Le massime

1. La denunzia dei gravi difetti dell’opera prevista dall’art. 1669 cod. civ. ha lo scopo, non diversamente da quella prevista dal precedente art. 1667, di porre il destinatario (appaltatore o soggetti concorrenti, quali il progettista ed il direttore dei lavori), nella condizione di compiere le opportune verifiche al fine di accertare e dimostrare che il pericolo di rovina non deriva da sua colpa. Per il proprietario dell’opera l’onere di denunzia scatta, pertanto, nel momento in cui egli acquista un ragionevole grado di conoscenza dell’entità del vizio costruttivo e della sua riferibilità causale, elementi che, ai fini della configurabilità della denunzia, deve rappresentare al destinatario.

2. La denunzia dei gravi difetti dell’opera prevista dall’art. 1669 cod. civ., in relazione al suo scopo, si perfeziona in virtù della comunicazione al soggetto responsabile dei gravi difetti che si sono manifestati nella costruzione, senza necessità che in essa vengano indicate le sue cause specifiche, il cui addebito implicito alla controparte risiede nella stessa natura di obbligazione di risultato che questi ha assunto, e il cui accertamento tecnico in termini di certezza risulta incompatibile con la stessa esigenza perseguita dalla legge attraverso gli istituti della decadenza e della prescrizione, di consentire all’appaltatore di compiere gli accertamenti necessari per verificare l’esistenza effettiva dei difetti lamentati e la loro imputabilità.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II

SENTENZA 15 novembre 2012, n.20004

Ritenuto in fatto

La società PAMI, B.R. e R.M. , lamentando che un proprio fabbricato sito in None, su cui erano stati eseguiti lavori di ristrutturazione integrale, presentava gravi difetti e pericolo di rovina, chiamarono in giudizio l’appaltatore T.G. , l’arch. G.M. , progettista architettonico, il dott. Pe.Gu. , geologo che aveva eseguito i sondaggi del terreno, e l’ing. E..P. , che aveva eseguito il progetto delle opere strutturali, chiedendone la condanna in via solidale al risarcimento dei danni.
Il Tribunale di Pinerolo accolse la domanda e condannò le parti convenute al risarcimento dei danni, che quantifico nella somma di Euro 56.012, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali.
Interposte impugnazioni da parte dei convenuti, con sentenza n. 1258 del 24 luglio 2006 la Corte di appello di Torino, per quanto qui ancora interessa, riformò la decisione impugnata nei confronti di P.E. , che annullò, dichiarando prescritto il diritto dei committenti al risarcimento del danno nei suoi confronti, per essere stato lo stesso esercitato soltanto in data 13 ottobre 1998, mediante la proposizione del ricorso per accertamento tecnico preventivo, oltre il termine di un anno dalla denunzia, avvenuta mediante contestazione diretta al P. nel giugno del 1996; con riferimento alle altre parti dichiarò invece cessata la materia del contendere tra gli attori e il convenuto T. e rigettò l’appello proposto da G.M..
Per la cassazione di questa decisione, relativamente alla sola statuizione riguardante il rigetto della domanda nei confronti di P.E. , con atto notificato il 7 febbraio 2007, ricorrono la società PAMI, B.R. e R.M. , affidandosi a cinque motivi, illustrati da memoria.
Resiste con controricorso la parte intimata.

Motivi della decisione

Il primo motivo di ricorso denunzia insufficiente e contraddittoria motivazione e falsa applicazione dell’art. 1669 cod. civ., assumendo che la sentenza impugnata è incorsa in travisamento dei fatti laddove ha collocato la denunzia dei gravi difetti delle opere nel giugno del 1996, atteso che nessuno dei testi escussi ha mai riferito che in quel periodo il B. ebbe ad incontrarsi con il P. per contestargli i vizi.

Il secondo motivo di ricorso denunzia insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, assumendo che nel collocare la denunzia dei gravi difetti delle opere nel giugno del 1996 la Corte di appello è incorsa in manifesta illogicità, in quanto i quel momento i committenti ritenevano che i vizi fossero addebitabili ad assestamenti del sottosuolo e non a responsabilità dei professionisti incaricati, tenuto anche conto che l’ing. P. , che pure fu investito della verifica all’inizio del 1996, consegnò la sua relazione definitiva solo nel luglio 1998.

Il terzo motivo di ricorso denunzia ‘Omissione di valutazione, nella motivazione, di elementi versati in causa e del tutto pretermessi dal Collegio’, per non avere la Corte tenuto conto che, nel caso di specie, come risulta sia dall’indagine del consulente tecnico d’ufficio che dalla perizia dell’ing. P. , le cause e l’entità dei difetti erano evidenti ma erano state accertate solo a seguito di difficili ed elaborate perizie.

I motivi, da esaminarsi congiuntamente in ragione della loro connessione obiettiva, non meritano accoglimento.

Va premesso che la denunzia dei gravi difetti dell’opera prevista dall’art. 1669 cod. civ. ha lo scopo, non diversamente da quella prevista dal precedente art. 1667, di porre il destinatario (appaltatore o soggetti concorrenti, quali il progettista ed il direttore dei lavori), nella condizione di compiere le opportune verifiche al fine di accertare e dimostrare che il pericolo di rovina non deriva da sua colpa. Per il proprietario dell’opera l’onere di denunzia scatta, pertanto, nel momento in cui egli acquista un ragionevole grado di conoscenza dell’entità del vizio costruttivo e della sua riferibilità causale, elementi che, ai fini della configurabilità della denunzia, deve rappresentare al destinatario (Cass. n. 4622 del 2002; Cass. n. 1993 del 1999), restando poi alla valutazione del giudice di merito, non censurabile in sede di legittimità, scrutinare se tale informativa era sufficiente a portare a conoscenza dell’altra parte la sussistenza dei difetti lamentati. La denunzia, in relazione al suo scopo, si perfeziona in virtù della comunicazione al soggetto responsabile dei gravi difetti che si sono manifestati nella costruzione, senza necessità che in essa vengano indicate le sue cause specifiche, il cui addebito implicito alla controparte risiede nella stessa natura di obbligazione di risultato che questi ha assunto, e il cui accertamento tecnico in termini di certezza risulta incompatibile con la stessa esigenza perseguita dalla legge attraverso gli istituti della decadenza e della prescrizione, di consentire all’appaltatore di compiere gli accertamenti necessari per verificare l’esistenza effettiva dei difetti lamentati e la loro imputabilità. Nel caso di specie, la Corte territoriale, dopo avere richiamato il contenuto delle testimonianze di A.M. , B.M. e P.F. , ha precisato che l’edificio degli attori già nel 1993, subito dopo il completamento dei lavori, aveva manifestato la presenza di fessurazioni che erano andate via via aggravandosi, tanto che le parti avevano inserito dei fessurometri e contattato un’impresa specializzata per il consolidamento del sottosuolo e delle fondazioni; che i committenti, all’inizio del 1996, avevano incaricato l’ing. P. di eseguire una verifica statica dell’immobile, ricevendo dal professionista una relazione di non collaudabilità dell’opera; che, come riferito dal medesimo ing. P. , dopo circa sei mesi dalla sua nomina, vale a dire nel giugno 1996, vi era stato un incontro in loco, alla sua presenza, tra il B. ed il P. , in cui si discusse delle modalità di intervento che gli stessi committenti ritenevano indispensabile ed urgente.

Sulla base di tali circostanze la Corte distrettuale è quindi giunta alla conclusione che alla data di tale incontro non solo i gravi difetti dell’opera si erano già manifestati nella loro oggettiva consistenza, ma anche che essi furono, proprio in tale occasione, rappresentati e denunziati al progettista e direttore dei lavori; la natura e consistenza dei gravi difetti e la loro progressiva evidenza rendeva infatti chiaro, non lasciando spazio a dubbi in proposito, che essi erano riconducibili a difetti di costruzione e quindi coinvolgessero anche gli apporti forniti in sede di progettazione e direzione dei lavori dal P. , la cui convocazione e presenza all’incontro altrimenti non avrebbe avuto ragion d’essere, considerato che di essa la stessa parte ricorrente non ha fornito una giustificazione diversa.

Tanto precisato, il ragionamento svolto dal giudice territoriale e la conclusione da questi accolta si sottraggono ai vizi denunziati. Con riferimento al vizio di violazione di legge, apparendo la decisione in linea con l’orientamento della giurisprudenza di questa Corte sopra indicato in tema di denunzia dei vizi e gravi difetti dell’immobile; in relazione al vizio di motivazione, in quanto, ferma l’insindacabilità della valutazione di fatto, che spetta al giudice di merito, la motivazione ed il percorso logico seguito dal giudicante appaiono sufficienti ed adeguati a dare conto della soluzione accolta, nonché rispondenti agli elementi e dati di fatto evidenziati e presi in considerazione, mentre la versione diversa dei fatti sostenuta nel ricorso si risolve soltanto in una diversa interpretazione e lettura delle circostanze, senza contestazione di errori od omissioni specifiche.

Il quarto motivo di ricorso denunzia contraddittorietà della motivazione ed omesso esame di un elemento determinante per la decisione della controversia, non avendo la Corte considerato che al sopraluogo del giugno 1996 parteciparono, oltre all’ing. P. e all’ing. P. , il B. , ma nessuno per la società PAMI, che al momento era già proprietaria dell’immobile.

Il motivo è infondato ed anche inammissibile.

La censura appare infatti trovare smentita in fatto dalla parte della sentenza che, dopo avere dato atto che nell’incontro tra il B. ed il P. in cui furono denunziati i vizi era presente anche l’ing. P. , qualifica espressamente quest’ultimo come mandatario dei proprietari dell’immobile (pag. 51), riconoscendo quindi che il suddetto professionista rappresentava in tale incontro tutti gli interessati, affermazione che non risulta specificatamente contestata nel ricorso.

La doglianza è comunque inammissibile laddove introduce una questione nuova, la cui risoluzione richiederebbe indagini di fatto che non possono essere compiute in sede di giudizio di legittimità.

Il quinto motivo denunzia come ingiusta la condanna al pagamento delle spese processuali, assumendo che una loro compensazione sarebbe stata più equa e corretta.

Il motivo è chiaramente infondato, avendo il giudice a qua seguito ed applicato, in sede di regolamento delle spese, il criterio legale della soccombenza posto dall’art. 91 cod. proc. civ., mentre l’omessa considerazione da parte del giudice di merito dei giusti motivi che, si sostiene, avrebbero dovuto portare a compensare le spese di giudizio non è censurabile dinanzi al giudice di legittimità nemmeno sotto il profilo della motivazione, attenendo ad una valutazione discrezionale che la legge riserva al giudice della causa (Cass. n. 7607 del 2006; Cass. S.U. n. 14989 del 2005).

Il ricorso va pertanto respinto.

Le spese di giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza dei ricorrenti.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna in solido i ricorrenti al pagamento delle spese di giudizio, che liquida in Euro 4.700, di cui Euro 200 per esborsi, oltre accessori di legge.

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