Corte di Cassazione, sezione III civile, sentenza 27 giugno 2016, n.13224

In ordine alla qualificazione del danno da occupazione abusiva di immobile, il danneggiato è onerato della prova del pregiudizio patrimoniale subito dalla lesione del diritto reale o personale esercitato sul bene, o comunque della situazione di fatto consistente nel legittimo esercizio del possesso, pregiudizio che non coincide con l’evento lesivo, essendo un “quid” ontologicamente distinto dalla violazione della preesistente situazione giuridica che qualifica la titolarità in capo ad un soggetto della relazione di interesse (giuridico: tutelato dall’ordinamento) con la “res”

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III CIVILE

SENTENZA 27 giugno 2016, n.13224

Ritenuto in fatto

Decidendo la controversia tra il Fallimento Edilizia Binetti s.r.l. ed Il Centro s.r.l., da un lato, e L.G. e F. , dall’altro, il Tribunale di Trani, riconosceva il diritto della Curatela alla restituzione di un immobile oggetto di contratto di preliminare di permuta stipulato in data 7.8.1987 dai L. con B.M. (cui era subentrata, quale cessionaria del centrano, la società poi dichiarata fallita, con atto (omissis)), in ordine al quale il curatore aveva esercitato con atto in data 8.4.1999 il diritto potestativo di scioglimento del ex art. 72 LF, nonché riconosceva allo stesso Fallimento il risarcimento del danno per la occupazione “sine titulo” del predetto immobile, protrattasi dalla data dello scioglimento fino al rilascio effettuato volontariamente dai L. nel giugno 2003, liquidando un importo pari al valore dei canoni locativi. Rigettava la domanda risarcitoria proposta nei confronti dei L. da Il Centro s.r.l., acquirente dell’immobile in virtù di decreto di trasferimento emesso a seguito della procedura fallimentare di vendita, nonché le domande proposte dai L. relative all’accertamento della nullità del decreto di trasferimento nonché della illegittimità dell’esercizio del diritto di scioglimento del contratto esercitato dal curatore.
La Corte d’appello di Bari, investita dalla impugnazione principale dei L. , con sentenza 5.4.2012 n. 418, rilevava:
che il venire meno del titolo del legittimo possesso dell’immobile, a seguito dello scioglimento del preliminare di permuta, qualificava come illecita la detenzione dei L. tenuti pertanto a risarcire i danni che anche L.F. quale contraente del preliminare di pennuta, era stato immesso nel possesso dell’immobile, e pertanto, essendo obbligato alla restituzione, rimaneva responsabile della protratta occupazione da parte di terzi detentori del bene, non essendo stata interrotta la illegittima detenzione neppure a seguito della nomina del curatore fallimentare a custode giudiziario, disposta con il provvedimento di sequestro giudiziario, risultando dal verbale di sequestro del 17.6.1999 che l’Ufficiale giudiziario non poté immettere il custode nel possesso dei beni fino al settembre 2003, quando i L. ed i terzi rilasciarono il fabbricato.
– che l’entità del risarcimento andava tuttavia ridimensionata nell’importo di Euro 35.717,70 oltre accessori, perché dallo stesso verbale dell’Ufficiale giudiziario in data 17.6.1999 risultava che la occupazione abusiva riguardava soltanto tre dei sette appartamenti e cinque dei dieci box di cui l’immobile era composto, sicché il curatore-custode giudiziario era rientrato nel pieno possesso degli altri beni – liberi e sgombri da persone e cose – già alla data del predetto verbale.
– confermava per il resto la decisione di prime cure.
La sentenza di appello è stata impugnata per cassazione da L.F. e Giuseppe che hanno dedotto vizi di violazione di norme di diritto e vizio di motivazione. Resistono con controricorso il Fallimento Edilizia Binetti s.r.l. ed il Centro s.r.l..

Motivi della decisione

Manifestamente infondata deve ritenersi la eccezione, proposta dal Fallimento, di inammissibilità e di improcedibilità del ricorso per violazione degli art. 366 co. 1 n. 6 e 369 co. 2 n. 4 cpc non avendo i ricorrenti indicato gli atti e documenti sui quali i motivi di ricorso si fondano.

La critica svolta nel primo motivo di ricorso è interamente rivolta a censurare la statuizione della sentenza di appello che avrebbe riconosciuto esistente il danno patrimoniale ‘in re ipsa’, ritenendo superflua l’attività di allegazione e prova del danno-conseguenza da parte del Fallimento: la critica si rivolge interamente all’interno della stessa argomentazione motiva della sentenza e dunque, non è dato comprendere quale altro atto o documento (oltre evidentemente la sentenza in copia autentica, depositata con il ricorso) i ricorrenti avrebbero dovuto produrre a pena di inammissibilità o improcedibilità.

Con il primo motivo i ricorrenti censurano la sentenza di appello per violazione degli artt. 2043, 2056, 1223, 1226 e 2697 c.c. in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c., nonché per vizio di omessa od insufficiente motivazione ex art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c., deducendo che il Giudice di appello aveva erroneamente liquidato il danno patrimoniale da occupazione abusiva in relazione al valore locativo dell’immobile, atteso che alcuna prova della perdita del mancato guadagno era stata fornita dal Fallimento della società, non potendo riconoscersi nel caso di specie un danno ‘in re ipsa’, ma dovendo essere allegate e provate dal danneggiato le effettive occasioni di guadagno perdute.

Il motivo è inammissibile in quanto prospetta per la prima volta in sede di legittimità una questione nuova non discussa nei gradi di merito, come ritualmente eccepito dalla difesa del Fallimento nel controricorso.

Rileva il Collegio che la questione concerne la prova del ‘quantum’ risarcibile non era stata formulata nei predetti termini con i motivi di gravame dedotti con l’atto di appello proposto da germani L. .

A quanto è dato evincere dalla sentenza impugnata, infatti, il gravame avverso la sentenza del Tribunale di Arezzo aveva ad oggetto:

a) la contestazione della qualificazione giuridica della domanda attorea del Fallimento, negandosi che si vertesse in tema di illecito aquiliano e di responsabilità da risarcimento danni ex att. 2043 c.c., ed affermandosi invece che, il venir meno dell’originario titolo della detenzione dell’immobile, determinava esclusivamente la insorgenza di un obbligo restitutorio regolato dalla norma sull’indebito oggettivo ex art. 2037 cc. che escludeva il risarcimento del danno.

b) in via subordinata, la riduzione del ‘quantum’ risarcibile (liquidato in prime cure con criterio equitativo in relazione al valore locativo del bene) in considerazione: 1 – della asserita libertà dell’immobile da persone e cose alla data di redazione del verbale di esecuzione del sequestro giudiziario (motivo disatteso dalla Corte territoriale in considerazione delle contrarie dichiarazioni rese da L.G. all’Ufficiale giudiziario ed all’obbligo gravante anche su L.F. di rilasciare l’immobile libero dai terzi detentori che lo occupavano); 2 – della immissione nel possesso dell’immobile del curatore fallimentare, nominato custode giudiziario (motivo disatteso dalla Corte territoriale, in considerazione della mancata emissione da parte del Giudice del provvedimento ingiuntivo di rilascio ex art. 677 co. 3 c.p.c. nei confronti dei terzi detentori); 3 – della circostanza che la occupazione abusiva riguardava solo una porzione del fabbricato – tre appartamenti su sette; cinque box su dieci- e dunque il calcolo del valore locativo doveva essere ridotto (motivo accolto dalla Corte territoriale che ha provveduto a riliquidare il danno, sempre alla stregua del criterio equitativo del valore locativo del bene).

Risulta evidente, pertanto, come la questione concernente la mancanza di allegazione e prova da parte del Fallimento del danno-conseguenza (inteso nel senso di lucro cessante derivato dal mancato uso locativo non appartenesse ai motivi di gravame dedotti in appello dai L. , tanto più che proprio la esistenza di tale danno, al contrario, era considerata dagli appellanti come logico presupposto della richiesta di riduzione del ‘quantum’, che non involgeva affatto la inesistenza del danno o la erronea applicazione del criterio del valore locativo, ma soltanto la esatta determinazione dello stesso in relazione alla effettiva durata della occupazione abusiva.

Il motivo è comunque palesemente infondato.

La perdita patrimoniale, conseguente alla occupazione sine titolo di un immobile, deve essere accertata in riferimento alla situazione concreta in cui versava il bene.

Nella specie trattavasi di un bene acquisito all’attivo della massa fallimentare, e dunque destinato al realizzo in funzione del successivo riparto tra i creditori concorrenti, con la conseguenza che, in difetto di prosecuzione di esercizio dell’attività economica della società fallita (art. 90 LF ante riforma Dlgs n. 5/2006), l’immobile in questione nelle more della procedura fallimentare:

a) avrebbe potuto essere amministrato dal curatore ex art. 31 LF (vecchio testo) mettendolo a reddito con la stipula di contratti di locazione degli appartamenti e dei box, laddove lo svolgimento della procedura concorsuale si fosse presentato complesso con previsione di lunga durata;

b) avrebbe potuto essere immediatamente liquidato, come in seguito è stato fatto, mediante vendita, senza incanto, ex art. 108 co. 1 LF (vecchio testo).

La protrazione della abusiva occupazione, con conseguente spossessamento del legittimo titolare dei poteri di disposizione del bene (il curatore fallimentare, che era stato nominato anche custode giudiziario del bene ex art. 676 c.p.c.), comporta che:

– nel caso sub a) il danno da patrimoniale – escluso un utilizzo diretto da parte degli organi della procedura. e quindi escluso un danno emergente – deriva dalla indisponibilità del bene che impedisce la messa a reddito: attesa la tipologia dei locali: appartamenti a destinazione abitativa; box per ricovero auto la indisponibilità si traduce nel mancato sfruttamento locativo e dunque in una perdita di guadagno futuro (lucro cessante).

– nel caso sub b), invece, il danno patrimoniale derivante dalla temporanea indisponibilità del bene in funzione della sua offerta sul mercato immobiliare, va individuato nella ritardata liquidazione del cespite (nella specie venduto a Il Centro s.r.l. in pendenza del sequestro giudiziario, con decreto di trasferimento del GD in data 15.4.2003 trascritto nei RR.II. in data 732003), ovvero nella realizzazione di un minor prezzo – rispetto al valore di mercato – ricavato dalla vendita del cespite, in quanto alienato non libero da persone e cose.

In entrambi i casi il danneggiato è tenuto, secondo la regola generale ex art. 2697 c.c., a fornire la prova del danno allegato.

Tanto premesso la richiesta risarcitoria, formulata dal Fallimento con la domanda in primo grado ha avuto ad oggetto (come si evince dalla lettura della sentenza di appello), il danno da lucro cessante per mancato sfruttamento locativo (con la domanda era stata chiesta la liquidazione del danno commisurato al – valore manco dalla data della dichiarazione di fallimento fina a quella di effettivo rilascio’), e dunque era onerato della relativa prova.

Le parti in causa al riguardo richiamano contrapposti orientamenti giurisprudenziali di questa Corte, secondo cui detta prova è da considerare in re ipsa (nel fatto stesso dello spossessamento da parte dell’occupante abusivo), o invece deve essere oggetto di specifica dimostrazione con riferimento agli effettivi e concreti impieghi che dell’immobile avrebbe fatto il legittimo titolare del bene.

In proposito occorre rilevare che l’apparente contrasto insorto nella giurisprudenza di legittimità in ordine alla qualificazione del danno da occupazione abusiva di immobile, quale danno ‘in re ipsa” ovvero quale ordinario danno-conseguenza, si risolve nell’affermazione – comune a tutti i precedenti giurisprudenziali – secondo cui il danneggiato è onerato della prova del pregiudizio patrimoniale subito dalla lesione del diritto reale o personale esercitato sul bene, o comunque della situazione di fatto consistente nel legittimo esercizio del possesso, pregiudizio che non coincide con l’evento lesivo, essendo un ‘quid’ ontologicamente distinto dalla violazione della preesistente situazione giuridica che qualifica la titolarità in capo ad un soggetto della relazione di interesse (giuridico: tutelato dall’ordinamento) con la ‘res’. È ben vero, infatti, che il diritto sul bene nella sua massima estensione (diritto di signoria) attribuisce al titolare i poteri di disposizione e godimento, e che la violazione del diritto determinata dalla condotta illecita del terzo, viene a sopprimere proprio tali contenuti sostanziali del diritto, ma questo non è sufficiente a ravvisare – oltre alla esigenza di ripristinare la situazione giuridica violata ed eventualmente, ove ricorrano esigenze di prevenzione speciale, di reprimere l’autore dell’illecito con l’applicazione di misure afflittive – anche un (ulteriore e distinto) pregiudizio di natura patrimoniale, che dovrà pertanto essere allegato e dimostrato da colui che agisce in giudizio per vedere accertato il proprio credito risarcitorio.

Orbene il contrasto giurisprudenziale deve ritenersi soltanto apparente in quanto, la lesione del danno ‘in re ipsa’ non prescinde dal predetto accertamento, ma si limita ad affidarlo alla prova logica presuntiva, ritenendo che la allegazione da parte del danneggiato di determinate caratteristiche materiali e specifiche qualità giuridiche del bene immobile, consentano di pervenire alla prova – fondata su una ragionevole certezza, la cui rispondenza logica deve essere verificata alla stregua del criterio probabilistico dell’’id quod plerumque accidit’ – che ‘quel tipo di bene immobile’ sarebbe stato destinato ad un impiego fruttifero. In tal senso i contrasti che si registrano tra i precedenti richiamati non attengono al principio di diritto della necessità della prova del danno-conseguenza di cui è onerato il danneggiato, ma si risolvono nella diversa specificità delle fattispecie concrete esaminate, avuto riguardo alle peculiari circostanze addotte dal danneggiato in relazione alle caratteristiche del bene immobile, alle qualità soggettive del titolare dello stesso, oltre che ad altre rilevanti circostanze fattuali, elementi tutti che consentono di pervenire all’accertamento del probabile impiego che dell’immobile avrebbe fatto il legittimo titolare.

E nel caso in esame, in cui l’assoggettamento del bene immobile alla procedura fallimentare è incontestato, l’impiego fruttifero del bene discende direttamente dal risultato cui tende lo svolgimento della procedura concorsuale e dalla relazione di asservimento dei beni del fallito alla soddisfazione dei creditori, essendo tenuto ex lege il curatore amministrare e gestire i beni acquisiti alla massa fallimentare nel senso di conservare ed ove possibile accrescere l’attivo destinato al riparto, e dunque rimanendo esclusa per antonomasia l’ipotesi della indifferenza circa l’utilizzo del bene da parte dell’organo della procedura fallimentare: lo scopo della disciplina legislativa del concorso, H numero degli immobili, la destinazione abitativa degli stessi, lo scioglimento unilaterale del contratto preliminare di permuta, legittima infatti la presunzione che il curatore, se fosse rientrato tempestivamente nel possesso dei beni immobili, li avrebbe destinati con ragionevole certezza ad un impiego redditizio, essendo dunque de fluita di qualsiasi fondamento la tesi dei ricorrenti della assenza di una qualsiasi prova del danno lamentato dalla Curatela.

Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano la violazione degli artt. 2043, 2056, 1223, 1226 1227 2697 c.c., e degli artt. 605, 608, 670, 676 e 677 c.p.c., in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c., nonché vizio di omessa od insufficiente motivazione ex art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c..

Sostengono i ricorrenti che la concessione e la esecuzione del provvedimento cautelare di sequestro giudiziario sull’immobile, con nomina del curatore fallimentare a custode giudiziario, escludeva la possibilità di configurare alcun danno patrimoniale derivante dalla abusiva occupazione, essendo pienamente satisfattiva la misura del sequestro giudiziario alle esigenze cautelari prospettate nel provvedimento del Giudice (‘provvedere, durante il giudizio di merita alla custodia e conservazione degli immobili, ed alla gestione temporanea degli stessi al fine di evitare che le relative rendite vadano disperse e che i relativi beni subiscano delle alterazioni e modifiche….’: cfr. ricorso pag. 16-17) che sottraeva ai detentori il potere di fatto sul bene conferendolo al custode.

Il motivo è palesemente infondato.

Come si è visto il danno patrimoniale consiste nella perdita di guadagno di canoni ritraibili dalla locazione degli appartamenti e dei box, e non come intenderebbero sostenere i ricorrenti nella perdita di occasioni di vendita dell’immobile acquisito alla massa fallimentare, ed appare ‘letti acuti’ evidente come la nomina del curatore fallimentare a custode giudiziario, non seguita dalla immissione nel possesso materiale del bene, come accertato in fatto dalla Corte territoriale, alla stregua del verbale di esecuzione della misura cautelare in data 17.6.1999 (da cui emergeva la perdurante occupazione dei locali da parte di L.G. e di altri terzi detentori nei confronti dei quali il Giudice della cautela non aveva ritenuto di emettere ordine di rilascio del bene ex art. 677 co. 3 c.p.c.), costituisse fatto oggettivo impeditivo della effettiva ‘gestione’ dell’immobile da parte del custode, non essendo evidentemente locabili gli immobili che continuavano ad essere abusivamente occupati.

Su tale punto ‘in fatto’ della motivazione della sentenza di appello, i ricorrenti si limitano a svolgere astratte e sterili divagazioni in ordine alla natura, funzione e ricostruzione teorica dell’istituto del sequestro giudiziario, prive di qualsiasi attinenza con la fattispecie concreta.

Del tutto priva di fondamento giuridico è, altresì, la tesi dei ricorrenti per cui la ‘detenzione’ dei germani L. verrebbe ad essere ‘trasformata’ dalla misura cautelare, da condotta illecita – produttiva di danno a mera condotta materiale ‘innocua’ e cioè non dannosa: a parte che non è dato comprendere come il provvedimento di sequestro giudiziario produca l’ipotizzato fenomeno giuridico della interversione da illecita a lecita (o comunque innocua in relazione alle conseguenze dannose lamentate dal Fallimento) della occupazione dell’immobile, gli stessi ricorrenti vengono ad ammettere nella esposizione del motivo che la protratta occupazione, anche dopo il sequestro, ‘era semmai al più da considerarsi quale impedimento di fatto meramente provvisorio’, ammettendo in tal modo che perdurava -pur dopo la redazione del verbale del 17.6.1999 – l’impedimento all’esercizio della facoltà di godimento (rette di amministrazione e gestione del bene) da parte del custode giudiziario.

La Corte territoriale ha accertato che il curatore-custode non era stato immesso nel possesso degli immobili occupati, e tanto basta ad escludere la possibilità dell’effettivo esercizio della gestione del bene sequestrato da parte del custode giudiziario; nessuna valenza, in contrario, può essere riconosciuta ad una eventuale istanza del custode volta ad ottenere l’ordine di rilascio dell’immobile ex art. 677 co. 3 c.p.c.: premesso che tale ordine riguarda soltanto i terzi detentori (estranei alle parti del giudizio di merito in cui si controverte del diritto cautelato) e non anche gli occupanti L. , è appena il caso di rilevare come la disposizione processuale in questione demanda al Giudice della cautela di valutare la esigenza del rilascio in funzione della tutela degli interessi giuridici dei terzi detentori (ai quali infatti è data il rimedio della apposizione ex art. 211 c.p.c.) dovendo escludersi, quindi, come ipotizzano i ricorrenti, una ‘automatica’ emissione dell’ordine di rilascio in relazione alla mera prospettazione, da parte del custode, della esistenza di occasioni locative dell’immobile.

In conclusione il ricorso deve essere rigettato ed i ricorrenti condannati alla rifusione, in favore del Fallimento Edilizia Binetti s.r.l., delle spese del giudizio di legittimità che vengono liquidate in dispositivo.

La assenza di domande svolte dai ricorrenti nei confronti de Il Centro s.r.l., evocato in giudizio soltanto in quanto rivestiva la posizione di parte nel precedente grado di giudizio, legittima la integrale compensazione delle spese del giudizio di legittimità tra dette parti.

Sussistono i presupposti per l’applicazione l’art. 13, comma 1 quater, del Dpr 30.5.2002 n. 115, inserito dall’art. 1 co. 17 della legge 24.12.2012 n. 228, che dispone l’obbligo del versamento per il ricorrente principale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato nel caso in cui la sua impugnazione sia stata integralmente rigettata, essendo iniziato il procedimento in data successiva al 30 gennaio 2013 (cfr. Corte Cass. SU 18.2.2014 n. 3774).

P.Q.M.

La Corte:

– rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, in favore di Fallimento Edilizia Binetti s.r.l., liquidate in Euro 7.500,00 per compensi, Euro 200,00 per esborsi, oltre gli accessori di legge;

– dichiara interamente compensate le spese del giudizio di legittimità tra la parte ricorrente e Il Centro s.r.l.;

– dichiara che sussistono i presupposti per il versamento della somma prevista dall’art. 13, comma 1 quater, del Dpr 30 maggio 2002 n. 115.

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