cassazione 5

Suprema Corte di Cassazione

sezione II

sentenza 20 novembre 2014, n. 24707

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 23 settembre 2003. il condominio di via (omissis) – via (OMISSIS) , sito in XXXX, evocava dinanzi al Tribunale di Roma B.M.A. e M.M.L. dolendosi che le convenute, esercitando negli appartamenti di loro proprietà (interni 4 e 8 della scala A) attività alberghiera, avevano violato l’art. 6 del regolamento condominiale che dispone “è fatto divieto di destinare gli appartamenti a uso diverso da quello di civile abitazione o di ufficio professionale privato”, e chiedendone la condanna alla immediata cessazione dell’illegittima attività esercitata.
Le resistenti, costituitesi, eccepivano che l’attività di affittacamere non comportava alcun cambiamento della destinazione d’uso delle loro unità immobiliari, ed era quindi conforme al disposto del regolamento condominiale testé richiamato, chiedendo il rigetto della domanda e la sospensione della delibera condominiale del 17 luglio 2003, con cui l’assemblea aveva negato l’autorizzazione all’esercizio dell’attività alberghiera.
Interveniva volontariamente in giudizio, in adesione alle posizioni del condominio, Z.G.F.F. .
Rigettato un ricorso ex art. 700 cod. proc. civ., formulato in corso di causa dal condominio per ottenere la cessazione dell’attività di affittacamere, ed espletata l’istruttoria, tra cui l’assunzione della prova per testi, il Tribunale di Roma, con sentenza n. 15618 del 2006, accoglieva la domanda ordinando alle convenute la cessazione dell’attività alberghiera nelle loro unità immobiliari.
Avverso la predetta sentenza B.M.A. e M.M.L. proponevano appello.
Il condominio e Ferdinando Z.G.F. si costituivano contestando la fondatezza dell’appello e chiedendone il rigetto.
Con sentenza depositata il 19 dicembre 2012 la Corte d’appello di Roma accoglieva l’appello e rigettava le domande del condominio e dell’intervenuto sulla base delle seguenti considerazioni: chiarito che l’attività di affittacamere non aveva comportato una modificazione della destinazione di uso per civile abitazione delle unità immobiliari, risultava inammissibile un’interpretazione estensiva del disposto all’art. 6 del regolamento condominiale che riservasse ai soli proprietari, ai loro congiunti e ai singoli privati professionisti il godimento delle unità immobiliari site nel complesso condominiale, considerato altresì che la concreta applicazione della suddetta norma da parte dei condomini si era rivelata più permissiva di quanto derivante dalla stretta interpretazione letterale del disposto regolamentare.
Per la cassazione di questa sentenza il condominio e Z.G.F.F. hanno proposto ricorso sulla base di sei motivi.
Le intimate hanno resistito con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria in prossimità dell’udienza di discussione.

Motivi della decisione

1. Deve preliminarmente essere disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso, formulata dalle controricorrenti sul rilievo che l’amministratore non era stato autorizzato dall’assemblea condominiale alla proposizione della impugnazione.
In proposito, in disparte la valutazione della indispensabilità della preventiva autorizzazione o della ratifica dell’operato dell’amministratore, è sufficiente rilevare che, nel caso di specie, l’assemblea condominiale, con la deliberazione assunta il 14 giugno 2013, ha ratificato l’incarico conferito dall’amministratore al legale per la proposizione del presente ricorso per cassazione.
Né possono indurre a conclusioni differenti le deduzioni delle controricorrenti in ordine alla asserita invalidità della delibera, atteso che le medesime controricorrenti non hanno dedotto che la detta delibera è stata impugnata nei termini di cui all’art. 1137 cod. civ..
2. Con il primo motivo di ricorso, rubricato “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5) cod. proc. civ.”, i ricorrenti sostengono che la Corte d’appello avrebbe omesso ogni esame del concetto di “civile abitazione” e non avrebbe quindi applicato i criteri di interpretazione prescritti dalla legge. In particolare, la Corte d’appello non avrebbe cercato di definire il valore oggettivo della espressione “civile abitazione”, deducendolo dal significato delle parole usate, né il senso e la portata specifici che secondo il regolamento essa era destinata ad assumere; né avrebbe effettuato alcuna comparazione tra il significato di “civile abitazione” e quello di attività alberghiera, cui era certamente riferibile l’attività svolta dalle resistenti nelle unità immobiliari ubicate nel condominio. Del tutto erroneamente, poi, la Corte d’appello avrebbe fatto riferimento ad una non consentita interpretazione estensiva della disposizione regolamentare, atteso che per la sussistenza e l’individuazione dell’ambito di operatività di un divieto di destinazione delle unità di proprietà esclusiva può essere sufficiente la piana interpretazione della disposizione stessa.
I ricorrenti si dolgono, quindi, “dell’apodittica interpretazione della norma regolamentare” effettuata dal giudice d’appello, secondo il quale l’attività di affittacamere non modifica la destinazione a civile abitazione degli appartamenti in cui è condotta; interpretazione considerata altresì in pieno contrasto con la giurisprudenza di questa Suprema Corte, secondo cui “l’esercizio di affittacamere costituisce esercizio professionale di un’attività economica organizzata al fine dello scambio di beni e servizi… l’esercizio di siffatta attività in un appartamento locato per esclusivo uso di abitazione non integra un’ipotesi di sublocazione, bensi di un mutamento di destinazione della cosa locata” (Cass. n. 825 del 1997).
In conclusione, i ricorrenti sostengono che la Corte d’appello avrebbe omesso di esaminare i fatti decisivi del giudizio, ossia: quale sia stata l’intenzione delle parti nel porre la norma limitativa; quale sia nella realtà l’uso di civile abitazione e la destinazione ad attività alberghiera, con i conseguenti disagi, inconvenienti e danni derivanti dalla compromissione della sicurezza, della tranquillità e del decoro del condominio.
3. Con il secondo motivo di ricorso i ricorrenti denunciano “violazione dell’articolo 1362, primo comma, cod. civ.; omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti: in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3) e n. 5) cod. proc. civ.”, sostenendo che la Corte d’appello non avrebbe ottemperato al primo compito del giudice di merito nella interpretazione degli atti di autonomia, e cioè quello di accertare l’intenzione perseguita con l’atto da interpretare.
4. Con il terzo motivo le parti ricorrenti lamentano “violazione dell’art. 1363 cod. civ. in. relazione all’art. 360 primo comma, n. 3) cod. proc. civ.”, censurando la sentenza impugnata perché la Corte d’appello avrebbe omesso di ricercare il senso complessivo del disposto risultante dall’interpretazione l’una per mezzo dell’altra delle clausole contenute all’art. 6 del regolamento condominiale. Ad avviso dei ricorrenti, l’accostamento della destinazione a studio professionale a quella di civile abitazione, senza ulteriori aggettivazioni, doveva rendere evidente che l’intenzione delle parti era proprio quella di escludere ogni destinazione che comportasse per il condominio una diminuzione di tranquillità e di decoro.
5. Con il quarto motivo si deduce “violazione dell’art. 1366 cod. civ. in relazione all’art. 360, primo comma., n. 3) cod. proc. civ.”, sostenendosi la violazione dell’obbligo di interpretare la disposizione del regolamento secondo buona fede. La Corte d’appello si sarebbe dovuta porre il quesito, e ad esso dare risposta, se fra persone leali e prive di riserve mentali, l’espressione “civile abitazione” non fosse sufficiente ad escludere ogni dubbio che essa contenesse il divieto di esercizio di attività alberghiere.
6. Con il quinto motivo si lamenta “violazione dell’art, 1367 cod. civ. in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3) cod. proc. civ.”, denunciandosi la violazione dell’obbligo di interpretare le clausole negoziali nel senso che abbiano un effetto. In particolare, richiamato l’orientamento della giurisprudenza di questa Corte, secondo cui i divieti contenuti nel regolamento condominiale di natura contrattuale devono risultare da una volontà chiaramente ed espressamente manifestata o comunque desumibile in modo non equivoco dal regolamento, ma non è richiesto che gli stessi siano analiticamente specificati, i ricorrenti sostengono che la Corte d’appello, ritenendo che la clausola “civile abitazione” fosse troppo generica per esprimere validamente un qualsiasi divieto, avrebbe finito per svuotare la clausola stessa di ogni significato.
7. Con il sesto e ultimo motivo i ricorrenti denunciando “omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti; falsa applicazione del secondo comma dell’art. 1362 cod. civ.; in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3) e n. 5) cod. proc. civ.”, censurano l’affermazione della Corte d’appello secondo cui “l’attività di affittacamere… è del tutto ammissibile… soprattutto alla luce della concreta interpretazione ed applicazione della norma regolamentare costantemente data dagli altri condomini, in nulla aggravando in termini di maggior uso delle cose comuni e/o della sicurezza del contesto condominiale la situazione già da tempo determinatasi con il pieno assenso di tutti gli altri aventi diritto”.
I ricorrenti si dolgono, in particolare, che la Corte d’appello abbia ritenuto provate le circostanze dedotte dalle resistenti in ordine alle altre destinazioni – diverse dalla civile abitazione e dallo studio professionale – impresse alle unità di proprietà esclusiva in ambito condominiale (attività di una scuola; altra attività para-alberghiera; attività commerciali o agenzie di assicurazione), e non abbia invece né tenuto conto del fatto che la domanda formulata dalle resistenti al condominio, di autorizzazione all’apertura delle pensioni, era stata respinta dall’assemblea condominiale in data 17 luglio 2003; né comparato i disagi e i pregiudizi per il condominio comportati dalle attività menzionate e da quella svolta dalle resistenti. I ricorrenti sostengono altresì che il criterio ermeneutico di cui all’art. 1362, secondo comma, cod. civ. opererebbe in modo diverso in ambito condominiale rispetto a come opera con riferimento al comportamento tenuto dalle parti di un contratto durante la sua esecuzione: il condominio è, infatti, un organismo la cui composizione e identità variano con il mutare dei suoi componenti, il che impone una particolare cautela nella interpretazione di eventuali tolleranze di deviazioni dal regolamento condominiale.
8. Il primo morivo di ricorso è inammissibile.
Le norme contenute nei regolamenti condominiali posti in essere per contratto possono imporre limitazioni al godimento ed alla destinazione di uso degli immobili in proprietà esclusiva dei singoli condomini. Peraltro, le disposizioni contenute nel regolamento condominiale contrattuale che si risolvano nella compressione delle facoltà e dei poteri inerenti al diritto di proprietà dei singoli partecipanti, devono essere espressamente e chiaramente manifestate dal testo o, comunque, devono risultare da una volontà desumibile in modo non equivoco da esso.
Secondo la giurisprudenza consolidata (tra le tante, Cass. n. 11278 del 1995; Cass. n. 9355 del 2000; Cass. n. 1406 del 2007; Cass. n. 17893 del 2009), l’interpretazione del regolamento contrattuale di condominio da parte del giudice del merito è insindacabile in sede di legittimità, quando non riveli violazione dei canoni di ermeneutica, oppure vizi logici.
8.1. Tanto premesso, si deve rilevare che i ricorrenti hanno proposto una censura ai sensi del nuovo testo dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. In ordine alla portata delle modifiche introdotte nel 2012, le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato che “la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc.civ., disposta dall’art. 54 del d.L. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al minimo costituzionale del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione”, precisando altresì che il medesimo art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., come riformulato, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie” (Cass. n. 8053 del 2014).
All’evidenza, la motivazione della sentenza impugnata non appare riconducibile alle ipotesi che, secondo il richiamato principio, potrebbero indurre alla cassazione della sentenza sul piano della carenza di motivazione suscettibile di determinarne la nullità.
La Corte d’appello ha, infatti, con argomentazioni logiche e coerenti, ritenuto che la disposizione regolamentare, tenuto conto che la destinazione a civile abitazione costituisce il presupposto per la utilizzazione di una unità abitativa ai fini dell’attività di bed and breakfast (affermazione, questa, coerente con il quadro normativo di riferimento: art. 2, lett. a, del regolamento regionale Lazio n. 16 del 2008, in cui si chiarisce che “l’utilizzo degli appartamenti a tale scopo non comporta il cambio di destinazione d’uso ai fini urbanistici”; in proposito, vedi anche Corte cost. sent. n. 369 del 2008), non precludesse la destinazione delle unità di proprietà esclusiva alla detta attività. Argomentazioni, queste, non smentite dalla sentenza di questa Corte richiamata in ricorso, trattandosi di precedente non pertinente al caso in esame, nel quale l’esercizio dell’attività di affittacamere è condotto in immobili di proprietà delle resistenti e non oggetto, perciò, di rapporti a carattere locatizio, a cui ineriscono problematiche insite nella dinamica contrattuale propria di tale negozio.
Le censure mosse dai ricorrenti sul punto, volte a dimostrare invece la incompatibilità della destinazione alberghiera con quella prescritta dalla norma del regolamento condominiale, non appaiono del resto idonee ad indurre a differenti conclusioni. Esse, invero, presuppongono che l’attività di bed and breakfast comporti necessariamente conseguenze pregiudizievoli per gli altri condomini; tuttavia, una simile allegazione non è stata supportata da alcun riferimento qualitativo e quantitativo al tipo di attività in concreto svolta dalle resistenti. In particolare, non è stata offerta alcuna indicazione in ordine alla capacità ricettiva delle singole unità di proprietà esclusiva nelle quali si svolge la detta attività, né in ordine alla ubicazione nel condominio di tali unità abitative di proprietà esclusiva; non sono state riferite, cioè, circostanze decisive al fine di dimostrare la erroneità della interpretazione complessivamente data dalla Corte d’appello alla clausola del regolamento condominiale. Sicché, anche per tale profilo, il primo motivo si rivela inammissibile.
9. Le altre censure possono essere esaminate congiuntamente e vanno parimenti ritenute infondate.
I ricorrenti si lamentano del fatto che il giudice d’appello : non avrebbe ottemperato alla norma dell’art. 1362, primo comma, cod. civ., secondo la quale la prima regola di ogni interpretazione è che il giudice deve indagare l’intenzione perseguita con l’atto da interpretare; non avrebbe rispettato l’obbligo, impostogli dall’art. 1363 cod. civ., di interpretare complessivamente i due limiti posti dall’art. 6 del regolamento condominiale; avrebbe ignorato anche l’applicazione dell’art. 1366 cod. civ., che gli faceva obbligo di interpretare la disposizione del regolamento secondo buona fede”; avrebbe ignorato l’obbligo per il giudice, in ottemperanza al principio di conservazione di cui all’art. 1367 cod. civ., di interpretare, nel dubbio, le clausole negoziali nel senso che abbiano un effetto, anziché nel senso che non ne abbiano alcuno; avrebbe effettuato un’errata valutazione di fatto da cui scaturirebbe una falsa applicazione dell’art. 1362 cod. civ..
9.1. Le doglianze si presentano palesemente infondate giacché, pur lamentando la violazione dei citati canoni interpretativi, i ricorrenti non confutano il ragionamento logico-giuridico del giudice, non individuano, cioè, un errore di diritto nel quale sarebbe effettivamente incorsa la Corte d’appello. I ricorrenti si sono limitati a prospettare un risultato interpretativo diverso da quello fatto proprio dalla sentenza impugnata.
Il giudice di merito, correttamente individuato il significato da attribuire, come già detto, alla locuzione “destinazione a civile abitazione”, ne ha vagliato il possibile ampliamento a fattispecie non ricomprese, ictu oculi, nel dettato normativo e, sulla base di solide, inopinabili e legittime valutazioni, ha escluso “alcuna interpretazione estensiva”, osservando altresì come “la concreta applicazione della norma da parte dei condomini fosse più permissiva di quanto implicherebbe la sua stretta interpretazione letterale”.
La Corte d’appello ha indubbiamente interpretato il regolamento condominiale, attesa la sua natura contrattuale, secondo i criteri sanciti agli artt. 1362-1371 cod. civ., valutando se fosse possibile, non limitandosi al senso letterale delle parole (art. 1362, comma secondo, cod. civ.), una limitazione del godimento delle unità immobiliari ai soli proprietari, loro congiunti o singoli privati professionisti, tentando di combinare altresì tale lettura con la seconda locuzione, “ufficio professionale privato”, presente nel testo della norma e impropriamente definita clausola dai ricorrenti (art. 1363 cod. civ.). Rilevato che “non poteva essere consentita alcuna limitazione del diritto di proprietà dei singoli condomini se non in forza di espressa previsione ed analitica specificazione dei limiti che si intendono porre” giacché tale lettura si sarebbe posta “in contrasto con quella costantemente data dai condomini nella sua concreta e costante applicazione” (artt. 1362, comma secondo, e 1366 cod. civ.), la Corte d’appello ha inteso attribuire all’art. 6 del regolamento condominiale il significato derivante dalla formale lettura dello stesso, non privandolo cosi dei suoi effetti (art. 1367 cod. civ.).
È chiaro, quindi, come il ragionamento del giudice di secondo grado non sia in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e sia, invece, sorretta da adeguata motivazione, insindacabile dal giudice di legittimità per quanto in precedenza rilevato.
10. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.
In considerazione delle differenti soluzioni date alla questione dai giudici di merito e, quindi, della obiettiva controvertibilità in ordine alla interpretazione del divieto posto dall’art. 6 del regolamento condominiale, le spese del giudizio di cassazione possono essere compensate tra le parti.
Poiché il ricorso, notificato in data successiva al 31 gennaio 2013, è rigettato, e poiché risulta dagli atti del giudizio che il procedimento in esame è assoggettato al pagamento del contributo unificato, deve dichiararsi la sussistenza delle condizioni di cui al comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico approvato con il d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; compensa, le spese del giudizio di cassazione.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

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