Corte di Cassazione, sezione III civile, sentenza 29 settembre 2016, n. 19285

Deve riconoscersi un abuso con mala fede o colpa grave nel caso in cui, senza alcun dubbio, l’impugnazione viene utilizzata per una funzione diversa da quella che il legislatore le affida. cosi’ avviene, per esempio, qualora si presenti una impugnazione esclusivamente di merito dinanzi al giudice di legittimita’

La conclamata infondatezza (la “temerarieta’”) della prospettazione giuridica con cui si agisce o con cui ci si difende, vale a dire una inconsistenza giuridica percepibile che avrebbe dovuto indurre dal farla valere non rileva soltanto in relazione al diritto sostanziale, ma deve rapportarsi anche al rito processuale, e dunque a quanto concerne le modalita’ di proposizione del diritto sostanziale (per esempio, una rappresentazione del diritto sostanziale del tutto generica ed assertiva, priva di alcuna specifica illustrazione). Tutti aspetti che, ovviamente, sono ben idonei a riflettersi, previo il necessario accertamento su chi ha operato nel caso concreto le scelte abusive, sulla responsabilita’ professionale del difensore: nel caso in cui questa sussista e l’assistito agisca nei confronti del suo avvocato, viene a configurarsi – logico e inevitabile completamento del presidio posto dal legislatore a una corretta utilizzazione dello strumento processuale – una fattispecie di sanzione per via indiretta a carico della parte tecnica in forza di iniziativa della parte sostanziale (aspetto, questo, che non a caso riecheggia parzialmente l’altro affidamento all’iniziativa privata che si rinviene nell’articolo 96, comma 3, cioe’, come evidenziato dalla Corte Costituzionale, la riscossione ad opera della parte vittoriosa della sanzione dal suo avversario), cosi’ giungendo tendenzialmente a un pieno effetto deflattivo/preventivo di tutela dell’adeguato funzionamento del sistema giurisdizionale.

Suprema Corte di Cassazione

sezione III civile

sentenza 29 settembre 2016, n. 19285

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SPIRITO Angelo – Presidente
Dott. SESTINI Danilo – Consigliere
Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere
Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere
Dott. DEMARCHI ALBENGO Paolo Giovanni – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 21599/2013 proposto da:
(OMISSIS) (OMISSIS), considerato domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS), (OMISSIS) giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
AZIENDA OSPEDALIERA (OMISSIS), in persona del Direttore Generale pro tempore, Dott.ssa (OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS) giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2205/2013 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 11/06/2013;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/07/2016 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. BASILE Tommaso, che ha concluso per l’inammissibilita’ in subordine per il rigetto.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Con atto notificato il 17 febbraio 2011 l’Azienda Ospedaliera (OMISSIS) intimava a (OMISSIS) licenza per finita locazione, citando per la convalida davanti al Tribunale di Napoli, in relazione a un immobile sito in (OMISSIS) locato al (OMISSIS) dal Comune il 9 maggio 1991 in forza della L. n. 392 del 1978, con contratto rinnovatosi – poi assoggettato alla L. n. 431 del 1998 – fino alla scadenza dell’8 maggio 2011, contratto per cui l’intimante, subentrata al Comune per decreto della Giunta Regionale Legge Regionale n. 32 del 1994, ex articolo 26, gli aveva dato disdetta con raccomandata A.R. del gennaio 2010. Si opponeva il (OMISSIS), eccependo difetto di legittimazione del Comune a detenere un immobile di proprieta’ dell’ente soppresso “Ospedali Riuniti per (OMISSIS)”, in difetto di provvedimento della Regione che glielo avesse trasferito ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 833 del 1978, articolo 66, quarto comma. Il Tribunale di Napoli, con sentenza n. 13123/2012, dichiarava cessato il contratto locatizio in data 8 maggio 2011 e condannava il conduttore al rilascio, rigettandone la domanda riconvenzionale di accertamento della nullita’ del contratto. Avendo il (OMISSIS) proposto appello ed essendosi costituita controparte resistendo, la Corte d’appello di Napoli ha rigettato l’appello con sentenza del 21 maggio – 11 giugno 2013.
2. Ha presentato ricorso (OMISSIS), sulla base di cinque motivi,da cui si difende con controricorso l’Azienda Ospedaliera (OMISSIS).

MOTIVI DELLA DECISIONE

3. Il ricorso e’ manifestamente infondato.
3.1 Il primo motivo denuncia, ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione della L. n. 833 del 1978, articolo 66, comma 4, nonche’ dell’articolo 2697 c.c..
Si adduce che la L. n. 833 del 1978, articolo 66, comma 4, aveva reso necessario che le Regioni emettessero gli atti legislativi e amministrativi necessari per i trasferimenti dei beni; il ricorrente aveva contestato l’emanazione di atto amministrativo e comunque la sua esistenza quando fu stipulato il contratto di locazione in data 9 maggio 1991. La corte territoriale ha ritenuto che il DPGRC n. 3490/2000 abbia trasferito gli immobili dal Comune all’Azienda Ospedaliera, e cio’ presupponeva la pregressa proprieta’ del Comune: ma nulla potevasi presupporre e la proprieta’ deve essere provata per tabulas. Vi sarebbe quindi difetto di prova che sia avvenuto il passaggio in proprieta’ al Comune dell’immobile in questione.
Il giudice d’appello, a tacer d’altro, espressamente rileva anche che per stipulare il contratto di locazione non e’ necessario essere il proprietario del bene locato, in quanto, come gia’ osservato dal giudice di prime cure, “chiunque abbia la disponibilita’ di fatto di una cosa, in base a titolo non contrario a nome di ordine pubblico, puo’ validamente concederla in locazione, comodato o costituirvi altro rapporto obbligatorio ed e’ in conseguenza legittimato a richiederne la restituzione, allorche’ il rapporto venga a cessare” (motivazione, pagina 7). Cio’ e’ assorbente, e del tutto conforme all’insegnamento della giurisprudenza di questa Suprema Corte, per cui, appunto, nel contratto di locazione immobiliare puo’ essere locatore anche chi non sia proprietario dell’immobile, ma ne abbia soltanto la disponibilita’ di fatto, purche’ sulla base di un titolo non contrario all’ordine pubblico (v. Cass. sez 3, 20 agosto 2015 n. 17030; Cass. sez. 3, 22 ottobre 2014 n. 22346; Cass. sez. 3, 14 luglio 2011 n. 15443; Cass. sez. 3, 11 aprile 2006 n. 8411); ed essendo indiscusso che il contratto locatizio sia stato stipulato dal ricorrente come conduttore con il Comune di Napoli come locatore, e che quest’ultimo sia il dante causa, nel rapporto locatizio, dell’Azienda Ospedaliera (OMISSIS) che ha agito per la dichiarazione di cessazione del contratto e il rilascio dell’immobile, il motivo risulta chiaramente infondato.
3.2 Il secondo motivo denuncia, ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione degli articoli 115 e 421 c.p.c..
Secondo il ricorrente, l’Azienda Ospedaliera aveva esibito il DPRGC n. 3390/1982 quale atto di trasferimento solo all’udienza di discussione, e percio’ tardivamente, il che lo renderebbe inutilizzabile. Ne’ varrebbe qui il principio jura novit curia ex articolo 113 c.p.c., essendo tale decreto solo una fonte normativa subordinata. I giudici di merito avrebbero pertanto dovuto riconoscere che l’immobile originariamente apparteneva agli Ospedali Riuniti per (OMISSIS), e che soltanto con i DPGRC nn. 1316/1996 e 2230/1997 fu correttamente trasferito all’Azienda Ospedaliera. Ne conseguirebbe che ex articolo 66 I. 833/1978 avrebbe dovuto fondarsi l’eccezione di carenza della titolarita’ del bene in capo al Comune, con conseguente sua carenza di potere a stipulare il contratto di locazione.
Emerge con evidenza dal testo motivazionale che il giudice d’appello non ha violato le norme di rito invocate nella rubrica del motivo, bensi’ ha ritenuto (motivazione, pagina 6) che la produzione de qua all’udienza di discussione di primo grado non fosse rilevante, perche’ la prova della proprieta’ del Comune era “gia’ derivante dal disposto della L. n. 833 del 1978, e della L. Regionale di attuazione (L. n. 32 del 1994): e cio’ e’ sufficiente per constatare l’infondatezza del motivo. Meramente ad abundantiam si osserva poi che non e’ ravvisabile l’interesse del ricorrente alla proposizione del presente motivo, perche’, per quanto si e’ gia’ esposto a proposito del motivo precedente, il contratto locatizio puo’ essere stipulato anche se il locatore non e’ proprietario.
3.3 Il terzo motivo denuncia violazione ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, degli articoli 115 e 421 c.p.c., in quanto la questione oggetto del secondo motivo non poteva essere risolta dal giudice d’appello mediante scienza personale, ne’ sarebbe applicabile per la natura del DPGRC l’articolo 113 c.p.c.; d’altronde deve decidersi iuxta alligata et probata.
Si tratta, evidentemente, di una riproposizione della doglianza precedente, che si tenta di differenziare con il riferimento alla scienza personale – la cui utilizzazione avrebbe condotto alla violazione del principio per cui la decisione deve formarsi iuxta alligata et probata -, scienza privata di cui peraltro non si ravvisa nella motivazione alcuna traccia, avendo la corte territoriale fatto riferimento, come si e’ visto, direttamente alla L. n. 833 del 1978, e alla legge regionale di attuazione. Vale per il resto quanto gia’ osservato a proposito dei due precedenti motivi.
3.4 Il quarto motivo denuncia violazione ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, di L. n. 2248 del 1865, e di Regio Decreto n. 2440 del 1223, per avere ritenuto il giudice d’appello che il principio per cui chi non e’ proprietario e’ comunque legittimato a stipulare il contratto di locazione si applica anche se il locatore e’ la pubblica amministrazione.
Si tratta di un asserto assolutamente generico, che non indica quale sarebbe in effetti la norma da cui trarre il divieto alla pubblica amministrazione di agire jure privatorum nella stipulazione di un contratto di locazione: dopo avere riconosciuto che “in ambito privatistico e’ vero che non necessariamente il locatore debba essere proprietario del bene (essendo necessaria la mera disponibilita’ dello stesso, sempre che non contraria a nome di ordine pubblico)”, il ricorrente ritorna alla tematica della mancata prova della proprieta’ o disponibilita’ dei Comune sull’immobile locato, per sostenere – e cio’ e’ ovviamente un argomento fattuale, in questa sede inammissibile – che il Comune “non aveva alcun titolo, ne’ e’ stato dimostrato che lo avesse” attinente l’immobile in questione. Il motivo risulta pertanto privo di consistenza.
3.5.1 Il quinto motivo denuncia violazione, ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, dell’articolo 112 c.p.c., e articolo 1372 c.c., per avere il giudice d’appello ritenuta legittima la condanna in primo grado dell’attuale ricorrente ex articolo 96 c.p.c., comma 3.
Va premesso che la corte territoriale, al riguardo, ha osservato che tale condanna “presuppone il requisito della mala fede o della colpa grave, ossia la rimproverabilita’ della condotta del soccombente” come nell’ipotesi di cui all’articolo 96 c.p.c., comma 1, ma non esige “la prova specifica del pregiudizio sofferto dalla parte a causa della lite temeraria subita, trattandosi di una condanna che puo’ essere emessa dal Giudice anche d’ufficio, sulla base degli elementi emersi all’esito del giudizio”. Infatti l’istituto presenta “una natura mista sanzionatoria risarcitoria, ove la liquidazione viene operata in via equitativa dal decidente, tenendo conto della gravita’ della colpa, dei presumibili pregiudizi arrecati alla controparte in ragione della natura, dell’oggetto della causa e della durata del processo, sia in termini di pregiudizio patrimoniale che non patrimoniale”: e nel caso di specie il giudice di prime cure aveva giustificato la condanna “ravvisando la malafede della parte soccombente nella contrapposizione evidente e deliberata tra le deduzioni difensive espresse nel presente giudizio e le difese espresse nel precedente giudizio cautelare, di cui la parte attrice ha allegato il ricorso introduttivo, avendo nel presente giudizio negato l’esistenza di un valido contratto di locazione e nel procedimento cautelare allegato la validita’ del medesime. E “non e’ affatto pertinente la censura dell’appellante di violazione dell’articolo 112 c.p.c., perche’ “il riferimento alla causa petendi del giudizio cautelare costituisce solo l’elemento fattuale addotto a riprova della malafede della parte ma non integra le ragioni del rigetto della domanda giudiziale di nullita’ avanzata nel presente giudizio”. (motivazione della sentenza impugnata, pagine 7-8).
3.5.2 Nel motivo in esame il ricorrente sembra non aver percepito il contenuto della motivazione appena sintetizzato, in quanto denuncia violazione degli articoli 112 e 1372 c.p.c., in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, asserendo che “nel caso di specie, in nulla avrebbe dovuto inferire” il procedimento cautelare, riferendosi al quale il giudice di primo grado e il giudice di secondo grado sarebbero entrambi “incorsi in un errore procedurale e di diritto”, violando l’articolo 112 c.p.c., in relazione all’articolo 1372 c.c..
In primo luogo sarebbe stato violato l’articolo 1372 c.c.: “Infatti, la Corte … ha dimenticato la circostanza che il Giudice deve osservare la corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, cosicche’, di fronte ad una richiesta di accertamento della nullita’ di un contratto, non puo’ fondare la sua decisione basandosi su una domanda di esecuzione del contratto medesimo, che la stessa parte abbia sollevato in un altro, diverso, giudizio” perche’ “non e’ sufficiente, ad inibire la potestas iudicandi, la mera allegazione della proposizione, da parte del (OMISSIS), di una domanda di esecuzione in altro e separato giudizio”.
Non si riesce, anzitutto, a comprendere come in questo ragionamento di natura processuale – a prescindere dalla sua fondatezza o meno – possa riscontrarsi una qualche pertinenza con la violazione dell’articolo 1372 c.c.. Comunque il ricorrente continua affermando che la corte territoriale avrebbe errato “proprio nel non essersi resa conto che, al momento della proposizione del ricorso cautelare richiamato in sentenza, la nullita’ del contratto di locazione del (OMISSIS) era stata solo eccepita, cosicche’ esisteva solo quale eccezione di parte”; e tuttavia la nullita’ va dichiarata dal giudice davanti al quale e’ eccepita, mentre, quando fu presentato il ricorso ex articolo 700 c.p.c., “non esisteva alcun provvedimento dichiarativo della nullita’ del contratto di locazione”: e “in difetto di tale pronuncia, ovvero in difetto di un accertamento della nullita’ del contratto, dichiarata con pronuncia capace di passare in giudicato, il contratto di locazione medesimo continuava ad esistere”, producendo effetti giuridici “tra cui quelli invocati dal (OMISSIS) nel procedimento cautelare”. Percio’ “non vi erano fondati motivi di diritto per rilevare la malafede processuale” e condannare il (OMISSIS) per “responsabilita’ processuale aggravata”.
Con questa – tutt’altro che limpida e lineare, lo si e’ gia’ notato anche a proposito dell’articolo 1372 c.c. – argomentazione, il ricorrente in effetti, come gia’ si accennava, non si rapporta al reale contenuto del vaglio del giudice d’appello sulla doglianza attinente la condanna ex articolo 96 c.p.c., comma 3. Non solo dell’articolo 1372 c.c., ma pure dell’articolo 112 c.p.c., non si ravvisa in tale vaglio alcuna traccia di violazione. Invero, la corte territoriale ha respinto l’asserto dell’appellante di violazione dell’articolo 112 c.p.c., sulla base del fatto che, come gia’ si e’ riportato, il riferimento alla causa petendi del giudizio cautelare era stato utilizzato dal giudice di prime cure esclusivamente come “elemento fattuale addotto a riprova della malafede della parte”: elemento, d’altronde, ictu ocuti consistente, poiche’ esternante la clamorosa contrapposizione delle linee difensive del (OMISSIS), ovvero la sua consapevolezza (id est la sua malafede nell’avvalersi degli strumenti giurisdizionali) della infondatezza di una delle due prospettazioni che egli stesso, come un Giano bifronte, aveva fatto valere, avendo dinanzi allo stesso Tribunale in un giudizio negato la validita’ del contratto di locazione, e nell’altro giudizio addotta la sua validita’. Il motivo, pertanto, non presenta alcun pregio.
In conclusione, quindi, il ricorso deve essere rigettato. A cio’ consegue la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese alla controricorrente, liquidate come da dispositivo.
6.1 Gli argomenti dei motivi, come si e’ visto manifestamente infondati, o perche’ ripetitivi di quanto era gia’ stato confutato dal giudice d’appello (cfr. Cass. sez. 6-3, ord. 18 novembre 2014 n. 24546, che rimarca la sussistenza della colpa grave ex articolo 96, comma 3, in grado di impugnazione – in quel caso era appello, ma cio’ non puo’ non valere anche per il ricorso per cassazione – quando chi ha impugnato “abbia insistito colpevolmente in tesi giuridiche gia’ reputate manifestamente infondate” dal giudice precedente oppure adducendo censure di tale inconsistenza giuridica che questa avrebbe potuto da lui essere percepita inducendolo a non impugnare), o perche’ assolutamente irrilevanti o assolutamente generici, o perche’, comunque, non rapportati all’effettivo contenuto della sentenza impugnata, dimostrano che la proposizione del ricorso per cassazione avverso tale sentenza ha integrato un abuso del diritto all’impugnazione, abuso che, per l’evidente inconsistenza appena rilevata di tutti i motivi, non puo’ che essere stato consapevole da parte del ricorrente, che pertanto ha agito con una impostazione di mala fede processuale (sull’abuso dello strumento processuale rispetto al quale rado dell’istituto di cui all’articolo 96, comma 3, e’ prevenire e comunque sanzionare cfr. la recentissima Cass. sez. lav. 19 aprile 2016 n. 7726 – che rimarca “le esigenze di deflazione del contenzioso pretestuoso” – e l’ancor piu’ significativa Cass. sez. 6-3, ord. 22 febbraio 2016 n. 3376 – la quale evidenzia come l’istituto in questione si correla “con il progressivo rafforzamento del ruolo di nomofilachia della Suprema Corte, nonche’ con il mutato quadro ordinamentale, quale desumibile dai principi di ragionevole durata del processo (articolo 111 Cost.), di illiceita’ dell’abuso del processo e di necessita’ di una interpretazione delle norme processuali che non comporti spreco di energie giurisdizionali”). La questione merita comunque qualche approfondimento.
6.2 Ferma, ovviamente, la distinzione tra esercizio del diritto processuale e abuso del diritto processuale (per cui non e’ certo identificabile l’abuso nella mera infondatezza della prospettazione – cfr. Cass. sez. 6 – 2, ord. 30 novembre 2012 n. 21570 -), tale discrimen deve concretizzarsi proprio nella presenza di malafede o colpa grave, non potendosi sostenere tenuto conto della tutela costituzionale e sovranazionale della fruizione della giurisdizione pubblica – che quel che e’ una vera sanzione discenda da una sorta di responsabilita’ oggettiva per l’esito sfavorevole del processo. Pur essendo stato l’istituto inserito nell’articolo 96 c.p.c., come comma 3 (dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, articolo 45, comma 12) con un riferimento connettivo all’articolo 91 c.p.c. – ovvero alla condanna alle spese per soccombenza che e’ divenuta sempre piu’ “oggettiva” nell’evoluzione del rito civile – e con un incipit che letteralmente avrebbe potuto svincolarlo dal presupposto della mala fede o della colpa grave di cui all’articolo 96, comma 1, o quanto meno dalla colpa semplice del comma 2, (“in ogni caso”), l’interpretazione si e’, infatti, orientata immediatamente e logicamente verso l’esigenza dell’elemento soggettivo, per non creare, appunto, una confusione tra l’esercizio del diritto e l’abuso del diritto, non omettendo altresi’ di considerare l’incidenza allo scopo del potere anche puramente officioso e quantitativamente discrezionale che l’istituto configura (sulla necessita’ dello stesso elemento soggettivo richiesto per la fattispecie del comma 1, si rimanda alla giurisprudenza gia’ citata, e in particolare a Cass. sez. 6 – 2, ord. 30 novembre 2012 n. 21570, per cui, appunto, la condanna ex articolo 96, comma 3, “presuppone l’accertamento della mala fede o colpa grave della parte soccombente, non solo perche’ la relativa previsione e’ inserita nella disciplina della responsabilita’ aggravata, ma anche perche’ agire in giudizio per far valere una pretesa che si rivela infondata non e’ condotta di per se’ rimproverabile”; e sulla stessa linea v. Cass. sez. 6 – 2, ord. 11 febbraio 2014 n. 3003).
Non si oppone a questo gia’ netto orientamento del giudice nomofilattico il giudice delle leggi con la recentissima sentenza del 26 giugno 2016 n. 152. Peraltro, essendo stata sollevata una questione di illegittimita’ costituzionale dal Tribunale di Firenze per essere la somma oggetto di sanzione destinata alla controparte, anziche’ allo Stato, la Corte Costituzionale esamina l’istituto dell’articolo 96 c.p.c., comma 3, facendone risaltare, in particolare, lo scopo pubblicistico che permane come fondante (va rimarcata la comunanza dell’impostazione con quella della gia’ citata Cass. sez. 6-3, ord. 22 febbraio 2016 n. 3376) nonostante la destinazione al privato della somma sanzionatoria. E quindi sottolinea che l’istituto introdotto dalla novella del 2009 “risponde ad una funzione sanzionatoria delle condotte di quanti, abusando del proprio diritto di azione e di difesa si servano dello strumento processuale a fini dilatori, contribuendo cosi’ ad aggravare il volume (gia’ di per se’ notoriamente eccessivo) del contenzioso e, conseguentemente, ad ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti”. La condanna d’altronde e’ adottabile anche d’ufficio, e cio’ “la sottrae all’impulso di parte e ne conferma, ulteriormente, la finalizzazione alla tutela di un interesse che trascende (o non e’, comunque, esclusivo) quello della parte stessa, e si cobra di connotati innegabilmente pubblicistici” per cui si tratta di una “condanna di natura sanzionatoria e officiosa…per l’offesa recata alla giurisdizione. Il che non e’ contraddetto, bensi’ e’ confermato, dal fatto che il pagamento della somma e’ previsto a favore della controparte: in questo, infatti, il giudice delle leggi riscontra una connessione “all’obiettivo di assicurare una maggiore effettivita’, ed una piu’ incisiva efficacia deterrente, allo strumento deflattivo apprestato da quella condanna”, sul presupposto che la parte vittoriosa possa, verosimilmente, provvedere alla riscossione della somma “in tempi e con oneri inferiori a quelli che graverebbero su di un soggetto pubblico”.
6.3 La ratio dell’istituto, dunque, puo’ definirsi assolutamente pubblicistica, come conferma d’altronde la natura sanzionatoria e non risarcitoria della condanna. Si tratta, invero, di un presidio del processo dal suo abuso, ovvero dalla lesione dell’interesse collettivo, id est pubblico, a un adeguato funzionamento del sistema giurisdizionale, che ovviamente si rispecchia sull’esigenza della ragionevole durata del processo. Dopo interventi sul rito in tal senso almeno parzialmente diretti del giudice ordinario, recuperando la ineludibile positivita’ della struttura decadenziale, un radicale revirement dell’impostazione e della concezione del processo civile e’ disceso infine in modo inequivoco dalla Legge costituzionale 23 novembre 1999 n.2, che, attraverso la novellazione dell’articolo 111 Cost., lo ha estratto dal miope liberismo delle scelte privatistiche (il potere dispositivo, ovvero, secondo una espressione piu’ sincera, il processo come gioco) per inserirlo, come in effetti non puo’ che essere, in una valenza pubblica, per cui il diritto al processo e i diritti nel processo trovano sempre confine non solo nei diritti della controparte, ma altresi’ nel diritto della collettivita’ a un sistema giurisdizionale efficiente e celere, e quindi non utilizzato in modo solo formalmente lecito ma in realta’ per obiettivi e con metodi sostanzialmente illeciti, cioe’ abusivi.
La tutela del processo in quanto strumento condiviso che lo Stato ora garantisce si e’ manifestata sia a livello giurisprudenziale (per cui l’abuso del processo si e’ identificato oramai nella utilizzazione di strumenti processuali per finalita’ eccedenti o deviate rispetto a quelle per cui li progetta il legislatore – il che il piu’ delle volte si concretizza nella parcellizzazione, o comunque nella dissezione processuale di un evento fattuale riconducibile ad una unita’ giuridica sostanziale – non solo alla luce del dovere alla solidarieta’, ma pure del principio del giusto processo, inteso precipuamente come effettivita’ della tutela giurisdizionale: da ultimo, Cass. sez. 6-2, 5 maggio 2016 n.9100, Cass. sez.1, 31 marzo 2016 n. 6277, Cass. sez. 6-2 18 marzo 2016 n. 5433, Cass. sez. lav., 11 marzo 2016 n.4867, Cass. sez. 6-3, ord. 22 febbraio 2016 n. 3376, Cass. sez. 6-2, 9 febbraio 2016 n. 2587, S.U. 16 gennaio 2015 n. 643, S.U. 18 novembre 2015 n. 23539, S.U. 15 maggio 2015 n. 9935, Cass. sez. 1, 13 febbraio 2015 n. 2949, Cass. sez. 1 30 aprile 2014 n. 9488, S.U. ord. 24 aprile 2014 n. 9251, Cass. sez. 3, 7 ottobre 2013 n. 22812, Cass. sez. 5, 2 ottobre 2013 n. 22502), sia a livello di legislazione ordinaria. Sotto questo aspetto vi e’ stato un crescendo, sia su un piano di automatismo – la gia’ accennata evoluzione della disciplina delle spese, che si e’ oggettivizzata in sintonia alla soccombenza con eliminazione quasi totale di un adeguamento compensativo al caso concreto -, sia su un piano diretto proprio al contenimento dell’abuso, cioe’ sanzionatorio. Essendo stata percepita la debolezza, allo scopo deflattivo, dell’articolo 96 c.p.c. – al primo comma di rara applicazione per l’esigenza probatoria -, si e’ introdotta una forma specifica per l’abuso nel grado di legittimita’ di piu’ agevole utilizzazione e gia’ sanzionatoria, seppure con il freno di un quantum predeterminato e contenuto (l’articolo 385 c.p.c., comma 4, che era stato aggiunto dal Decreto Legislativo 2 febbraio 2006, n. 40, articolo 13), per poi dilatare il presidio a tutto l’ambito del processo civile mediante appunto l’introduzione dell’articolo 96 c.p.c., comma 3, effettuata dalla stessa novella del 2009, la quale ha tolto dall’articolo 385 c.p.c., l’istituto prodromico che era stato previsto nel comma 4.
6.4 Quanto illustrato, ovviamente, non puo’ non incidere sulla natura dell’elemento soggettivo che, implicitamente ma inequivocamente, l’articolo 96, comma 3, richiede. Nella proposizione di una impugnazione, per identificarlo occorre parametrare il contenuto dell’atto impugnativo con il contenuto del provvedimento impugnato. Una riproposizione pedissequa di quanto era gia’ stato sottoposto al giudice che lo ha emesso, e che non si rapporta in modo specifico alle risposte di confutazione che il giudice ha fornito per opporre specifiche obiezioni a tali risposte che non consistano esclusivamente nella ripetizione di quanto gli era stato addotto gia’ di per se’ ha natura abusiva imperniata sulla mala fede, in quanto non tiene conto del fatto che l’impugnazione deve avere per oggetto il provvedimento impugnato, e non puo’ pretermetterlo. Quantomeno abuso con colpa grave, poi, deve riscontrarsi in una impugnazione che travisa un contenuto chiaro e lineare del provvedimento impugnato, attribuendo ad esso un contenuto diverso per sostenere la propria tesi di impugnante. E ancora, deve riconoscersi un abuso con mala fede o colpa grave nel caso in cui, senza alcun dubbio, l’impugnazione viene utilizzata per una funzione diversa da quella che il legislatore le affida. cosi’ avviene, per esempio, qualora si presenti una impugnazione esclusivamente di merito dinanzi al giudice di legittimita’ (cfr. in quest’ultimo senso la gia’ citata Cass. sez. 6 – 3, ord. 22 febbraio 2016 n. 3376). Infine, non puo’ non rilevare quel che e’ sempre stato il presupposto sotto il profilo soggettivo gia’ del primo comma dell’articolo 96, cioe’ la conclamata infondatezza (la “temerarieta’”) della prospettazione giuridica con cui si agisce o con cui ci si difende, vale a dire una inconsistenza giuridica percepibile che avrebbe dovuto indurre dal farla valere (cfr. ancora la gia’ citata Cass. sez. 6 – 3, ord. 18 novembre 2014 n. 24546, nonche’ Cass. sez. 3, 30 dicembre 2014 n. 27534 e Cass. sez. 6 – 3, 21 gennaio 2016 n. 1115): infondatezza che non rileva soltanto in relazione al diritto sostanziale, ma deve rapportarsi anche al rito processuale, e dunque a quanto concerne le modalita’ di proposizione del diritto sostanziale (per esempio, una rappresentazione del diritto sostanziale del tutto generica ed assertiva, priva di alcuna specifica illustrazione). Tutti aspetti che, ovviamente, sono ben idonei a riflettersi, previo il necessario accertamento su chi ha operato nel caso concreto le scelte abusive, sulla responsabilita’ professionale del difensore: nel caso in cui questa sussista e l’assistito agisca nei confronti del suo avvocato, viene a configurarsi – logico e inevitabile completamento del presidio posto dal legislatore a una corretta utilizzazione dello strumento processuale – una fattispecie di sanzione per via indiretta a carico della parte tecnica in forza di iniziativa della parte sostanziale (aspetto, questo, che non a caso riecheggia parzialmente l’altro affidamento all’iniziativa privata che si rinviene nell’articolo 96, comma 3, cioe’, come evidenziato dalla Corte Costituzionale, la riscossione ad opera della parte vittoriosa della sanzione dal suo avversario), cosi’ giungendo tendenzialmente a un pieno effetto deflattivo/preventivo di tutela dell’adeguato funzionamento del sistema giurisdizionale.
6.5 Nel caso in esame, quindi, si conferma quanto era gia’ stato preannunciato, e cioe’ la sussistenza della fattispecie di cui all’articolo 96, terzo comma, anche sotto il profilo del’elemento soggettivo attribuibile – nel senso appena precisato – al ricorrente. Infatti i primi tre motivi fingono di ignorare la questione, pur evidenziata dal giudice d’appello, della non necessita’ del diritto di proprieta’ in capo al locatore dell’immobile, intessendo una serie di argomentazioni non pertinenti e giungendo perfino ad attribuire alla corte territoriale un’utilizzazione della scienza privata di cui non si scorge traccia nell’impugnata sentenza. Il quarto motivo e’ affetto da una genericita’ assoluta, che lo inficia radicalmente dal punto di vista processuale. Il quinto motivo, infine, come sopra si e’ sintetizzato, offre delle argomentazioni del tutto prive di connessione con la tematica proposta (si pensi al riferimento all’articolo 1372 c.c.) e che pretermettono, se non travisano, il contenuto della motivazione che il giudice d’appello offre per confutare la doglianza corrispondente che era stata avanzata nel gravame di merito. Il ricorso, pertanto, integra un ingiustificato aggravamento del sistema giurisdizionale, suscitando un inutile spreco di tempo e di energie da parte del suddetto sistema, onde si ritiene di dovere applicare d’ufficio l’articolo 96, terzo comma, c.p.c..
Per quel che concerne, infine, il quantum della sanzione da irrogare (del tutto discrezionale, con l’unico limite all’equita’ che e’ rappresentato dalla ragionevolezza: Cass. sez. 6 – 2, ord. 30 novembre 2012 n. 21570), considerata la natura di eclatante eppur insistente infondatezza che connota il ricorso, e tenuto conto altresi’ dell’evidente scopo defatigatorio, si stima equo determinarlo nella misura di Euro 20.000.
Sussistono, infine, Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2012, ex articolo 13, comma 1 quater, i presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rifondere a controparte le spese processuali, liquidate in un totale di Euro 3200, di cui Euro 200 per esborsi, oltre gli accessori di legge.
Condanna altresi’ il ricorrente a pagare a controparte la somma di Euro 20.000 ex articolo 96 c.p.c., comma 3.

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