La massima

Qualora un immobile, in possesso della PA, venga detenuto a titolo di comodato, in buona fede a seguito di trattative che non hanno portato alla conclusione del contratto, la buona fede ed il legittimo affidamento del comodatario vengono meno se l’altra parte manifesti in modo inequivoco di non consentire la prosecuzione del rapporto e di volere la immediata disponibilità dell’immobile stesso, in quanto la detenzione, caratterizzata fino ad allora dalla originaria buona fede, fondata sulle trattative soprattutto se condotte, in modo legittimo, da parte di organi rappresentativi della PA, ossia dovuta alla legittima aspettativa da parte del privato della piena legalità della condotta dell’ente comodante, diventa ingiustificata. Ne consegue che il giudice non può liquidare il danno per rottura immotivata delle trattative, ossia da responsabilità precontrattuale nella sua totalità, ma deve, se richiesto, procedere ad una determinazione dello stesso, avendo presente il momento che ha determinato la diversa natura della detenzione.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III CIVILE

SENTENZA 20 marzo 2012, n.4382

Motivi della decisione

1. – In via preliminare va esaminata la eccezione di inammissibilità del ricorso dedotta dalla GSC. La eccezione si fonda su questi elementi:

il ricorrente ha depositato il ricorso con richiesta di notifica a mezzo posta ex art.7 legge n.53/94, eseguita presso lo studio dell’avv. Alessandro Boschi, quale domiciliatario della General Sweet Company, spedita il 18 marzo 2011;

non è stato depositato l’avviso di ricevimento attestante l’esito negativo della notifica del ricorso proposto; nella nota di iscrizione è stata indicata la data di richiesta di notifica (18 marzo 2011) e null’altro.

L’effetto sarebbe la intervenuta decadenza del potere di impugnare ex art.327 c.p.c. in virtù del comb.disp. ex art.325 e 326 c.p.c. per la mancata notifica nel domicilio eletto dalla GSC in tempo utile, decorso inutilmente il termine di sessanta giorni dalla notifica della sentenza.

Osserva il Collegio che l’eccezione è destituita di fondamento.

Infatti, dagli atti emerge che il ricorso fu notificato a mezzo posta (busta corredata dalla cartolina della notifica) nel domicilio eletto dalla GSC, ma non andò a buon fine ‘per irreperibilità del destinatario’.

Vi è una nuova notifica del 14 luglio 2011 con relativa cartolina di ricevimento del 20 luglio 2011, e questa volta la notifica andava a buon fine.

Peraltro, la stessa resistente si è costituita avanti a questa Corte il 15 luglio 2011, prima ancora di ricevere la notifica, per cui ex Cass. n. 20666/09 la nullità della notificazione risulta sanata.

Ed, inoltre, il fatto che non sia stata richiesta autorizzazione al giudice ad quem si configura solo come irritualità, inidonea a determinare la decadenza dell’impugnazione e nella specie si deve affermare che l’attività posta in essere dal difensore abbia contribuito alla celerità della discussione del ricorso in pubblica udienza, come è sotteso anche dall’art. 111 Cost. nella sua recente formulazione (Cass. n. 6578/11), nonché dalla nuova formulazione dell’art.53 ex art. 46 della legge n.69/09 (v. Cass. S.U. 17352/09, n. 4.7., in motivazione).

2. – Ciò posto, ritiene il Collegio che vadano esaminati per primi i motivi attinenti alla sentenza non definitiva e, dal punto di vista metodologico, va posta attenzione sul terzo motivo del ricorso (motivazione insufficiente su un punto decisivo della controversia: la presunta legittimazione del Sindaco alla stipula del contratto per delega della CM p. 25 – 26 ricorso).

Con tale censura la CM lamenta che la delibera contenente la delega attineva soltanto alla proposta di utilizzazione presentata dalla Dole Art e non era una delega generale. L’errore del giudice dell’appello sarebbe stato dovuto al fatto che egli si sarebbe attenuto solo al dispositivo di quella delibera.

Al riguardo va osservato quanto segue.

Nella delibera n. 24 del 1992, così come riportata al punto 2 della premessa del ricorso, il Consiglio della CM ‘richiama’ la nota del Comune di Monteleone Sabino in data 2 marzo 1992 prot. n. 770 all. sub 2 con la quale si inoltra copia della proposta di utilizzo del capannone rimessa dalla Dole Art e si richiama la deliberazione di Giunta n. 37 del 5 marzo 1992 avente ad oggetto l’utilizzo del capannone ed esaminando le domande del Comune si deliberava di ‘delegare’ il Comune a gestire il capannone della CM nella zona artigianale e di trasformare i prodotti dello stesso comune secondo quanto previsto nella convenzione allegata.

Dopo una corrispondenza tra la Dole Art, fallirono le trattative e con delibera datata 1 marzo 1993 del consiglio comunale il Comune, richiamata la delega contenuta nella delibera del consiglio della Cm n. 24/92 e l’allegato schema di convenzione, prendeva atto del ‘recesso’ della Dole Art e dichiarava di concedere in comodato, previa autorizzazione della competente CM e previa certificazione antimafia, alla Italbox s.r.l. di Roma e Codis s.r.l. il capannone realizzato dal Comune con i fondi della CM.

Cessato il rapporto con Italbox il capannone restava libero e il Comune, nella qualità di delegato della CM avrebbe dovuto reperire nuovi occupanti nel modo assunto in precedenza. A questo punto, senza inoltrare la proposta alla CM e chiederne il parere, senza alcuna verifica sulla società e sulla sua attività (la GSC, che aveva presentato la sua proposta con lettere del 16 settembre 1996), il Sindaco con lettera del 5 ottobre 1996 comunicava la sua disponibilità alle trattative e alla messa a disposizione del capannone per i necessari trasferimenti di macchinari ed attrezzature atte ad iniziare l’attività e l’impegno ad avviare al più presto le trattative per la stipula del contratto, omettendo di comunicare la lettera alla CM e di informarla della decisione assunta.

A fronte di questo dato documentale il giudice dell’appello ha ritenuto che il Sindaco dell’epoca – F..M. – aveva agito quale rappresentante della CM per delega della stessa, contenuta nella delibera n. 24 del 23 febbraio 1992. La CM non disconosce la esistenza di tale qualità, ma ritiene che essa non sia stata messa in condizione di esprimere il proprio parere, come precedentemente era avvenuto e che, comunque,i poteri conferiti al Sindaco erano limitati.

Sul punto il giudice dell’appello non ha preso atto solo del ‘dispositivo’ della delibera che faceva riferimento a quanto previsto nella convenzione allegata e che menzionava il termine ‘gestione’, ritenendo il termine non limitato- al compimento di un atto specifico, ma, ha aggiunto che, sia pure limitato ad un atto specifico, esso termine comprendeva ‘ogni attività necessaria al miglior uso produttivo del capannone al fine di urtare vantaggio per il Comune stesso e la popolazione’.

Peraltro, per ritenere irrilevante la mancanza di altra delibera e il presunto limitato oggetto il giudice dell’appello ha ritenuto determinante e risolutivo il fatto che la GSC versasse in buona fede, riponendo il suo affidamento nella legittimità dell’atto di un organo pubblico, atteso anche che quell’atto, che ha prodotto conseguentemente gli effetti suoi propri, non è stato mai revocato, né annullato, né impugnato e pertanto ne è presunta la legittimità, almeno, per l’appunto a livello presuntivo. ‘Il che se da una parte non può aver rilievo data la possibilità di disapplicazione da parte del G.O., dall’altra non può che costituire conferma per il destinatario dell’atto e tale era, nella specie, la GSC, che il proprio comportamento in ossequio all’atto steso non poteva essere né illegittimo né abusivo’ (p. 7-8 sentenza non definitiva). Come appare evidente, non corrisponde al vero che vi sia sul punto una motivazione insufficiente.

Anzi, i vari passaggi argomentativi sono espressi in modo rigorosamente chiaro per poi ‘ approdare’, per così dire, a quello ‘determinante’, che il Collegio pienamente condivide, atteso che il principio dell’affidamento costituisce, in presenza di atti pubblici non assoggettati né a revoca, impugnativa, o ad annullamento dagli interessarti, un principio che ingenera piena credibilità nella legittimità dell’atto in cui è coinvolto il destinatario.

3.-Resta, quindi, assorbito, il quarto motivo (motivazione insufficiente su punto decisivo della controversia: la presunta legittimità dell’atto con il quale il Sindaco ha immesso la GSC nel possesso dell’immobile – art. 360 n.5 c.p.c.), che costituisce, peraltro una specificazione del terzo, non rinvenendosi per le superiori considerazioni nessun vizio motivazionale al riguardo.

4. – Con il secondo motivo ( motivazione insufficiente sulla ritenuta insussistenza dei fatti presupposti della presunta responsabilità precontrattuale della CM), in estrema sintesi, la ricorrente deduce:

a) l’errore del giudice dell’appello per non aver indicato alcun argomento a sostegno della presunta buona fede del privato contraente;

b) la insufficienza della motivazione sulla ingiustificata interruzione delle trattative;

c) la inapplicabilità della norma di cui all’art. 1337 c.c. che presupporrebbe l’accertamento dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa, trattandosi di responsabilità aquiliana;

d) il mancato riferimento alle fonti di prova prodotte dalla CM nel corso del giudizio e la totale inesistenza di prova orale articolate da parte della GSC su tali circostanze (p. 24-25 ricorso), per cui vi sarebbero solo affermazioni apodittiche.

Al riguardo il Collegio, partendo dall’ultimo profilo del motivo, poco sopra evidenziato (sub d), precisa quanto segue.

In linea di principio è ormai jus reeptum che la responsabilità precontrattuale della PA è configurabile in tutti i casi in cui l’ente pubblico nelle trattative e anche nelle relazioni con i terzi abbia compiuto azioni e, così agendo, sia incorso nel compimenti di atti contrastanti con i principi di correttezza e buona fede, cui è tenuta nell’ambito del rispetto dei doveri primari, oramai dalla valenza anche costituzionale garantiti dall’art. 2043 c.c.. Nel caso in esame, il giudice dell’appello ha avuto modo di constatare che la GSC, una volta ottenuta la disponibilità del capannone, aveva provveduto a sue spese a trasferire i macchinari e le attrezzature; aveva sanato la morosità dell’Italbox, che precedentemente aveva occupato il capannone; aveva installato l’impianto elettrico, ponendo in essere tutte le attività necessarie per l’inizio della produzione (p.6 sentenza non definitiva).

Il contenuto della lettera del 5 ottobre 1996, a firma del Sindaco M. , che agiva, come precisato per l’innanzi, su delega della CM e, quindi, coinvolgeva la stessa e che lo stesso Tribunale aveva ammesso costituite ‘possibilità che costituisse un primo contatto con la ditta convenuta finalizzato ad una trattativa’, ha costituito un elemento cruciale per legittimamente indurre la GSC a predisporre ogni cosa onde iniziare la produzione.

Su questa condotta dell’attuale resistente la stessa CM non sembra muovere alcuna contestazione.

Se ne deve, quindi, ragionevolmente arguire, come ha dedotto il giudice dell’appello, che sussistesse la buona fede del privato, avendo tutta la ‘trattativa’ ingenerato sia per quella lettera sia per l’incontro a tre tenutosi in Roma tra il legale rappresentante della GSC, il presidente della CM e il Sindaco la legittima aspettativa, ed a fronte di queste circostanze nulla di più doveva offrire al giudice nel processo la GSC.

In altri termini, il giudice dell’appello non solo ha mostrato estrema cautela, valutando gli elementi cruciali del rapporto intercorso, ma ne ha logicamente tratto le conseguenze sempre sulla base di quegli elementi, ossia che la PA per mera colpa avesse ingenerato nella GSC il ragionevole affidamento in ordine alla conclusione del contratto, così come richiesta dalla stessa GSC, accertando che la GSC si era venuta a trovare in una situazione suscettibile di determinare in essa un affidamento positivo sulla conclusione del contratto (Cass. n. 11738/03). E, inoltre, correttamente il giudice a quo non si è soffermato sul se la PA si fosse comportata da corretta amministratrice, compito che esulava ed esula dai poteri del G.O., ma ha valutato se essa avesse adempiuto al dovere civilistico, trattandosi di rapporto jure privatorum., di agire da corretto interlocutore (Cass. n. 5297/98) nelle trattative che avrebbero dovuto sfociare nella conclusione del contratto (Cass. n. 9129/87; Cass. n. 12313/05; Cass.13164/05, prima parte della massima).

A fronte di quanto argomentato dal giudice a quo, che risulta sorretto da adeguata motivazione, per le superiori considerazioni e, quindi, sfugge al sindacato di legittimità (v. Cass. n. 7768/07), peraltro, il profilo si configura generico, mancando dell’autosufficienza, in quanto parla di prove documentali prodotte e non esaminate, ma non le indica, a differenza di altri passi del ricorso nei quali si fa riferimento a documenti prodotti ed addirittura se ne trascrivono in parte i contenuti.

Ne consegue l’assorbimento dei profili sub a e sub b del secondo motivo, nonché il rigetto del quinto motivo (violazione dei principi di trasparenza ed imparzialità dell’azione amministrativa di cui all’art.97 Cost. e all’art. 1 della legge n. 241/90 – art.360 co. 1 n. 3 c.p.c.), che, per quanto detto, risulta assolutamente inconferente.

5. – Passando al profilo dello stesso secondo motivo-quello indicato in precedenza come sub c)-, va affermato quanto segue.

Il suo esame va compiuto alla luce del primo motivo (omessa motivazione sul rigetto della domanda di rilascio e sulla domanda di risarcimento del danno da occupazione senza titolo-art.360 n.5 c.p.c.) e del sesto motivo (falsa applicazione dell’art.1337 c.c. – art. 360 n. 5 c.p.c. – p. 31 ricorso), che in realtà reitera la censura circa la eventuale sussistenza della mala fede della GSC a partire quanto meno dal 21 luglio 1997 (v. 31-32 ricorso).

Infatti, con tali doglianze la CM da una parte ritiene che per l’applicazione dell’art.1337 c.c. quanto statuito dal giudice dell’appello costituisca aspetto rilevante, dall’altra, però, sottolinea che si tratterebbe di aspetto inconferente rispetto alla domanda di rilascio e a quella risarcitoria e conclude che non una parola sarebbe stata spesa per spiegare le ragioni per cui essa non avrebbe diritto alla restituzione dell’immobile.

Non essendo stato concluso alcun contratto e pur volendo ritenere legittima la condotta del Sindaco ed essendo ingiustificata la interruzione delle trattative da parte della CM, il capannone doveva essere restituito al legittimo proprietario proprio perché il contratto non era stato concluso.

Comunque, certamente sin dal 21 luglio 1997 – lettera del Sindaco M. – sarebbe venuta meno la buona fede della GSC in quanto solo nel mese di giugno 2001 vi fu rilascio dell’immobile con l’intervento dell’ufficiale giudiziario. Le censure, sopra indicate, e che costituiscono in realtà una sola doglianza, vanno accolte per quanto di ragione. Infatti, esse vanno respinte allorché proposte nella prospettiva della natura dell’accertamento della buona fede, che non può essere ricondotto all’accertamento della trasparenza di un iter amministrativo, con l’effetto che almeno fino alla lettera del 21 luglio 1997, certamente sussisteva in capo alla GSC il legittimo affidamento sulla regolarità della disponibilità del capannone, ma vanno accolte allorché deducono che almeno a partire dalla lettera suddetta, ossia dopo quella diffida e tenuto conto della rottura delle trattative, la GSC non poteva più disporre dell’immobile, in quanto si era manifestata chiara la volontà della P.A. di non voler più continuare il rapporto. È da quel momento, quindi, ossia dalla ricezione di quella lettera, che si è rotto il nesso tra affidamento – buona fede e disponibilità del capannone, dovendosi ragionevolmente ritenere che proprio perché a conoscenza del recesso unilaterale della PA il continuare a disporre di quell’immobile non poteva non significare che occupazione sine titulo dello stesso, ossia la detenzione dell’immobile in buona fede venne, poi, a trasformarsi in detenzione ingiustificata ed il giudice avrebbe dovuto da quel momento ordinarne il rilascio.

In questi termini le doglianze risultano fondate, con l’effetto che restano assorbiti tutti i motivi inerenti alla sentenza definitiva, in quanto alla luce della sostanzialmente unica censura di cui agli indicati motivi, il giudice del rinvio dovrà procedere ad una nuova determinazione del danno.

6. – Alla fine dell’esame del ricorso, complesso ed articolato in vari profili, il Collegio ritiene, onde chiarire definitivamente, i termini della controversia quanto segue. Si è potuto giudizialmente accertare che:

a) vi fu una delega al Sindaco da parte della Comunità Montana onde ‘gestire’ il capannone ai fini della produzione e promozione di prodotti dolciari locali;

b) con nota, su carta intestata e timbro del Comune, il Sindaco ebbe a manifestare la sua disponibilità ad accettare la proposta della GSC di avere in comodato, adempiendo al contempo a quanto previsto nella convenzione allegata, il ‘capannone’;

c) la GSC ottenne la disponibilità del capannone con la consegna delle chiavi;

d) entrata nella disponibilità dell’immobile la GSC si attivò per installare i macchinari, adeguare l’impianto elettrico e quant’altro per l’avvio della produzione e saldò i debiti pregressi di altro occupante;

e) tra le parti continuarono le trattative per addivenire alla stipula di un regolare contratto, anche su richiesta della GSC;

f) pochi mesi dopo un incontro con il Sindaco, che aveva impegnato, in quanto fornito di apposita delega, la CM, con il presidente di questa e con il rappresentante legale della GSC, furono inviate lettere, e soprattutto la lettera del 21 luglio 1997 da parte del Comune, che diffidava la GSC all’immediato rilascio del ‘capannone’;

g) il giudice dell’appello, riformando la sentenza di primo grado, ha correttamente ritenuto:

1) la legittimità dell’azione del Sindaco in nome e per conto della CM.; 2) la sussistenza di una responsabilità precontrattuale, per ingiustificata interruzione unilaterale delle trattative incorse, senza che se ne conoscessero i motivi da parte della CM e dei Sindaci che erano succeduti al M. .

Fin qui, la sentenza impugnata risulta immune da ogni vizio denunciato.

Laddove il giudice dell’appello ha errato è nel non aver tenuto in considerazione che non si può parlare di buona fede in ordine alla detenzione di un immobile allorché la detentrice sia venuta a conoscenza della chiara volontà dell’altra parte di non volere continuare il rapporto e di richiesta da parte di quest’ultima di immediato rilascio.

A fronte di questo recesso documentato ed acquisito agli di causa il giudice avrebbe dovuto dichiarare il rilascio dell’immobile, dovendo ragionevolmente ritenere che fosse venuta meno la detenzione in buona fede, che egli stesso aveva rinvenuto non già in base al documento prodotto, bensì seguendo la scansione temporale del rapporto instaurato.

Ne consegue che tutta la problematica affrontata nel ricorso circa la quantificazione dei danni (modalità, consulenza, produzione di documenti, determinazione dell’ammontare) sarà affrontata nella sede del rinvio, atteso quanto motivato con le superiori considerazioni.

In altri termini, il giudice del rinvio è tenuto ad osservare il seguente principio di diritto:

Qualora un immobile, in possesso della PA, venga detenuto a titolo di comodato, in buona fede a seguito di trattative che non hanno portato alla conclusione del contratto, la buona fede ed il legittimo affidamento del comodatario vengono meno se lr altra parte manifesti in modo inequivoco di non consentire la prosecuzione del rapporto e di volere la immediata disponibilità dell’immobile stesso, in quanto la detenzione, caratterizzata fino ad allora dalla originaria buona fede, fondata sulle trattative soprattutto se condotte, in modo legittimo, da parte di organi rappresentativi della PA, ossia dovuta alla legittima aspettativa da parte del privato della piena legalità della condotta dell’ente comodante, diventa ingiustificata.

Ne consegue che il giudice non può liquidare il danno per rottura immotivata delle trattative, ossia da responsabilità precontrattuale nella sua totalità, ma deve, se richiesto, procedere ad una determinazione dello stesso, avendo presente il momento che ha determinato la diversa natura della detenzione.

L’accoglimento per quanto di ragione delle censure sopra indicate e di cui al primo motivo, cosi come esaminato in relazione ad altri, comporta la cassazione con rinvio della sentenza impugnata alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie per quanto di ragione il primo motivo e nei, limiti del motivo accolto cassa e rinvia alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio di cassazione.

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