Corte di Cassazione, sezione II penale, sentenza 24 ottobre 2016, n.44659

Ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i “disturbi della personalità”, che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di “infermità”, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale, e ciò vale anche nel caso di vizio del gioco d’azzardo. Ne deriva che è escluso che quest’ultimo possa integrare il vizio di mente se il reato è commesso da persona continuamente compulsata dall’esigenza di trovare denaro per far fronte ai debiti derivanti dalle frequenti giocate, atteso che in tal caso il vizio del gioco costituisce solo l’antefatto del crimine

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II PENALE

SENTENZA 24 ottobre 2016, n.44659

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza in data 22 ottobre 2015 la Corte di Appello di Milano, nel confermare l’affermazione di penale responsabilità di C.L. in ordine ai reati allo stesso ascritti, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Milano in data 12 maggio 2014, ritenuta la continuazione con i fatti di cui alla sentenza del Tribunale di Monza del 14 febbraio 2014 (divenuta irrevocabile il 27 aprile 2014), ha rideterminato la pena complessivamente irrogata all’imputato in termini ritenuti di giustizia.
Il C. è chiamato a rispondere di una serie di truffe (capi da A a Q della rubrica delle imputazioni) consumate in un arco temporale compreso tra il 25 luglio 2008 ed il 22 dicembre 2011 e realizzate mediante il fingersi agente assicurativo della Allianz Ras, proponendo false polizze assicurative e facendosi consegnare a titolo di premio le relative somme di denaro.
2. Ricorrono per Cassazione avverso la predetta sentenza i difensori dell’imputato, deducendo:
2.1. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione all’art. 89 cod. pen..
Si duole parte ricorrente del fatto che la Corte di appello non avrebbe tenuto in adeguata considerazione la patologia della quale è affetto l’imputato al quale non è stata riconosciuta l’attenuante del vizio parziale di mente. Il C. sarebbe, infatti, affetto da ludopatia, ossia da un disturbo borderline della personalità riferibile all’incontenibile impulso al gioco d’azzardo al punto che tutte le somme provento dei reati in contestazione sono state da lui utilizzate per assecondare il vizio del gioco e non per altri scopi personali.
Erroneamente la Corte di appello avrebbe quindi ritenuto l’inesistenza di un nesso di causalità tra tale disturbo ed i fatti oggetto delle imputazioni.
Avrebbe, poi, errato la Corte di appello nel momento in cui ha affermato che alcuni dei fatti-reato in contestazione sarebbero stati commessi dal C. allorquando questi non era ancora in cura al SERT di Piacenza, mentre in realtà risulta che la patologia dello stesso era divenuta grave già dal 2010 in conseguenza di una grossa vincita e, in effetti, i fatti di cui ai capi da A a G della rubrica delle imputazioni risultano commessi in un momento in cui la patologia dell’imputato aveva già assunto elementi di gravità. Solo, poi, nel capo H della rubrica delle imputazioni risultano contestati episodi risalenti agli anni 2008 e 2009 mentre anche tutti i fatti in contestazione ai capi da I a Q risultano commessi in epoca anteriore e prossima al 29 settembre 2011.
Tutto ciò dimostrerebbe che vi sarebbe uno stretto collegamento tra le truffe ed il gioco d’azzardo patologico che ha caratterizzato le azioni dell’imputato e che i giudici del merito avrebbero erroneamente escluso la sussistenza di una connessione diretta tra il disturbo dell’imputato ed i fatti-reato ritenendo che tale disturbo consistente nel vizio patologico del gioco avrebbe costituito esclusivamente l’antefatto del crimine e che le azioni del C. sarebbero state poste in essere esclusivamente per ripianare i debiti derivanti dal predetto vizio.
2.2. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione all’art. 81 cpv. cod. pen. per la mancata valutazione del vizio parziale di mente con riguardo a ciascuno dei fatti-reato unificati dal vincolo della continuazione, avendo la Corte erroneamente proceduto ad una valutazione globale, e non parcellizzata, dei suoi presupposti, così non tenendo conto dell’autonomia giuridica delle singole azioni, nonché con riguardo ai criteri di individuazione della violazione più grave e, comunque, dell’art. 133 cod. pen..
Sotto quest’ultimo profilo si duole parte ricorrente del fatto che la Corte di appello ha ritenuto di identificare il reato più grave facendo esclusivo riferimento alla entità del danno cagionato alle persone offese, mentre avrebbe dovuto individuare la violazione punita più severamente dalla legge in rapporto alle circostanze in cui la fattispecie si è manifestata. Ora, nella descritta prospettiva la violazione più grave era quella oggetto della sentenza n. 625/2014 del Tribunale di Monza essendo in quel caso stata contestata la circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 7 cod. pen. che invece non risulta essere stata contestata al capo I della rubrica delle imputazioni che la Corte di appello ha ritenuto essere il più grave, oltretutto trascurando il fatto che per tale capo doveva essere riconosciuta l’invocata attenuante di cui all’art. 89 cod. pen..
2.3. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione agli artt. 133 e 81 cod. pen. con riferimento alla determinazione della pena ed ai relativi aumenti per la continuazione.
Si duole, al riguardo, parte ricorrente della eccessività del trattamento sanzionatorio essendo stata determinata per il C. una pena base per il reato ritenuto più grave prossima al massimo edittale, il tutto con una motivazione asseritamente apparente, senza che si sia tenuto conto della condotta dell’imputato successiva alla commissione dei fatti, del lungo percorso di “disintossicazione dal gioco” e del fatto che ben sei delle ipotesi di truffa sono state poste in essere quando oramai era stata diagnosticata la malattia dell’imputato così erroneamente procedendo ad aumentare la pena base di giorni 45 ed Euro 800,00 di multa per ciascuna delle ipotesi considerate.

Considerato in diritto

1. Deve, in via preliminare, essere evidenziato che nel ricorso che in questa sede ci occupa non è posta in discussione la circostanza che l’imputato abbia posto in essere le condotte descritte nei capi di imputazione e ricostruite dai Giudici di merito.
2. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Il ricorso ripercorre questioni già sottoposte in sede di gravame alla Corte di appello e da questa ritenute infondate con motivazione congrua, non manifestamente illogica, né contraddittoria e conforme ai principi di diritto che regolano la materia.
Va detto subito che le Sezioni Unite di questa Corte Suprema hanno chiarito che “Ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i “disturbi della personalità”, che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di “infermità”, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale” (Sez. U, n. 9163 del 25/01/2005, Raso, Rv. 230317) e che tale regola – come ricordato anche nella sentenza impugnata – è stata ritenuta in tempi più recenti applicabile anche al vizio del gioco d’azzardo (Sez. 1, n. 52951 del 25/06/2014, Guidi, Rv. 261339).
Deve però anche essere ricordato che questa Corte Suprema con una decisione condivisa anche dall’odierno Collegio (cfr. Sez. 2, n. 24535 del 22/05/2012, Bonadio, Rv. 253079) chiamata ad occuparsi di un caso sotto alcuni profili certamente assimilabile a quello in esame ha escluso che il vizio del gioco di azzardo potesse comportare la diminuente del vizio parziale di mente in relazione al reato di rapina commesso da persona continuamente compulsata dall’esigenza di trovare denaro per poter far fronte ai debiti derivanti dalle frequenti giocate.
Ora, nel caso qui in esame, la Corte di appello ha motivatamente evidenziato che “non è ravvisabile un nesso di causalità tra una spinta psicologica compulsiva in vista di una immediata occasione di gioco” ed i reati di cui alle imputazioni ed ha anche debitamente illustrato – facendo opportuno richiamo alla documentazione sanitaria (certificazioni del SERT del 30 gennaio 2014 e del 4 febbraio 2014) richiamata nel ricorso – le ragioni per le quali – pur prendendo atto del fatto che sembra che la patologia del gioco d’azzardo sia divenuta grave dopo che l’imputato conseguì una grossa vincita nel 2010, che tale affermazione non è fondata su alcuna conoscenza diretta del paziente nel periodo di commissione degli illeciti.
In ogni caso la sentenza impugnata ha chiarito che il vizio del gioco costituiva, nella specie, solo l’antefatto del crimine, commesso non in vista di un’immediata occasione di gioco rispetto alla quale fosse urgente, alla stregua di una spinta psicologica “compulsiva”, il necessario approvvigionamento finanziario, ma per rimediare agli effetti economici già prodotti dal vizio stesso.
E in questo ordine di considerazioni si colloca, in definitiva, l’affermazione della Corte di merito secondo cui la condotta criminosa del ricorrente si è caratterizzata nella commissione di truffe abilmente preordinate ed organizzate, con un profitto non immediatamente conseguente alla condotta ingannevole e da impiegare immediatamente nel gioco d’azzardo ma anche utilizzato per tamponare la situazione debitoria (come chiarito anche nella sentenza di primo grado che, trattandosi di doppia conforme, si salda con quella di secondo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo).
In sostanza, emerge dalle decisioni di merito come accertato in fatto che da un lato non tutto il denaro provento delle truffe è stato utilizzato dall’imputato per giocare immediatamente e che, dall’altro, che le azioni delittuose poste in essere sono state realizzate mediante condotte caratterizzate da connotati incompatibili con la spiegazione patologica del movente.
Una volta escluso il necessario nesso di causalità, nei termini indicati, tra la condotta di reato e il disturbo della personalità asseritamente legato al vizio del gioco del C. , non occorre poi indugiare sugli ulteriori aspetti evidenziati dal ricorrente circa la datazione degli episodi in relazione alla patologia, essendo corrispondente ad una inammissibile e manifesta forzatura l’attribuzione alle deviate pulsioni ludiche del ricorrente del suo coinvolgimento in episodi delittuosi di cui è assolutamente intuitivo il disvalore sociale, ed altrettanto intuitiva l’esclusione della dimensione del “gioco”, tanto più in relazione alle modalità di realizzazione delle truffe.
Per dovere di completezza deve anche osservarsi che parte ricorrente, sotto il profilo del vizio di motivazione e dell’asseritamente connessa violazione di legge nella valutazione del materiale probatorio, tenta in realtà di sottoporre a questa Corte di legittimità un nuovo giudizio di merito.
Al Giudice di legittimità è infatti preclusa – in sede di controllo della motivazione – la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti e del relativo compendio probatorio, preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Tale modo di procedere trasformerebbe, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice del fatto, mentre questa Corte Suprema, anche nel quadro della nuova disciplina introdotta legge 20 febbraio 2006 n. 46, è – e resta – giudice della motivazione.
A ciò si aggiunge il fatto che il ricorso non è poi neppure “autosufficiente” e sul punto va ricordato che in tema di ricorso per cassazione, sono inammissibili, per violazione del principio di autosufficienza e per genericità, quei motivi che, deducendo il vizio di manifesta illogicità o di contraddittorietà della motivazione, e, pur richiamando atti specificamente indicati (nella specie le certificazioni del SERT), non contengano la loro integrale trascrizione o allegazione. (Sez. 4, n. 46979 del 10/11/2015, Bregamotti, Rv. 265053).
3. Anche il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Lo stesso è di fatto nella sua prima parte intrinsecamente legato al primo. Infatti nel momento in cui i Giudici del merito hanno escluso l’esistenza di un nesso causale tra la patologia del C. e le truffe in contestazione (intese nella loro globalità) non solo in relazione al loro momento commissivo ma anche in relazione alle altre circostanze sopra evidenziate, non si vede per quale ragione gli stessi Giudici avrebbero dovuto prendere in considerazione i singoli episodi per effettuare la relativa valutazione.
Quanto, poi, all’asseritamente errata valutazione con riguardo alla individuazione del reato più grave, esclusa per le ragioni sopra indicate la ricorrenza della circostanza di cui all’art. 89 cod. pen., va detto che le Sezioni Unite di questa Corte Suprema hanno chiarito che “In tema di reato continuato, la violazione più grave va individuata in astratto in base alla pena edittale prevista per il reato ritenuto dal giudice in rapporto alle singole circostanze in cui la fattispecie si è manifestata e all’eventuale giudizio di comparazione fra di esse” (Sez. U, n. 25939 del 28/02/2013, Ciabotti, Rv. 255347).
La giurisprudenza di legittimità non è però consolidata sul punto e si è anche affermato in tempi più recenti che “In tema di reato continuato, ai fini della determinazione della pena base, la violazione più grave deve essere individuata in concreto con riferimento alla pena da infliggere per ciascuna di esse, dopo la valutazione di ogni singola circostanza e secondo i criteri indicati nell’art. 133 cod. pen., senza alcun riguardo alla valutazione compiuta dal legislatore, al titolo ed alle relative pene edittali”. (Sez. 5, n. 38581 del 04/06/2014, Paci, Rv. 262223; e numerose altre in senso conforme).
In ogni caso risulta dalla lettura della sentenza del Tribunale di Monza che la contestata circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 7 cod. pen. è stata dichiarata subvalente rispetto alle circostanze attenuanti generiche con la conseguenza che in tale ottica – esclusa come detto la rilevanza della predetta circostanza – bene hanno fatto i Giudici della sentenza qui impugnata a rivalutare nel merito la singola gravità dei fatti-reato (tutti caratterizzati da contestazioni del medesimo tenore) ed a ritenere più grave ai fini della continuazione il reato di cui al capo I della rubrica delle imputazioni.
4. Manifestamente infondato è, infine, anche il terzo motivo di ricorso.
La motivazione della sentenza di appello si integra con riguardo ai fatti-reato per i quali si è proceduto in quella sede con la congrua motivazione contenuta nella sentenza di primo grado alla quale ha fatto un legittimo richiamo per relationem.
Per il resto appare sufficiente osservare che la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita, così come per fissare la pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 cod. pen.; ne discende che è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico (Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013 – 04/02/2014, Ferrario, Rv. 259142), ciò che – nel caso di specie – non ricorre.
5. Per le considerazioni or ora esposte, dunque, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
Segue, a norma dell’articolo 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al versamento a favore della Cassa delle Ammende, non emergendo ragioni di esonero, della somma ritenuta equa di Euro 1.500,00 (millecinquecento) a titolo di sanzione pecuniaria.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di millecinquecento Euro alla Cassa delle ammende.

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