Cassazione toga nera

Suprema Corte di Cassazione

sezione II

sentenza 18 marzo 2014, n. 12740 

Fatto e diritto

1. Con ordinanza del 24/10/2013, il Tribunale del Riesame di Roma, in accoglimento dell’appello proposto dal Pubblico Ministero avverso il decreto con il quale, in data 17/09/2013, il giudice per le indagini preliminari del Tribunale della medesima città, aveva rigettato l’istanza di sequestro preventivo dell’azienda Gegia s.r.l. detenuta da L.L. indagato per il reato di appropriazione indebita della suddetta azienda, ne dispose il sequestro preventivo.
2. Avverso la suddetta ordinanza, L.L. , a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione deducendo VIOLAZIONE DELL’ART. 646 COD. PEN..
Il ricorrente, ha premesso, in punto di fatto, che aveva stipulato con il legale rappresentante della Gegia s.r.l. un preliminare di affitto di azienda per la somma di Euro 1.000.000,00 di cui aveva versato un acconto di Euro 275.000,00; in forza del suddetto contratto, aveva ottenuto la detenzione precaria dell’azienda sulla base dell’art. 2 di una scrittura privata redatta dopo il preliminare a norma del quale “al fine di consentire al L. di riattare l’azienda e di avviarne l’attività in via provvisoria, in data odierna e sino alla stipula del contratto di affitto di azienda, la società Gegia gli concede la detenzione precaria dell’azienda e la facoltà, si ribadisce, provvisoria di utilizzare la partita Iva di essa soc. Gegia assumendosene, tuttavia, il sign. L. ogni onere anche fiscale e responsabilità verso terzi, enti, Pubblica Amministrazione e fornitori anche sotto il profilo sanzionatorio, mallevando sin d’ora la soc. gegia da qualsiasi responsabilità e pretesa di terzi anche di natura sanzionatoria e tributaria”.
Successivamente, fra le parti, era insorto un contenzioso civile per effetto del quale, da una parte, la Gegia s.r.l. aveva chiesto la risoluzione del contratto e la restituzione dell’azienda, la quale cosa, però, il ricorrente aveva rifiutato continuando a rimanervi, se pure a mero titolo detentivo.
Alla stregua dei suddetti fatti, il ricorrente sostiene, quindi, che, nel caso di specie, non era configurabile il reato di appropriazione indebita perché egli non aveva affatto immutato il titolo della detenzione in possesso uti domini e che la ritenzione dell’azienda poteva al più essere ritenuta come un mero inadempimento di natura civilistica, così come ritenuto, d’altra parte, sia dal giudice per le indagini preliminari in sede penale, sia dallo stesso Tribunale che, in sede civile, aveva respinto una richiesta della Gegia s.r.l. di ottenere il sequestro conservativo dell’azienda, rilevando, appunto, che non risultava essere stata evidenziata alcuna situazione possessoria tutelabile né alcuna lesione possessoria passibile di repressione giudiziale con le apposite tutele reientegratorie o manutentiva.

3. Il ricorso è fondato.
I fatti esposti dal ricorrente sono assolutamente pacifici come da atto lo stesso tribunale nell’ordinanza impugnata.
Il tribunale, ha giustificato la decisione, invocando, innanzitutto, la sentenza n. 13347/2011 Rv. 250026 con la quale questa Corte di legittimità, in un’ipotesi di ritenzione di un autoveicolo, utilizzato “uti dominus” nonostante la risoluzione del contratto di “leasing” e la richiesta di restituzione del bene, ha statuito che “integra il reato di appropriazione indebita la condotta consistente nella mera interversione del possesso, che sussiste anche nel caso di una detenzione qualificata, conseguente all’esercizio di un potere di fatto sulla cosa, al di fuori della sfera di sorveglianza del titolare”.
In punto di fatto, il tribunale, ha desunto l’interversione dell’animus possidenti e, quindi, l’utilizzazione uti dominus dell’azienda, dalla circostanza che “la società Gegia s.r.l. ha più volte diffidato l’odierno indagato a restituire l’azienda – in ragione dell’intervenuta risoluzione contrattuale – evidenziando come la controparte, per quanto detentore qualificato, avesse continuato a gestire l’attività commerciale senza titolo, acquisendone i profitti, provvedendo all’assunzione di personale, ed utilizzando una ragione sociale non propria […]”. Inoltre, il tribunale ha evidenziato, come ulteriore e decisivo argomento la circostanza che il L. aveva presentato una domanda finalizzata ad acquisire la concessione (in subentro) per occupazione di suolo pubblico avvalendosi di una sottoscrizione falsa del legale rappresentante della Gegia s.r.l..
In punto di diritto, il consolidato ed indiscusso principio che da sempre è affermato in giurisprudenza è che l’appropriazione indebita si verifica nel momento in cui il detentore attua la c.d. interversione del possesso che consiste nell’attuare sul bene di proprietà altrui atti di disposizione uti dominus e, quindi, nell’intenzione di convertire il possesso in proprietà.
È proprio alla stregua del suddetto principio di diritto, quindi, che tutte le fattispecie esaminate, si risolvono, alla fin fine, in una disamina e valutazione dei singoli elementi fattuali al fine di verificare se quei singoli fatti costituiscano o no indice dell’interversione del possesso.
E così, anche nella sentenza invocata dal tribunale, questa Corte non ha affatto affermato un principio di diritto differente da quello usuale, essendosi limitata a rilevare che, in quella concreta fattispecie, il comportamento del detentore doveva essere ritenuto indice di un comportamento uti dominus: in tal senso, peraltro, aveva già concluso Cass. 38604/2007 Rv. 238163.
Il punto nodale della questione, quindi, nella fattispecie in esame, non è quale principio di diritto applicare, ma stabilire se, nel comportamento del ricorrente sia ravvisabile o no un comportamento uti dominus.
Sotto questo profilo, come si è detto, il tribunale ha ritenuto di dare una risposta affermativa al quesito, stigmatizzando due fatti:
a) la ritenzione dell’azienda, nonostante la diffida dell’avente causa;
b) la domanda di concessione (in subentro) per occupazione di suolo pubblico sottoscritta falsamente dal legale rappresentante della Gegia s.r.l..
Sennonché, quanto alla prima circostanza, deve rilevarsi che, come ha anche riconosciuto il tribunale civile di Roma investito della medesima questione in sede cautelare, il L. si trova nella legittima detenzione dell’azienda perché fu proprio la Gegia s.r.l. a concedergliela, sicché, proprio in base alla pattuizione fra le parti intervenuta, è del tutto ovvio e normale che il L. ne acquisisca i profitti, provveda all’assunzione di personale, ed utilizzi una ragione sociale non propria.
Resta, indubbiamente, la circostanza che il L. , pur avendo pagato un ingente acconto, non ha pagato la restante parte pattuita. Ma, sotto tale profilo, deve osservarsi che, anche la semplice ritenzione del bene, quando origini da una lite civile in cui ognuno dei contendenti fa valere le proprie ragioni nei confronti dell’altro, non costituisce, di per sé, un indice sicuro della volontà di intervertire il possesso e cioè un comportamento uti dominus, potendo, al più, essere qualificato come un mero inadempimento come tale solo civilisticamente sanzionabile: in terminis Cass. 29/1965 Rv. 099419; Cass. 9410/1981 Rv. 150663 (L’omessa restituzione della cosa non realizza l’ipotesi del reato di cui all’art. 646 cod. pen. se non quando si ricollega oggettivamente ad un atto di disposizione uti dominus, e soggettivamente alla intenzione di convertire il possesso in proprietà); Cass. 10774/2002 Rv. 221522; Cass. 17295/2011 Rv. 250100.
Di poco momento, infine, è la domanda di concessione in quanto si tratta di un atto che non indica la volontà di comportarsi come uti dominus ma solo di ottenere, dall’autorità amministrativa, una concessione di occupazione di suolo pubblico al fine di potere meglio sfruttare le potenzialità dell’azienda: paradossalmente, la circostanza che il L. , per ottenerla, abbia sentito la necessità di falsificare la firma del legale rappresentante della Gegia s.r.l., indica che egli era ben consapevole che solo il legittimo proprietario e non lui quale semplice detentore, poteva essere legittimato a chiedere ed ottenere la suddetta concessione.
In conclusione, non essendo configurabile, nella fattispecie in esame, il fumus del contestato delitto di appropriazione indebita, l’ordinanza dev’essere annullata senza rinvio con conseguente ordine di restituzione dei beni sequestrati al ricorrente.

P.Q.M.

ANNULLA senza rinvio l’ordinanza impugnata perché il fatto non sussiste ed ordina la restituzione dei beni sequestrati al ricorrente L.L. .

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