Corte_de_cassazione_di_Roma

Suprema Corte di Cassazione

sezione II

sentenza 10 aprile 2015, n. 14876

Svolgimento del processo

Con sentenza del 21.2.2014, la Corte d’Appello di Torino in parziale riforma della decisione di primo grado, concesse a R.V. le circostanze attenuanti generiche prevalenti sulle contestate aggravanti, rideterminava la pena per il reato di estorsione aggravata in anni tre e mesi otto di reclusione ed Euro 400,00 di multa.
Ricorre per cassazione il difensore dell’imputato, avv. Femia, deducendo: 1) erronea applicazione degli artt. 125 co. 3, 192, 530 co. 2 e 533 co. 1 c.p.p. e mancanza, illogicità e contraddittorietà della motivazione ai sensi dell’art. 606, co. 1, lett. b) ed e) c.p.p. in relazione alla ritenuta attendibilità della parte offesa costituitasi parte civile, in assenza di attenta disamina della credibilità soggettiva della stessa e di riscontri oggettivi, stante anche la problematica della fittizietà della separazione tra la stessa e il marito; 2) erronea applicazione degli artt. 56, 629 c.p. e mancanza e manifesta illogicità di motivazione ai sensi dell’art. 606, co. 1 lett. b) ed e) c.p.p., in quanto nella fattispecie gli operanti che hanno assistito alla consegna del denaro non si sono limitati ad osservare il passaggio del danaro, ma hanno anche suggerito alla persona offesa di preparare la busta con le banconote per simulare il pagamento; 3) l’inosservanza ed errata applicazione di norme della legge penale (art. 133 c.p.) e mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione ai sensi dell’art. 606 lett. b) ed e) c.p.p. in ordine alla determinazione della pena in misura sensibilmente superiore al minimo edittale.
Allega al ricorso copia di alcune pagine dei verbali di udienza del 18 e 30.12.2012 e del 15.1.2013, nonché copia di pagina 10 della sentenza di primo grado.
Ricorre per cassazione il difensore dell’imputato, avv. Munafò, deducendo l’erronea applicazione degli artt. 125 co. 3, 192, 530 co. 2 e 533 co. 1 c.p.p. e mancanza, illogicità e contraddittorietà della motivazione ai sensi dell’art. 606, co. 1, lett. b) ed e) c.p.p. in relazione alla ritenuta attendibilità della parte offesa costituitasi parte civile in assenza di attenta disamina della credibilità soggettiva della stessa e di riscontri oggettivi, stante anche la problematica della fittizietà della separazione tra la stessa e il marito. E nessuna delle tante incongruenze, rilevate in appello (e ribadite nell’atto di ricorso con indicazione dei relativi atti processuali) è stata ritenuta meritevole di motivazione da parte della Corte d’Appello.
Chiedono pertanto entrambi i difensori dell’imputato l’annullamento della sentenza.

Motivi della decisione

1. Le censure di cui all’unico motivo e al primo motivo dei ricorsi, presentati in favore dell’imputato rispettivamente dall’avv. Munafò e dall’avv. Femia, sono inammissibili, in quanto dirette a prospettare una diversa interpretazione del quadro probatorio e una ricostruzione alternativa rispetto a quella corretta e coerente formulata dalla Corte d’appello nella cui sentenza sono elencati gli univoci elementi che hanno dato fondamento alle accuse formulate. In narrativa, sono state descritte le conclusioni cui, attraverso un proprio ragionamento probatorio, è pervenuto il giudice d’appello; ragionamento sorretto da adeguate e coerenti argomentazioni.
Rispetto a tali corrette conclusioni, i ricorrenti richiedono una complessiva rilettura delle risultanze processuali per ottenere una ricostruzione dei fatti e una valutazione della consistenza probatoria diverse rispetto a quelle effettuate dal giudice di merito, il quale – contrariamente a quanto sostenuto nei ricorsi – è giunto all’affermazione di responsabilità in base a un attento esame del contenuto degli atti processuali e considerazione del complessivo contesto probatorio, puntualmente descritto in sentenza. La motivazione appare coerente e rispondente agli elementi presi in considerazione e non denota un deficit valutativo da parte del giudice di merito la cui decisione è stata resa all’esito di un approfondimento del quadro probatorio e degli elementi di discrasia evidenziati in sede d’appello (v. pagg. 8 – 12 della sentenza impugnata).
Valutate nella loro globalità, le dichiarazioni della parte offesa sono state quindi ritenute precise nella descrizione dei fatti e compatibili con gli altri elementi acquisiti al processo, tenuto conto anche dell’ampio arco temporale in cui la vicenda si è svolta, e dei ricordi maggiormente vivi e analitici in riferimento ai più recenti e gravi episodi del 18 marzo e del 2 aprile, “che avevano determinato una svolta in senso delittuoso della condotta dell’imputato”. Invero le contraddizioni, indicate dalla difesa “risultano o non realmente tali o di portata minima e rilievo secondario e quindi tali da non compromettere l’attendibilità di fondo della deposizione della S. e degli altri testi che ne confermano la fondatezza” (v. pag. 7 della sentenza impugnata). Circa l’ingiustizia del profitto, la Corte ha poi logicamente motivato circa l’inattendibilità delle dichiarazioni dell’imputato a dibattimento, circa il credito vantato nei confronti del G. , versione che si pone in aperta contraddizione con quella offerta dall’imputato nell’interrogatorio avanti al Gip il 7.8.2012 (v. pag. 13 della sentenza impugnata).
Nel caso di specie, va poi ricordato che ci si trova dinanzi ad una “doppia conforme” e cioè ad una doppia pronuncia di eguale segno, e pertanto il vizio di “travisamento della prova”, di cui alla lettera e) come modificato dalla l. n. 46/2006 (che si ha quando nella motivazione si fa uso di un’informazione rilevante che non esiste nel processo, o quando si omette la valutazione di una prova decisiva), può essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l’argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado, “non potendo, nel caso di c.d. doppia conforme, superarsi il limite del “devolutimi” con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice d’appello, per rispondere alla critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice” (v. Cass. IV, sez. IV, sent. n. 19710/2009 Rv. 243636; Cass., n. 5223/07, Rv. 236130).
2. Il secondo e il terzo motivo del ricorso dell’avv. Femia sono manifestamente infondati, nonché generici. Il secondo, in particolare, consiste in una mera reiterazione dei motivi dell’atto d’appello, ai quali – contrariamente a quanto sostenuto in ricorso – la Corte ha risposto con motivazione congrua ed esente a vizi logici, evidenziando che la busta con il danaro è stata consegnata dalla S. al Ra. , e che questi l’aveva riposta nella giacca e da qui l’aveva poi estratta alla richiesta degli operanti, il tutto alla presenza del R. “che controllava la scena rimanendo in disparte e che poi si dileguava” (v. pag. 13 della sentenza impugnata).
In tema di estorsione, secondo l’indirizzo interpretativo prevalente di questa Corte, il delitto deve considerarsi consumato e non solo tentato allorché la cosa estorta venga consegnata dal soggetto passivo all’estorsore, e ciò anche nelle ipotesi in cui sia predisposto l’intervento della polizia giudiziaria che provveda immediatamente all’arresto del reo ed alla restituzione del bene all’avente diritto (v., tra le tante, Sez. II, Sent. n. 1619/2012 Rv. 254450; Sez. II, Sent. n. 27601/2009 Rv. 244671). Nessun rilievo in senso contrario che l’operazione fosse concordata con le forze di polizia; quel che rileva è la condotta dell’imputato e dei suoi complici diretta a percepire l’ingiusto profitto, condotta del tutto idonea e portata a termine, tanto è vero che il danaro è stato ricevuto, anche se sotto il controllo degli operanti. Per quanto riguarda la dosimetria della pena, rilevasi, infine, che la stessa è stata oggetto di rideterminazione (partendo da poco più del minimo edittale dell’ipotesi non aggravata) a seguito della concessione delle attenuanti generiche, con giudizio di prevalenza sulle aggravanti, in considerazione dell’entità del profitto effettivamente conseguito e della corretta condotta dell’imputato nel corso dell’applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari. La motivazione anche in punto pena è del tutto congrua, e le censure del tutto generiche del ricorrente non valgono minimamente a scalfirla.
I ricorsi vanno pertanto dichiarati inammissibili.
Ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibili entrambi i ricorsi, l’imputato che li ha proposti deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonché – ravvisandosi profili di colpa (v. Corte Cost. sent. n. 186/2000), nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di mille Euro, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille alla Cassa delle ammende.

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