ricostruzione dei fatti, cosi’ come infondata doveva ritenersi quella di prescrizione e quella con cui si deduceva l’incompetenza del Direttore Generale ad emettere l’ingiunzione; che la mancata audizione del direttore (OMISSIS) non comporta la nullita’ del provvedimento, e che comunque era stato ascoltato il legale rappresentante della Banca;

– che appariva altresi’ infondata l’eccezione di mancanza del parere obbligatorio della Commissione prevista dall’articolo 32 del Testo Unico valutario, perche’ tale commissione era stata soppressa con decreto legge;

che era infondata l’eccezione di nullita’ della costituzione in giudizio del Ministero;

Superate le predette eccezioni, la Corte palermitana ha condiviso la tesi del ministero sulla natura sospetta delle operazioni bancarie consistenti nei cambi dei numerosi assegni secondo le suindicate modalita’.

2. Per la cassazione di tale sentenza ricorre la (OMISSIS) spa (societa’ incorporante del (OMISSIS)) sulla base di dieci motivi illustrati da memoria ex articolo 378 c.p.c. a cui resiste il Ministero dell’Economia e delle Finanze con controricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1-2-3-4-5 Innanzitutto, e’ bene precisare, in risposta alla specifica eccezione mossa dal Ministero controricorrente che, secondo la piu’ recente giurisprudenza di questa Corte, condivisa dal Collegio, e’ ammissibile il ricorso per cassazione il quale cumuli in un unico motivo le censure di cui all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e n. 5, allorche’ esso comunque evidenzi specificamente la trattazione delle doglianze relative all’interpretazione o all’applicazione delle norme di diritto appropriate alla fattispecie ed i profili attinenti alla ricostruzione del fatto (cfr. Sez. 2, Sentenza n. 9793 del 23/04/2013 Rv. 626154). Insomma, il fatto che un singolo motivo sia articolato in piu’ profili di doglianza, ciascuno dei quali avrebbe potuto essere prospettato come un autonomo motivo, non costituisce, di per se’, ragione d’inammissibilita’ dell’impugnazione, dovendosi ritenere sufficiente, ai fini dell’ammissibilita’ del ricorso, che la sua formulazione permetta di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate onde consentirne, se necessario, l’esame separato esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati (cosi’ Sez. U, Sentenza n. 9100 del 06/05/2015 Rv. 635452).

Nel caso di specie, la formulazione del ricorso permette di cogliere con sufficiente chiarezza le doglianze prospettate dalla banca onde consentirne l’esame separato e, d’altra parte, il controricorso non evidenzia specifici elementi che depongono in senso contrario, limitandosi, invece, alla sola enunciazione della piu’ risalente giurisprudenza favorevole alla tesi restrittiva, che le stesse sezioni unite hanno poi superato.

Cio’ chiarito, e passando all’esame delle singole censure, con la prima di esse si deduce la violazione e falsa applicazione della L. n. 197 del 1991, articoli 3 e 5, nel testo all’epoca vigente, in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 3 nonche’ omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che e’ stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 5. Nel criticare la ritenuta natura sospetta delle operazioni, la Banca ricorrente si duole della mancata considerazione gli elementi di fatto da essa addotti per dimostrare la piena conoscenza delle condizioni del cliente e quindi della assenza della necessita’ di provvedere alla segnalazione. Si sofferma quindi sull’analisi dei bilanci e della solidita’ economica della societa’ correntista nonche’ sul contenuto della consulenza tecnica di ufficio svolta nel giudizio di merito.

Col secondo e terzo motivo denunzia violazione delle stesse disposizioni e ancora l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio sempre con riferimento alla ritenuta natura sospetta delle operazioni soffermandosi, attraverso una analitica disamina, sul profilo soggettivo del cliente e sui profili oggettivi delle operazioni, per poi dedurre l’estraneita’ della fattispecie configurata in concreto rispetto al tipo astratto.

Col quarto motivo, si denunzia la violazione delle medesime disposizioni e il vizio di omessa pronuncia circa un fatto decisivo: ad avviso della ricorrente, la Corte d’Appello, sulla scia del fenomeno descritto dall’Avvocatura dello Stato, avrebbe desunto l’obbligo di segnalazione dal solo dato oggettivo (caratteristiche, entita’ e natura delle operazioni), trascurando e azzerando il margine di discrezionalita’ insito nella L. n. 197 del 1991, articolo 3 che attribuisce all’operatore creditizio la valutazione del fatto. Richiama il decalogo della Banca d’Italia e ritiene che nel caso in esame sussistessero elementi incontroversi per ritenere corretto il prelievo degli assegni (peraltro solo 300 nell’arco di un quinquennio rispetto a 5376 operazioni); in ogni caso – aggiunge la ricorrente – mancherebbe il dolo o la colpa grave. La Corte d’appello, inoltre, avrebbe dovuto motivare sul perche’, stante la discrezionalita’ dell’operatore, si richiedesse un obbligo disegnalazione anche per operazioni di prelievo di danaro insospettabilmente “pulito” in quanto destinato ad esigenze aziendali; rileva altresi’ che allo (OMISSIS) era comunque addebitabile solo la parte degli assegni negoziati durante la propria reggenza.

Con la quinta censura, oltre alle violazioni di norme indicate nei motivi precedenti, la ricorrente deduce anche la violazione della L. n. 689 del 1981, articolo 6 (in tema di solidarieta’ dell’obbligazione per le violazioni commesse dai dipendenti), dolendosi dell’affermazione di una “responsabilita’ diretta” senza alcuna considerazione della diversa posizione dell’intermediario abilitato (datore di lavoro del preposto). Rileva che neppure l’apposto software (cd. sistema GIANOS) aveva segnalato anomalie nel periodo in esame) e quindi la Corte d’Appello, non avrebbe potuto porre a base della pronuncia la violazione di norme non poste in essere dalla banca.

Questi cinque motivi – che ben si prestano a trattazione unitaria per il prevalente riferimento alla natura delle operazioni contestate – sono privi di fondamento.

Il Decreto Legge 3 maggio 1991, n. 143, articolo 3 convertito con modificazioni in L. 5 luglio 1991, n. 197 (Provvedimenti urgenti per limitare l’uso del contante e dei titoli al portatore nelle transazioni e prevenire l’utilizzazione del sistema finanziario a scopo di riciclaggio) stabilisce che “il responsabile della dipendenza, dell’ufficio o di altro punto operativo di uno dei soggetti di cui all’articolo 4, indipendentemente dall’abilitazione ad effettuare le operazioni di trasferimento di cui all’articolo 1, ha l’obbligo di segnalare senza ritardo al titolare dell’attivita’ o al legale rappresentante o a un suo delegato ogni operazione che per caratteristiche, entita’, natura, o per qualsivoglia altra circostanza conosciuta a ragione delle funzioni esercitate, tenuto conto anche della capacita’ economica e dell’attivita’ svolta dal soggetto cui e’ riferita, induca a ritenere, in base agli elementi a sua disposizione, che il danaro, i beni o le utilita’ oggetto delle operazioni medesime possano provenire dai delitti previsti dagli articoli 648-bis e 648-ter c.p.. Tra le caratteristiche di cui al periodo precedente e’ compresa, in particolare, l’effettuazione di una pluralita’ di operazioni non giustificata dall’attivita’ svolta da parte della medesima persona, ovvero, ove se ne abbia conoscenza, da parte di persone appartenenti allo stesso nucleo familiare o dipendenti o collaboratori di una stessa impresa o comunque da parte di interposta persona”.

Come gia’ chiarito da questa Corte (v. Sez. 5, Sentenza n. 23017 del 30/10/2009 Rv. 610701), lo scopo cui tende la norma e’ quello, annunziato gia’ nel titolo del Decreto Legge n. 143 del 1991, di contrastare i fenomeni criminali, limitando l’uso del denaro contante e dei titoli al portatore nelle transazioni e prevenendo “l’utilizzazione dei sistema finanziario a scopo di riciclaggio”; a tal fine, il legislatore – recependo anche direttive Europee (cfr. Decreto Legislativo n. 153 del 1997) – intende reprimere alcune condotte di pericolo fra le quali, per quanto ora interessa, quelle operazioni che “per caratteristiche, entita’, natura, o per qualsivoglia altra circostanza, induca(no) a ritenere” la possibile provenienza di denaro, beni o utilita’, oggetto di dette operazioni, da taluno dei reati contemplati dagli articoli 648 bis e 648 ter c.p. (Decreto Legge n. 143 del 1991, articolo 3, comma 1, sostituito dal Decreto Legislativo n. 153 del 1997, articolo 1, entrato in vigore il 1.9.1997, per segnalazioni effettuate dopo tale data, come prescrive il successivo articolo 2, quindi applicabile alla controversia in esame).

Tenuto a segnalare simili operazioni e’ “il responsabile della dipendenza”, il quale ne riferisce al ” titolare dell’attivita’, al legale rappresentante o un suo delegato” il quale a sua volta “esamina le segnalazioni pervenutegli e, qualora le ritenga fondate tenendo conto dell’insieme degli elementi a sua disposizione, anche desumibili dall’archivio di cui all’articolo 2, comma 1, le trasmette senza ritardo, ove possibile prima di eseguire l’operazione, anche in via informatica e telematica, all’Ufficio italiano dei cambi senza alcuna indicazione dei nominativi dei segnalanti” (articolo 3 cit., comma 2).

Nelle ipotesi contemplate dall’articolo 3, ossia nel caso di operazioni sospettabili di riciclaggio, la legge prevede dunque un duplice obbligo di segnalazione, ugualmente sanzionato dal Decreto Legge n. 143 del 1991, articolo 5, comma 5: da parte del responsabile della dipendenza al titolare dell’attivita’, ossia all’organo direttivo della banca (articolo 3, comma 1), e da parte di quest’ultimo al questore comma 2).

E’ del tutto evidente che il potere di valutare le segnalazioni e di trasmetterle al Questore solo se le ritenga fondate, in base all’insieme degli elementi a disposizione, spetta solo al titolare dell’attivita’; mentre il responsabile della dipendenza ha un margine di discrezionalita’ piu’ ridotto, dovendo segnalare al suo superiore “ogni” operazione che lo “induca a ritenere” che l’oggetto di essa “possa provenire” da reati attinenti al riciclaggio.

Anche nell’ambito di questo piu’ ristretto margine di giudizio, il responsabile della dipendenza deve controllare, per vero, che sussistano elementi tali da far ritenere sospetta l’operazione; ma si tratta di elementi essenzialmente oggettivi stabiliti dalla stessa legge – caratteristiche, entita’, natura o “qualsivoglia altra circostanza” oggettivamente significativa – o ulteriormente specificati dalla Banca d’Italia; laddove gli elementi (pur sempre di carattere oggettivo) riferibili al cliente, che il responsabile della dipendenza e’ pure tenuto a considerare, sono la capacita’ economica e l’attivita’ svolta.

Cosi’ ricostruito il quadro normativo, occorre chiarire che il fatto decisivo per il giudizio che e’ stato oggetto di discussione tra le parti, a cui si riferisce il nuovo testo dell’articolo 360 c.p.c., n. 5 (applicabile alla fattispecie in esame) quel fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia) tra le varie, Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014 Rv. 629831; Sez. L, Sentenza n. 15636 del 2016, in motivazione). Le sezioni unite hanno altresi’ precisato che la riformulazione dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal Decreto Legge 22 giugno 2012, n. 83, articolo 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’articolo 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimita’ sulla motivazione. Pertanto, e’ denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in se’, purche’ il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata,a prescindere dalconfronto con lerisultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (v. Sez. U, Sentenza n. 8053/2014 cit.).

Ebbene, nel caso di specie si e’ sicuramente fuori da tali ipotesi estrema perche’ la Corte siciliana ha esaminato il fatto decisivo, cioe’ la natura delle operazioni bancarie poste in essere dalla correntista (la societa’ (OMISSIS) operante nel settore del commercio di agrumi), sottolineando l’emissione, tra il gennaio 1995 e l’ottobre 1999, di ben 300 assegni per prelevamenti in contanti, ciascuno di importo prossimo e inferiore ai 20.000.000 di vecchie lire, per un totale complessivo di lire 5.799.500.000, sintomo – sempre secondo l’apprezzamento del giudice di merito – di una radicata tolleranza della banca verso un modus operandi del cliente improntato all’elusione della normativa antiriciclaggio.

La Corte d’Appello, contrariamente a quanto dedotto in ricorso, si e’ confrontata anche con la linea difensiva della Banca (imperniata a sua volta sulla solidita’ economica della cliente) ed ha spiegato le ragioni del dissenso evidenziando il fatto che il legale rappresentante della societa’ (OMISSIS), anziche’ emettere assegni di importo pari alle variabili necessita’ di danaro liquido della societa’ (talvolta giustificate con l’esigenza di provvedere ai pagamenti spettanti ai conferitori, talaltra con non meglio specificate esigenze amministrative), ricorreva sistematicamente alla all’emissione per un importo inferiore ai 20 milioni di lire, con cio’ manifestando – sempre secondo l’apprezzamento del giudice di merito – un ben preciso intento elusivo (ovverosia finalizzato all’unico scopo di non incorrere nella segnalazione dovuta dall’intermediario e nelle successive verifiche ispettive), che avrebbe doverosamente imposto l’attivazione della segnalazione prevista per la normativa antiriciclaggio.

Ad avviso della Corte d’Appello, in presenza di un si’ evidente e ripetuto comportamento evasivo, sintomo della conoscenza da parte del cliente della normativa antiriciclaggio e della precisa finalita’ di evitare la segnalazione prevista dalla L. n. 197 del 1991 articolo 3, la Banca avrebbe dovuto diligentemente riversare sulle autorita’ competenti il compito di verificare le ragioni di una condotta pervicace ed oggettivamente sospetta, anziche’ trincerarsi dietro un convincimento di liceita’ del’operato della societa’ (OMISSIS), convincimento del tutto soggettivo, fondato su una inesatta e incompleta percezione della realta’.

Insomma, secondo la Corte d’Appello, nel caso di specie, si imponeva la segnalazione, espressamente prevista dal decalogo della Banca di Italia “in caso di frequente ricorso a tecniche di frazionamento dell’operazione, soprattutto se volte ed eludere gli obblighi di identificazione o registrazione” (v. pagg. 13 e ss sentenza impugnata).

Sui fatti di rilevanza penale commessi, per cosi’ dire, a monte delle operazioni bancarie di cui si discute, la Corte d’Appello ha riportato le dichiarazioni del M.llo della Guardia di Finanza da cui emergeva che i soggetti “conferitori” dei prodotti, sentiti a campione, neanche conoscevano l’esistenza della (OMISSIS); ha altresi’ rilevato che “i movimenti di merce sottostanti alle ingenti movimentazioni di danaro in contanti sono risultati – ad una controllo della medesima GDF attualmente in corso di verifica da parte del giudice penale – inesistenti” (v. pag. 15 sentenza impugnata”.

Tali considerazioni dimostrano quindi che la Corte di merito si era posta anche il problema della provenienza del danaro via via prelevato in contanti presso lo sportello bancario.

Trattasi, come si vede, di un percorso argomentativo completo, giuridicamente corretto e, come tale, non attaccabile dalle lunghe censure di tipo esclusivamente fattuale, tendenti in sostanza a sollecitare una ricostruzione alternativa dei fatti, assolutamente preclusa in questa sede.

6. Col sesto motivo si denunzia la violazione e falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, articolo 14 e della L. n. 197 del 1991, articoli 3 e 5, nel testo all’epoca vigente, in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 3 nonche’ l’omesso esame di un fatto decisivo. Osserva la ricorrente societa’ che il termine di 90 giorni per contestare la violazione doveva decorrere dal 18.4.2000, data di notificazione del verbale della Guardia di Finanza (verbale non di accertamento ma di contestazione) e non gia’ dall’8.8.2000 (data di comunicazione al Ministero del predetto verbale). Applicando correttamente la decorrenza dal 18.4.2000, risultava pertanto tardiva la contestazione avvenuta solo in data 17.10.2000.

La censura priva di autosufficienza e come tale inammissibile, mancando la trascrizione comunque i dati essenziali circa il deposito nel giudizio di merito) del documento cardine a sostegno della doglianza, il verbale della Guardia di Finanza la cui natura viene oggi posta in discussione, non apparendo sufficiente la riproduzione di isolati passaggi contenuta a pag. 2 e 3 del ricorso.

In tema di ricorso per cassazione, ai fini del rituale adempimento dell’onere, imposto al ricorrente dall’articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 6, di indicare specificamente nel ricorso anche gli atti processuali su cui si fonda e di trascriverli nella loro completezza con riferimento alle parti oggetto di doglianza, e’ necessario che, in ossequio al principio di autosufficienza, si provveda anche alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame. (tra le varie, Sez. 3, Sentenza n. 8569 del 09/04/2013 Rv. 625839).

Il principio vale naturalmente sia per gli atti processuali che per i documenti.

7. Col settimo motivo si denunzia la violazione e falsa applicazione della L. n. 197 del 1991, articolo 5, nel testo all’epoca vigente, in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 3 nonche’ ancora omesso esame circa un fatto decisivo in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 5. Si critica la sentenza per avere ritenuto, in caso di provvedimenti sanzionatori emessi dai Direttori Generali, non necessaria una particolare delega ministeriale: al contrario, secondo la tesi della Banca, il Direttore Generale, in mancanza di espressa delega, non era legittimato.

La censura e’ priva di fondamento perche’ si scontra col principio di diritto, gia’ affermato da questa Corte – ed oggi ribadito – secondo cui in tema di sanzioni amministrative, la sanzione pecuniaria per la violazione di omessa segnalazione di operazioni finanziarie sospette, di cui al Decreto Legge maggio 1991, n. 143, articolo 3, convertito, con modificazioni, nella L. 5 luglio 1991, n. 197, e’ legittimamente irrogata, ai sensi dell’articolo 5 dello stesso Decreto Legge n. 143, dal direttore generale del ministero competente all’emissione del decreto sanzionatorio.

Infatti, l’anzidetto articolo 5 deve essere interpretato alla luce della disciplina recata dal Decreto Legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, articoli 3, 14 e 16 (vigente “ratione temporis”), in forza della quale, introducendosi nell’ordinamento il principio della separazione tra direzione politica e responsabilita’ della gestione amministrativa, ai responsabili delle direzioni generali compete l’adozione di tutti gli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano la P.A. verso l’esterno e che sono direttamente ricollegabili a detta attivita’ di gestione, ivi compresa quella della irrogazione di sanzioni in applicazione della specifica disciplina di settore e in relazione alla disciplina dettata dalla L. 24 novembre 1981, n. 689 (v. Sez. 2, Sentenza n. 10621 del 03/05/2010 Rv. 613101; Sez. 2, Sentenza n. 10202 del 28/04/2010 Rv. 612574).

8 Con l’ottavo motivo la (OMISSIS) denunzia la violazione e falsa applicazione della L. n. 197 del 1991, articolo 5, del Decreto Legge 12 ottobre 2001, n. 369, articolo 1, comma 5 e del Decreto del Presidente della Repubblica 31 marzo 1988, n. 148, articolo 32 in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 3, nonche’ l’omesso esame di un fatto decisivo. Dolendosi del rigetto dell’eccezione di nullita’ del provvedimento per mancata acquisizione del prescritto parere della Commissione Consultiva, la ricorrente osserva che, nonostante la formula adottata nel testo, il Decreto Legge 12 ottobre 2001, n. 369 – dettato in materia di terrorismo – non aveva inteso affatto sopprimere la Commissione, ma solo il suo funzionamento in materia di terrorismo, tant’e’ che in sede di conversione in legge non e’ stata prevista la ricostituzione della Commissione (come invece sarebbe stato logico se vi fossa stata in precedenza una vera e propria soppressione), ma piu’ semplicemente, la non necessita’ del parere in materia di sanzioni relative al terrorismo internazionale.

La censura, anche se apprezzabile per lo sforzo interpretativo profuso, e’ priva di fondamento.

Il Decreto Legge 12 ottobre 2001, n. 369 (Misure urgenti per reprimere e contrastare il finanziamento del terrorismo internazionale) convertito con modificazioni dalla L. 14 dicembre 2001, n. 431 all’articolo 1, comma 5 prevedeva che “La commissione consultiva prevista dal Decreto del Presidente della Repubblica 31 marzo 1988, n. 148, articolo 32, e’ soppressa”.

Il decreto in questione e’ entrato in vigore il giorno 15.10.2001, coincidente con la data della sua pubblicazione in G.U. (v. articolo 3) e dunque alla data in cui e’ stato adottato il provvedimento sanzionatorio (4.12.2001) il suddetto provvedimento legislativo era pienamente in vigore.

Da cio’ discende che la Corte d’Appello ha fatto corretta applicazione della normativa vigente che, seppur inserita in un provvedimento legislativo finalizzato al contrasto e alla repressione del finanziamento del terrorismo internazionale, aveva, per la assoluta chiarezza del dato testuale, una portata di carattere generale che non consentiva all’interprete di operare soggettivi distinguo.

La successiva formulazione del comma 5 in sede di legge di conversione, secondo cui “I provvedimenti di irrogazione delle sanzioni previsti dall’articolo 2 del presente decreto sono emessi senza acquisire il parere della Commissione consultiva prevista dall’articolo 32 del testo unico delle norme di legge in materia valutaria, di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 31 marzo 1988, n. 148” non puo’ incidere sulla corretta interpretazione data dall’autorita’ amministrativa sotto la vigenza di un decreto legge (in un’epoca in cui non si prevedeva neppure se e in che modo la disposizione sarebbe stata convertita) e, a ben vedere, non esclude neppure un difetto di coordinamento tra quella e questo.

9 Col nono motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, articoli 22 e 23 in relazione agli articoli 166 e 167 c.p.c., in riferimento all’articolo 360 c.p.c., n. 3, nonche’ omesso esame di un fatto decisivo in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 5. A dire della societa’ (OMISSIS) i giudici di merito avrebbero dovuto dichiarare inammissibile la costituzione del Ministero a mezzo fax a nulla rilevando il successivo invio di memoria a mezzo posta e ancora dopo, l’intervento dell’Avvocatura dello Stato.

Il motivo e’ infondato.

Nel procedimento di opposizione all’ordinanza- ingiunzione irrogativa di sanzione amministrativa, il modello processuale configurato dal legislatore resta governato dal principio dispositivo (temperato dai poteri officiosi del giudice L. 24 novembre 1981, n. 689, ex articolo 23, comma 6) e non prevede particolari sanzioni (salvo quella, a carico dell’opponente, stabilita dal quinto comma della norma sopra citata) per omissioni o ritardi di attivita’ delle parti, cosi’ come non inficia di nullita’ eventuali deviazioni dal modello poste in essere dal giudice, salvo quella della pronuncia della sentenza mediante lettura del dispositivo in udienza (Sez. 1, Sentenza n. 14016 del 2002; Cass. 2 marzo 1994, n. 2060; Cass. 19 febbraio 1999, n. 1404), onde l’inosservanza, da parte dell’autorita’ che ha emesso il provvedimento opposto, del termine per il deposito dei documenti relativi all’infrazione, fissato in dieci giorni prima dell’udienza di comparizione dall’articolo 23, comma 2, della richiamata L. n. 689 del 1981, non implica decadenza, in difetto di espressa previsione di perentorieta’, ne’ rende la relativa esibizione nulla, ma meramente irregolare (Sez. 1, Sentenza n. 14016 del 2002 cit.; Cass. 17 gennaio 1998, n. 373; Cass. 4 aprile 2001, n. 4931; Cass. 14 dicembre 2001, n. 15828).

Nel caso di specie, la Corte d’Appello ha dato atto della avvenuta costituzione dell’Avvocatura dello Stato mediante il sistema postale e dunque nessuna norma impediva di regolarizzare una precedente costituzione in giudizio, non risultando intervenute e neppure dedotte – specifiche preclusioni o decadenze.

Sulla costituzione a mezzo del servizio postale, questa Corte ha gia’ rilevato la ritualita’, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale 13 marzo 2004 n. 98, per la quale – in conformita’ all’indirizzo gia’ introdotto con la sentenza del 2002 n. 520, dichiarativa dell’illegittimita’ costituzionale del Decreto Legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, articolo 22, commi 1 e 2 e’ costituzionalmente illegittimo, per contrasto con gli articoli 3 e 24 Cost., la L. 24 novembre 1981, n. 689, articolo 22, nella parte in cui non consente l’utilizzo del servizio postale per la proposizione dell’opposizione ad ordinanza-ingiunzione, quindi, in senso generale, nella parte in cui non consente, per il deposito di qualsiasi atto ai fini della costituzione in giudizio, l’utilizzo del servizio postale (v. sez. 2, Sentenza n. 8287 del 2011).

Quanto alla successiva produzione documentale, essa doveva ritenersi consentita in applicazione del suindicato principio di diritto.

10 Col decimo ed ultimo motivo viene denunciata, infine, la violazione e falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, articoli 2, 3 e 6 e della L. n. 197 del 1991, articolo 5, nel testo all’epoca vigente, in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 3 nonche’ l’omesso esame di un fatto decisivo in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 5. Con tale censura ci si duole del mancato annullamento dell’ordinanza ingiunzione quale conseguenza della mancata audizione del coobbligato solidale (il Direttore (OMISSIS)). Secondo la tesi della ricorrente, la questione degli “incolpati” e’ assolutamente inscindibile e dunque le vicende sostanziali e processuali dell’uno non possono non influire sul secondo.

Anche tale censura e’ priva di fondamento perche’ la mancata audizione del Direttore pro tempore integrava un mero vizio di forma riguardante solo la posizione del diretto interessato, ma non certo determinava l’insussistenza della violazione estinzione dell’obbligazione nei confronti dell’autore: del resto da tempo le sezioni unite hanno chiarito che la mancata audizione dell’ interessato che ne abbia fatto richiesta in sede amministrativa non comporta la nullita’ del provvedimento, in quanto, riguardando il giudizio di opposizione il rapporto e non l’atto, gli argomenti a proprio favore che l’ interessato avrebbe potuto sostenere in sede di audizione dinanzi all’autorita’ amministrativa ben possono essere prospettati in sede giurisdizionale (v. Sez. U, Sentenza n. 1786 del 28/01/2010 Rv. 611244).

Non si vede pertanto perche’ di tale conseguenza dovesse giovarsene la Banca, considerato che, anche qualora fosse stata annullata una precedente ordinanza per tale ragione, nulla avrebbe impedito, sussistendone le condizioni temporali, di emettere nuova ordinanza ingiunzione nei confronti del coobbligato Direttore.

In conclusione, l’impugnazione va respinta con addebito di spese a carico della parte soccombente.

Considerato inoltre che il ricorso per cassazione e’ stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed e’ stato rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale pluriennale dello Stato-Legge di stabilita’ 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater all’articolo 13 del testo unico di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente grado di giudizio che liquida in complessivi Euro 4.000,00 oltre spese prenotate a debito. Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 – quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, articolo 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, norma del comma 1 -bis dello stesso articolo 13

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