Corte di Cassazione, sezione III penale, sentenza 18 luglio 2017, n.35145

In tema di violenza sessuale, la persona offesa non deve versare necessariamente in uno stato di conclamata psicopatologia ma anche in una semplice condizione di menomazione dovuta sia a fenomeni patologici, permanenti o passeggeri di carattere organico e funzionale, e sia a traumi e fattori ambientali tali da incidere negativamente sulla formazione della personalità dell’individuo. È, dunque, richiesto che la vittima venga indotta all’atto sessuale mediante abuso della predetta condizione di inferiorità, atteso che in tale evenienza il consenso, pur apparentemente prestato in un contesto di assoluta libertà, è in realtà viziato da una assente o diminuita capacità di resistenza agli stimoli esterni. In particolare, l’induzione si realizza quando, con un’opera di persuasione spesso sottile o subdola, l’agente spinge o convince il partner a sottostare ad atti che diversamente non avrebbe compiuto; mentre l’abuso si verifica, a sua volta, quando le condizioni di menomazione sono strumentalizzate per accedere alla sfera intima della persona, la quale, versando in situazione di difficoltà, viene ad essere ridotta al rango di un mezzo per il soddisfacimento della sessualità altrui.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III PENALE

sentenza 18 luglio 2017, n.35145

 

Ritenuto in fatto

Con sentenza del Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Roma in data 22/06/2010, emessa all’esito di giudizio abbreviato, B.M. era stato condannato, con la diminuente per il rito, alla pena di due anni e sei mesi di reclusione in quanto riconosciuto colpevole del reato previsto dall’art. 609-bis, comma 2, n. 1 cod. pen., commesso in (omissis) , per avere avuto un rapporto sessuale completo con F.C. contro la volontà della medesima, abusando delle sue condizioni di inferiorità psichica in quanto ciò avveniva durante una seduta terapeutica a cui sottoponeva la F. in qualità di psicologo che l’aveva in cura.

In particolare, il primo giudice aveva ritenuto raggiunta la prova della colpevolezza dell’imputato sulla base delle dichiarazioni della persona offesa, ritenute sostanzialmente credibili, anche perché confermate dalle sommarie informazioni rese dalla teste C.D. , con la quale ella si era confidata, nonché dalla dott.ssa G.P. , ginecologa della A.s.l., alla quale la F. si era rivolta, raccontandole di avere avuto un rapporto sessuale non protetto con il proprio psicoterapeuta, senza coazione fisica, ma in quanto ‘vittima di plagio’. Il giudice ritenne che dalla posizione dominante che il terapeuta aveva nei confronti della sua paziente, ma anche dallo stato di torpore che la stessa aveva riferito e che era stato descritto anche da C.D. , dovesse ritenersi che la persona offesa si fosse trovata, nel frangente, in una condizione di inferiorità psichica, tale da viziare il consenso, apparentemente prestato, al rapporto sessuale.

Avverso la sentenza aveva proposto appello il difensore dell’imputato, deducendo, con un primo motivo, la mancanza della prova che l’atto sessuale fosse stato subito e non voluto. In particolare, l’appellante aveva sottolineato come C.D. avesse dichiarato che la F. le aveva raccontato del rapporto sessuale con il suo analista con molta naturalezza e che ella aveva cominciato a piangere solo quando la C. le aveva manifestato il suo disappunto. Inoltre, a riprova della scarsa attendibilità della F. , era stato posto in evidenza come la persona offesa aveva presentato la querela dopo tre mesi dei fatti e solo dopo essersi recata, più volte, presso un centro antiviolenza, che la assisteva con un proprio avvocato. Sotto altro profilo, fu sottolineata la scarsa verosimiglianza dell’ipotesi del plagio, genericamente affermata in sentenza, tanto più in assenza di un qualunque accertamento peritale in relazione alla presunta condizione d’inferiorità psichica in cui si sarebbe venuta a trovare la persona offesa di fronte al suo analista.

Da ultimo, l’appellante rilevò come il primo giudice avesse condannato l’imputato sulla base degli stessi elementi di prova che avevano indotto, da un lato, il Giudice per le indagini preliminari a rigettare la richiesta di ordinanza di custodia cautelare formulata dal Pubblico ministero e, dall’altro lato, il Tribunale del riesame a rigettare l’appello proposto da quest’ultimo.

Con sentenza in data 21/11/2014 la Corte di appello di Roma confermò integralmente la pronuncia di primo grado.

Avverso la sentenza di appello, lo stesso B. propone personalmente ricorso per cassazione, sintetizzabile nei termini che seguono, strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen..

4.1. L’impugnazione, formulata in maniera del tutto discorsiva, censura, con un primo articolato motivo, sostanzialmente riferibile alla lett. e) dell’art. 606, comma 1, cod. proc. pen., la mancanza assoluta di prova, contraddittorietà, travisamento, manifesta illogicità della motivazione della sentenza di secondo grado, che non si sarebbe adeguatamente confrontata con i motivi di gravame ed avrebbe fatto pedissequo rinvio alla pronuncia di prime cure.

4.2. Con un secondo motivo, B. lamenta l’omessa motivazione da parte della Corte territoriale in relazione al quarto motivo di appello, concernente la riduzione della pena inflitta e la concessione del beneficio della sospensione della pena. In particolare, i giudici di merito avrebbero dovuto quantomeno riconoscere la sussistenza dell’attenuante speciale prevista dall’ultimo comma dell’art. 609-bis cod. pen., dal momento che sulla persona offesa non sarebbe stata esercitata alcuna forma di violenza e nessun danno le sarebbe stato cagionato.

4.3. Infine, con un terzo motivo, il ricorrente deduce l’omessa motivazione in ordine alla eccezione formulata dal difensore sia nell’atto d’appello, sia in udienza, in relazione all’inosservanza, da parte del P.M., delle prescrizioni concernenti l’avviso della conclusione delle indagini preliminari come fissate dall’art. 415-bis, comma 1 in relazione all’art. 416, comma 1, cod. proc. pen..

Considerato in diritto

Preliminarmente deve essere rigettata la richiesta di rinvio presentata dal difensore di fiducia dell’imputato. L’avviso di fissazione dell’udienza è stato ritualmente e tempestivamente notificato; e, inoltre, non è stato documentato alcun insuperabile impedimento alla partecipazione dell’imputato e del suo difensore all’udienza odierna (v. richiesta in atti).

Nel merito il ricorso è infondato.

In premessa è opportuno ricordare, in sintesi, il percorso motivazionale seguito dalla sentenza impugnata in relazione all’affermazione di responsabilità dell’imputato.

I giudici di appello, dopo avere richiamato i principi della giurisprudenza di questa Corte in materia di valutazione delle dichiarazioni della persona offesa (in argomento v. infra § 6.2), hanno innanzitutto descritto l’azione delittuosa, secondo il puntuale racconto della vittima, la quale ha riferito come il psicoterapeuta avesse manifestato, sin dall’inizio del loro rapporto, un atteggiamento insinuante, volto a creare una situazione di intimità, dapprima inducendola a mostrargli praticamente come effettuava i massaggi, lavorando la donna come fisioterapista, per poi toccarle, in un’occasione, il seno. Infine, il (OMISSIS), l’uomo le aveva messo, sin dall’inizio della seduta, una mano sulle ginocchia, quindi l’aveva sorpresa facendola repentinamente sdraiare sul divano e congiungendosi carnalmente con lei, senza che i due si spogliassero, avendo lei ancora indosso la gonna ed essendosi l’imputato limitato ad abbassarsi i boxer.

Quindi, la Corte territoriale ha posto in luce come l’atto sessuale, pacifico nel suo verificarsi, fosse stato caratterizzato solo apparentemente dal consenso della persona offesa, la quale in realtà aveva subito un vulnus della sua sfera volitiva.

Ciò in quanto la relazione tra psicologo/psicoterapeuta e paziente aveva certamente generato ‘confusione nella persona offesa, per la difficoltà di distinguere la natura meramente sessuale dell’approccio dello psicologo con la terapia in corso’; sicché del tutto comprensibile e ragionevole doveva ritenersi il suo racconto nella parte in cui era emerso che ella avesse realizzato la violazione della propria sfera intima soltanto in occasione del successivo confronto con l’amica C.D. , avvenuto a distanza di qualche giorno. Ciò che del resto la persona offesa aveva rappresentato alla dott.ssa G.P. , ginecologa della ASL Roma X), la quale aveva confermato, a sommarie informazioni, che la F. le aveva detto di aver avuto un rapporto sessuale completo con il suo psicoterapeuta ‘senza usare violenza fisica, ma sicuramente contro la sua volontà’, mostrandosi preoccupata per le possibili affezioni che poteva aver eventualmente contratto.

A ulteriore conferma del racconto della persona offesa, i giudici di appello hanno rilevato che costei aveva cancellato i successivi appuntamenti, già calendarizzati, con lo psicoterapeuta e come nel riferire le circostanze dell’abuso ella non avesse riportato circostanze ‘esagerate’, limitandosi a descrivere ‘la condizione di una paziente attonita per quanto stava accadendo ed alla quale l’imputato lasciava credere che si trattasse di parte integrante della terapia che stava svolgendo’.

Su tali basi, dunque, i giudici di appello hanno ritenuto che l’imputato, ‘utilizzando subdolamente la sua posizione di psicoterapeuta (…) ed approfittando di tale condizione per accedere alla sfera intima della persona offesa’ nonché ‘della condizione di inferiorità psichica risultante dalla stessa richiesta all’accesso alle cure dello psicoterapeuta e dal rapporto di soggezione tra paziente e terapeuta’, abbia posto in essere una condotta tale da indurre la F. ‘a soggiacere rispetto al rapporto sessuale, minandone la capacità di reazione e di opposizione’, in questo modo rimanendo integrato, a cagione della indubbia violazione della libertà sessuale della donna, il reato in contestazione. A tal fine, la Corte territoriale ha richiamato la giurisprudenza di questa Corte secondo cui la condizione di inferiorità psichica della vittima al momento del fatto prescinde da fenomeni di patologia mentale, in quanto è sufficiente ad integrarla la circostanza che il soggetto passivo versi in condizioni intellettive e spirituali di minore resistenza all’altrui opera di coazione psicologica o di suggestione.

E su tali basi i giudici di appello hanno concluso che la minore capacità della vittima di esprimere efficacemente il proprio dissenso fosse stata generata dalla fragilità psicologica che l’aveva indotta a richiedere il sostegno del terapeuta;

dalle modalità improprie ed induttive con le quali si era svolta la terapia nei due mesi che precedettero il fatto in contestazione; dall’affidamento della F. nei confronti del terapeuta per i miglioramenti che aveva registrato nel suo rapporto di coppia; dal rapporto di soggezione che normalmente si instaura tra lo psicoterapeuta ed il paziente, connesso all’accesso alla sfera dei sentimenti più intimi di quest’ultimo.

Tanto premesso, deve osservarsi che censure articolate con il primo motivo di ricorso si appuntano, sotto differenti angoli prospettici, proprio sulle dichiarazioni rese da F.C. , che costituiscono, effettivamente, l’architrave del ragionamento probatorio dei giudici di merito, rispetto alle quali gli ulteriori elementi probatori, ivi comprese le dichiarazioni delle testimoni de relato, G.P. e C.D. , fungono sostanzialmente, come osservato dallo stesso ricorrente, da elementi di riscontro.

5.1. Sotto un primo profilo, il ricorrente deduce che le dichiarazioni della stessa F. siano state travisate dalla Corte di appello innanzitutto con riferimento al ‘plagio’ cui ella sarebbe stata sottoposta dal terapeuta. La sentenza, infatti, avrebbe riportato che la F. aveva riferito alla dott.ssa G. di essere stata ‘vittima di plagio’, laddove i giudici di appello avrebbero dovuto, in realtà, specificare che la persona offesa non aveva realizzato in prima persona di essere stata ‘plagiata’, quanto piuttosto che questa era stata l’interpretazione data da C.D. , la quale, influenzandola in maniera decisiva, le aveva offerto la sua personale chiave di lettura dell’accaduto, convincendola, poi, a rivolgersi a un centro antiviolenza.

5.2. Sotto altro aspetto, il ricorrente rileva che le dichiarazioni della persona offesa presentino marcate discrasie rispetto al racconto reso a sommarie informazioni da C.D. . Ciò in quanto mentre nella denuncia la persona offesa avrebbe asserito di avere ‘pianto tanto disperatamente’, avendo finalmente preso coscienza di quanto accaduto, nel verbale di sommarie informazioni relativo alle dichiarazizoni rese dalla stessa C. , la F. aveva rivelato ‘come se fosse la cosa più normale di questo mondo che lo psicoterapeuta a cui si era rivolta aveva avuto con lei un rapporto sessuale completo’.

5.3. Inoltre, le dichiarazioni rese dalla persona offesa presenterebbero profili di franca inverosimiglianza, sicché la ricostruzione offerta dai giudici di merito, che a tali dichiarazioni avrebbe prestato integralmente credito, sarebbe inficiata da una manifesta illogicità.

Sarebbe, infatti, inverosimile che la F. , alla quale, secondo il suo stesso racconto, B. aveva toccato il seno in una occasione precedente, avesse acconsentito a incontrare nuovamente il terapeuta; e, soprattutto, che la donna avesse subito le ulteriori avances senza respingerle decisamente ed anzi, fissando, dopo il rapporto sessuale, un nuovo appuntamento. Pertanto, la mancata reazione sarebbe, in realtà, frutto di un libero consenso, posto che ‘le donne nei primi approcci assumono un comportamento falsamente passivo, perché il gioco delle parti, ereditato dalle madri, questo imponeva alle fanciulle’ (così l’imputato a foglio 5 del ricorso per cassazione). Ed anzi, proprio dal fatto che in precedenza l’imputato ‘le aveva toccato il seno’ ella avrebbe dovuto trarre ‘un segnale inequivocabile che non poteva generare in lei alcuna confusione’: ovvero che l’approccio del terapeuta aveva proprio una natura sessuale, sicché ove ella non avesse voluto accettarlo avrebbe dovuto chiaramente rifiutarlo.

5.4. La ricostruzione offerta dalle due sentenze di merito è poi fatta oggetto di serrate critiche in relazione alla asserita mancanza di elementi di riscontro.

Ciò in quanto, sotto un primo aspetto, l’istuttoria sarebbe stata largamente incompleta, non essendo stata assunta la testimonianza del coniuge della persona offesa, P.M. , dello psicologo R.M. che aveva avuto un colloquio con lei ‘per un pomeriggio intero’, dell’assistente sociale S.M. , parte del Consultorio dell’ASL di Roma X), con la quale aveva avuto un colloquio preliminare; delle operatrici del Centro Vittime di Violenza di Viale di (omissis) a cui la C. l’aveva indirizzata.

Sotto altro profilo, nessuna valenza i giudici avrebbero dovuto riconoscere all’esposto che alcuni giovani avevano presentato contro B. al Consiglio dell’Ordine degli Psicologi di Roma, nel quale si riferiva che, in occasioni delle sedute terapeutiche tenute dall’imputato, ‘i racconti dei vissuti personali venivano espressi in psicodinamiche caratterizzate comunque da una forte fisicità, estremizzati e da scontri violenti e dalla simulazione di amplessi di coppia e di gruppo’. Infatti, rileva il ricorrente che, in realtà, l’esposto non aveva avuto seguito e che la sua successiva sospensione dall’ordine professionale era stata disposta a causa del mancato versamento dei contributi previdenziali e non per ragioni schiettamente disciplinari legati a quella vicenda.

5.5. Quanto poi alla dimostrazione della condizione di inferiorità psichica della persona offesa e, corrispondentemente, della posizione dominante del terapeuta nei confronti della paziente, la sentenza avrebbe apoditticamente motivato sul punto rilevando che B. si poneva, nei confronti della donna, in un modo ‘molto aperto e amichevole’ e soprattutto sottolineando il dato relativo allo stato di torpore della donna successivo al rapporto sessuale, riferito anche da C.D. ed evocato, secondo il ricorrente in maniera suggestiva, dalla Corte territoriale. Invero, non avendo la F. assunto, per sua stessa ammissione, alcun medicinale, il riferimento della C. allo stato di torpore da cui la F. si sarebbe risvegliata a seguito del suo rimprovero, dovrebbe essere inteso come semplice presa di coscienza, da parte della persona offesa, della gravità dell’accaduto una volta l’amica le aveva mostrato il suo disappunto per il comportamento tenuto con il suo terapeuta.

Sotto altro aspetto, la Corte territoriale avrebbe omesso di confrontarsi con le argomentazoni del Tribunale del riesame di Roma che aveva respinto l’appello del Pubblico ministero avverso il rigetto della richiesta di applicazione della custodia cautelare da parte del Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma per mancanza dei gravi indizi di colpevolezza, motivata, tra l’altro, con la ‘assenza di più puntuali circostanziali dichiarazioni della denunciante, di approfondimenti sulla personalità della stessa, di assunzione di informazioni anche dal marito della stessa sulle modalità e tecniche di conduzione delle sedute’.

In particolare, le sentenze avrebbero rifiutato di accedere alla più plausibile spiegazione dell’accaduto: ovvero che la donna aveva, come da lei ammesso, instaurato un rapporto molto amichevole con B. , differente da quello consueto tra terapeuta e paziente; che ella aveva avuto con l’imputato un rapporto sessuale pienamente consenziente e che era stata indotta a sporgere querela, dopo molti mesi dall’accaduto, successivamente ai contatti occorsi, su suggerimento della C. , con il centro antiviolenza e, dunque, in quanto indottavi, in qualche modo, dal timore di essere etichettata negativamente da parte di quanti erano venuti a conoscenza dell’accaduto.

Le doglianze svolte dall’imputato non colgono, tuttavia, nel segno.

6.1. Giova in premessa ribadire, quanto ai limiti del sindacato consentito al giudice di legittimità in materia di prova dichiarativa, che alla Corte di cassazione è preclusa la possibilità non solo di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi, ma anche di saggiare la tenuta logica della pronuncia portata alla sua cognizione mediante un raffronto tra l’apparato argomentativo che la sorregge ed eventuali altri modelli di ragionamento mutuati dall’esterno (Sez. Un., n. 12 del 31/05/2000, Jakani, Rv. 216260; in termini v. Sez. 2, n. 20806 del 5/05/2011, Tosto, Rv. 250362). Resta, dunque, esclusa, pur dopo la modifica dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa lettura, sia pure anch’essa logica, dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o comunque di attendibilità delle fonti di prova (Sez. 3, n. 12226 del 22/01/2015, G.F.S., non massimata; Sez. 3, n. 40350, del 5/06/2014, P. civ. C.C. in proc. M.M., Rv. non massimata; Sez. 3, n. 30908 del 3/06/2014, I.S., Rv. non massimata; Sez. 3, n. 13976 del 12/02/2014, da P.G., Rv. non massimata; Sez. 2, n. 7380 in data 11/01/2007, Messina ed altro, Rv. 235716).

In questa prospettiva, vanno, dunque, respinte le argomentazioni difensive attraverso le quali il ricorrente cerca di offrire una spiegazione alternativa rispetto a quella offerta dalle sentenze di merito, presentandola come maggiormente plausibile sul piano del ‘senso comune’ o come fornita, secondo l’id quod plerumque accidit, di una maggiore persuasività, dovendo il controllo del giudice di legittimità cimentarsi, precipuamente, sulla tenuta logica della scelta operata, in sede di valutazione della prova, da parte del giudice di merito.

E ad analogo esito deve pervenirsi in relazione all’asserito travisamento della prova, che nel caso di cd. doppia conforme può essere dedotto, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., unicamente ove il ricorrente rappresenti – con specifica deduzione – che il dato probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado, non potendo essere superato il limite costituito dal devolutum con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice d’appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice (Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 20/02/2017, La Gumina e altro, Rv. 269217; Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014, dep. 3/02/2014, Del Gaudio e altri, Rv. 258774; Sez. 4, n. 4060 del 12/12/2013, dep. 29/01/2014, Capuzzi e altro, Rv. 258438; Sez. 4, n. 5615 del 13/11/2013, dep. 4/02/2014, Nicoli, Rv. 258432; Sez. 4, n. 19710 del 3/02/2009, dep. 8/05/2009, P.C. in proc. Buraschi, Rv. 243636; Sez. 1, n. 24667 del 15/06/2007, dep. 21/06/2007, Musumeci, Rv. 237207; Sez. 2, n. 5223 del 24/01/2007, dep. 7/02/2007, Medina ed altri, Rv. 236130; Sez. 2, n. 318 del 21/12/2006, dep. 10/01/2007, Conte, Rv. 235690; Sez. 2, n. 42353 del 12/12/2006, dep. 22/12/2006, P.M. in proc. De Luca ed altri, Rv. 235511; Sez. 2, n. 38788 del 9/11/2006, dep. 22/11/2006, Levante, Rv. 235509; Sez. 2, n. 35194 del 5/10/2006, dep. 19/10/2006, De Matteo e altri, Rv. 234915).

Nel caso di specie, invece, il giudice di appello ha riesaminato lo stesso materiale probatorio già sottoposto al tribunale e, dopo avere preso atto delle censure dell’appellante, è giunto alla medesima conclusione in ordine all’affermazione di responsabilità.

Ne consegue che deve ritenersi inammissibile il primo motivo di ricorso nella parte in cui è stato dedotto che le dichiarazioni della persona offesa sarebbero state travisate dalla Corte di appello con riferimento al ‘plagio’ cui ella sarebbe stata sottoposta dal terapeuta. In ogni caso è appena il caso di osservare che il travisamento della prova consiste nella utilizzazione di un’informazione inesistente nel materiale processuale ovvero nella omessa valutazione di una prova decisiva, quando siano idonee a disarticolare l’intero ragionamento probatorio; e che nel caso di specie, in realtà, il supposto travisamento consisterebbe nella mancata esplicitazione, nella narrativa relativa al giudizio di primo grado, del fatto che la consapevolezza del cd. plagio non sarebbe stato il frutto di una autonoma acquisizione della persona offesa, quanto dell’induzione di C.D. : circostanza, questa, pacificamente emersa nel corso del giudizio ed oggetto di puntuale valutazione da parte della Corte di appello. Ne consegue che, in ogni caso, la censura difensiva è, anche nel merito, manifestamente infondata, difettando, nella specie, i ricordati requisiti del travisamento della prova, anche sotto il profilo della decisività dell’asserito errore.

6.2. Sotto altro profilo, occorre ricordare l’orientamento, ormai consolidato in seno alla giurisprudenza di legittimità, concernente i criteri di valutazione della testimonianza delle persone offese in materia di reati sessuali.

In argomento, questa Corte ha ripetutamente affermato che la deposizione della persona offesa possa configurarsi, nel vigente ordinamento processuale, come ‘prova piena’, come tale non necessitante di alcun elemento di riscontro, diversamente dalle dichiarazioni degli ordinari testimoni, cui si applica il più rigoroso regime stabilito dall’art. 192, comma 3 cod. proc. pen..

Tale peculiare disciplina costituisce un riflesso del dato, tratto dalla comune esperienza giudiziaria, per cui in genere la vittima delle condotte di abuso sessuale costituisce l’unico testimone del reato, consumandosi la violenza spesso tra le mura domestiche, e comunque in contesti riservati e inaccessibili a terzi spettatori. E quando l’abuso viene realizzato senza l’esercizio di una brutale forza fisica, è frequente che non residuino tracce materiali del vulnus patito dalla persona offesa.

Tuttavia, proprio in ragione del particolare regime che caratterizza lo statuto dichiarativo della vittima di reati sessuali (o comunque riferibili alla categoria criminologica della violenza di genere), la giurisprudenza di questa Corte ha sempre ribadito la necessità di riservare una spiccata attenzione, da parte del giudice, ai racconti della persona offesa, vagliandone scrupolosamente la credibilità soggettiva e l’attendibilità del narrato, in specie quando vi sia stata la costituzione di parte civile e, dunque, l’astratta possibilità di uno specifico interesse al riconoscimento della responsabilità dell’imputato (Sez. 2, n. 43278 del 24/09/2015, dep. 27/10/2015, Manzini, Rv. 265104; Sez. 5, n. 1666 del 8/07/2014, dep. 14/01/2015, Pirajno e altro, Rv. 261730; Sez. Un., n. 41461 del 19/07/2012, dep. 24/10/2012, Bell’Arte ed altri, Rv. 253214).

6.2.1. Consegue a tale premessa concettuale l’infondatezza delle censure mosse al ragionamento probatorio svolto dai giudici di merito in relazione alla attendibilità della persona offesa.

Sotto un primo profilo, infatti, non è dato ravvisare alcuna incompatibilità logica tra il ‘pianto disperato’ riferito dalla persona offesa in sede di denuncia e il racconto della C. contenuto nel verbale di sommarie informazioni, ove la persona informata sui fatti aveva riferito della naturalezza con la quale la F. le aveva rivelato di avere avuto un rapporto sessuale completo con lo psicoterapeuta. Ciò per l’evidente sfasatura temporale tra i due momenti in questione, essendo pacificamente emerso che in un primo momento la F. aveva raccontato l’episodio, secondo quanto riferito dall’amica, ‘come se fosse la cosa più naturale di questo mondo’; e che solo successivamente, preso coscienza dell’accaduto, aveva invece, come svegliandosi da uno stato di ‘torpore’, compreso il significato del comportamento dello psicoterapeuta, palesando, anche con il pianto, una piena partecipazione emotiva rispetto all’accaduto.

Parimenti infondate sono, poi, le argomentazioni difensive in merito alle supposte incongruenze logiche nel racconto della F. , in relazione alla mancanza di un gesto di franca opposizione agli approcci posti in essere da B. , già prima dell’abuso in contestazione.

Anche in relazione a tale profilo, infatti, le sentenze hanno fornito ampia e logica spiegazione delle dinamica psicologica che aveva portato al progressivo disvelamento dell’accaduto e del contesto ‘confusivo’, connotato dalla indistinta percezione del ruolo assunto da B.M. , in cui erano avvenuti i menzionati approcci; ciò che aveva indotto la F. a non interrompere la relazione terapeutica a partire dalle insinuanti condotte del terapeuta e, finanche, a fissare un nuovo appuntamento pur dopo il rapporto sessuale avuto con lui, salvo successivamente disdirlo.

Né può accedersi alla tesi difensiva in ordine alla asserita mancanza di elementi di riscontro alle dichiarazioni della persona offesa, che i giudici di merito hanno motivatamente rinvenuto nelle testimonianze de relato della C. e della ginecologa della A.s.l., le quali, pur non essendo ovviamente state presenti al momento del fatto, hanno fornito un contributo determinante ai fini della ricostruzione del descritto processo di acquisizione di consapevolezza di quanto accaduto, maturato dalla persona offesa.

A fronte di un percorso logico-argomentativo coerente e immune da cesure del tessuto logico da parte delle sentenze di merito, si rivela infondata anche l’ulteriore doglianza, con la quale il ricorrente lamenta una presunta incompletezza del compendio istruttorio, che avrebbe potuto essere arricchito dalla escussione di soggetti in grado di riferire su circostanze rilevanti: dal coniuge della F. , P.M. , allo psicologo R.M. , sull’assistente sociale S.M. , alle operatrici del Centro Vittime di Violenza di Viale (omissis) . Possibili testimonianze, queste, invocate dal ricorrente in maniera del tutto generica, senza fare alcun riferimento alle decisive circostanze di fatto che le stesse avrebbero consentito di acquisire al materiale processuale, il cui arricchimento è stato peraltro precluso dalla legittima scelta, maturata dall’imputato, di accedere ad un rito a prova contratta come il giudizio abbreviato. Anche tale censura, dunque, deve essere rigettata.

6.3. Le considerazioni che precedono vanno raccordate, sul piano logico-ricostruttivo, con il profilo concernente la realizzazione dell’atto sessuale ‘abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto’, secondo lo schema contemplato dall’art. 609-bis, comma 2, n. 1 cod. pen..

Tale fattispecie era stata introdotta dall’art. 3 della legge 15 febbraio 1996, n. 66 al fine di eliminare la fattispecie autonoma della violenza carnale presunta in danno dei malati di mente o dei soggetti che versassero, comunque, in condizioni di inferiorità psichica, originariamente contemplata dall’art. 519 cod. pen., consentendo anche a tale categoria di persone la possibilità di piena realizzazione della loro personalità, anche sotto il profilo sessuale (Sez. 3, n. 12110 del 24/09/1999, dep. 22/10/1999, Cosentino, Rv. 214557).

Per effetto della nuova formulazione del delitto in esame, dunque, l’intervento punitivo consegue non già da un automatismo derivante dalla malattia mentale della vittima, quanto dal fatto che la persona offesa, la quale non deve versare necessariamente in uno stato di conclamata psicopatologia ma anche in una semplice condizione di menomazione dovuta sia a fenomeni patologici, permanenti o passeggeri, di carattere organico e funzionale, sia a traumi e fattori ambientali tali da incidere negativamente sulla formazione della personalità dell’individuo (cfr. Sez. 3, n. 4114 del 3/12/1996, dep. 15/02/1997, Pennese, Rv. 207326), venga indotta all’atto sessuale mediante abuso della predetta condizione di inferiorità, atteso che in tale evenienza il consenso, pur apparentemente prestato in un contesto di assoluta libertà, è in realtà viziato da una assente o diminuita capacità di resistenza agli stimoli esterni (Sez. 3, n. 15910 del 12/02/2009, dep. 16/04/2009, Figus ed altro, Rv. 243403). In particolare, l’induzione si realizza quando, con un’opera di persuasione spesso sottile o subdola, l’agente spinge o convince il partner a sottostare ad atti che diversamente non avrebbe compiuto; mentre l’abuso si verifica, a sua volta, quando le condizioni di menomazione sono strumentalizzate per accedere alla sfera intima della persona, la quale, versando in situazione di difficoltà, viene ad essere ridotta al rango di un mezzo per il soddisfacimento della sessualità altrui (Sez. 4, n. 14141 del 22/02/2007, dep. 5/04/2007, Piras e altro, Rv. 236202; Sez. 3, n. 47453 del 6/11/2003, dep. 11/12/2003, Ungaro, Rv. 226676; Sez. 3, n. 11541 del 3/06/1999, dep. 11/10/1999, Bombaci L e altri, Rv. 215150; Sez. 3, n. 4426 del 28/02/1997, dep. 13/05/1997, Masu, Rv. 208453; Sez. 3, n. 4114 del 3/12/1996, dep. 15/02/1997, Pennese, Rv. 207328).

In sintesi, la norma in esame punisce come delitto il rapporto sessuale caratterizzato da un ‘qualificato differenziale di potere’ conseguente alla strumentalizzazione della condizione di inferiorità del soggetto più debole (Sez. 3, n. 2215 del 2/12/2005, dep. 19/01/2006, Cannatella ed altri, Rv. 233269; Sez. 3, n. 1346 del 19/11/1997, dep. 5/02/1998, Tomasello, Rv. 209818), con conseguente sfruttamento delle sue condizioni di minorata capacità di resistenza o di comprensione della natura dell’atto, tali da alterare la genuinità del consenso in ipotesi prestato (Sez. 3, n. 20766 del 14/04/2010, dep. 3/06/2010, T. e altro, Rv. 247655; Sez. 3, n. 33761 del 9/05/2007, dep. 3/09/2007, Venturini, Rv. 237398, relativa a una fattispecie nella quale la persona offesa, convinta che il suo stato di depressione ansiosa dipendesse da un sortilegio, era stata indotta dall’imputato ad un rapporto sessuale sul presupposto che ciò fosse necessario per contrastare il maleficio; v. anche Sez. 3, n. 24212 del 21/04/2004, dep. 27/05/2004, P.G. in proc. Piras, Rv. 228697), senza che peraltro sia necessario che l’induzione determini un inganno della vittima (Sez. 3, n. 32971 del 8/07/2005, dep. 7/09/2005, Marino, Rv. 232184).

Minorata capacità di resistenza che, come detto, secondo la giurisprudenza di questa Corte, prescinde da fenomeni di patologia mentale, in quanto è sufficiente ad integrarla la circostanza che il soggetto passivo versi in condizioni intellettive e spirituali di minore resistenza all’altrui opera di coazione psicologica o di suggestione, anche se dovute ad un limitato processo evolutivo mentale e culturale (Sez. 3, n. 38261 del 20/09/2007, dep. 17/10/2007, Fronteddu, Rv. 237826) e finanche collegate a situazioni transitorie, come nel caso in cui le condizioni di ‘inferiorità psichica’ derivino dall’ingestione di alcolici o all’assunzione di stupefacenti (Sez. 3, n. 39800 del 21/06/2016, dep. 26/09/2016, C., Rv. 267757; Sez. 3, n. 38059 del 11/07/2013, dep. 17/09/2013, C., Rv. 257374; Sez. 3, n. 1183 del 23/11/2011, dep. 16/01/2012, E., Rv. 251803).

6.3.1. Nel caso di specie, la sentenza impugnata ha puntualmente posto in luce gli elementi che, con motivazione pienamente congrua sotto il profilo logico, sono stati ritenuti indicativi per un verso di uno stato di minore resistenza della F. alle suggestioni indotte dal contesto della relazione con B. , apparentemente connotata in senso terapeutico ma in realtà interessata dalle subdole manovre seduttive dallo stesso agite, e per altro verso della consapevole strumentalizzazione della descritta condizione di fragilità psico-emotiva della donna, in grado di incidere sulla genuinità del consenso apparentemente prestato, anche per la repentinità dell’azione posta in essere (cfr. Sez. 3, n. 37166 del 18/05/2016, dep. 7/09/2016, B e altri, Rv. 268311, relativa al caso dell’abuso sessuale commesso da uno psicologo nei confronti di alcune pazienti, in condizioni di inferiorità psichica, cui veniva indotta la convinzione che le pratiche sessuali fossero necessarie alla guarigione).

Pertanto, anche le censure relative al profilo in esame devono essere respinte, in quanto infondate.

Il secondo motivo di ricorso, con il quale B. lamenta l’omessa motivazione da parte della Corte territoriale in relazione alla riduzione della pena inflitta e alla concessione del beneficio della sospensione della pena, è parimenti infondato.

Nel dettaglio, come detto, il ricorrente si duole, fondamentalmente, del mancato riconoscimento dell’attenuante speciale di cui all’art. 609-bis, ultimo comma, cod. pen., a suo giudizio concedibile in quanto sulla persona offesa non sarebbe stata esercitata alcuna forma di violenza e nessun danno le sarebbe stato cagionato.

In argomento occorre, nondimeno, ricordare l’orientamento accolto da questa Sezione della Suprema Corte, pienamente condiviso da questo Collegio, secondo cui ‘in tema di violenza sessuale, ai fini del riconoscimento della diminuente per i casi di minore gravità di cui all’art. 609-bis, ultimo comma, cod. pen., deve farsi riferimento ad una valutazione globale del fatto, nella quale assumono rilievo i mezzi, le modalità esecutive, il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e psicologiche di quest’ultima, anche in relazione all’età, mentre ai fini del diniego della stessa attenuante è sufficiente la presenza anche di un solo elemento di conclamata gravità’ (così Sez. 3, n. 6784 del 18/11/2015, dep. 22/02/2016, P.G. in proc. D, Rv. 266272; Sez. 3, n. 21623 del 15/04/2015, dep. 25/05/2015, K., Rv. 263821).

Orbene, nel caso di specie la Corte territoriale ha chiarito, con evidente apprezzamento di merito, le ragioni, connesse alle ‘modalità subdole e insidiose attraverso le quali detta condotta si è estrinsecata, approfittando della condizione di supremazia dovuta all’esercizio della professione di psicologo psicoterapeuta’, nonché ‘al grave danno morale e psicologico cagionato alla sua paziente’, per le quali ha ritenuto di riconoscere la gravità della condotta ascritta all’imputato; ragioni che in quanto esplicitate in maniera del tutto logica, non appaiono sindacabili in questa sede.

Quanto alla generica deduzione circa l’eccessività della pena, i giudici di appello hanno adeguatamente posto in luce gli elementi che in base ai criteri dettati dall’art. 133 cod. pen., non consentono alcuna attenuazione della pena inflitta all’imputato dal Tribunale: dalla ricordata gravità del fatto alla significativa capacità a delinquere dell’imputato, ‘manifestata attraverso il protrarsi dell’azione di preparazione all’evento illecito consumato in danno della vittima, unitamente alla mancanza di ogni resipiscenza’; sicché anche sotto tale profilo deve ritenersi che la discrezionalità rimessa al giudice della cognizione nel momento della concreta determinazione della pena, sia stata correttamente esercitata.

Pertanto, il motivo in esame è infondato, anche per quanto concerne la sospensione condizionale della pena, ovviamente non concedibile per difetto dei presupposti contemplati dall’art. 163 cod. pen..

Per quanto, infine, concerne il terzo motivo di ricorso, con il quale il ricorrente deduce l’omessa motivazione in relazione all’inosservanza, da parte del Pubblico ministero, delle prescrizioni concernenti l’avviso della conclusione delle indagini preliminari, giova ricordare che la nullità conseguente all’inosservanza delle prescrizioni concernenti l’avviso di conclusione delle indagini preliminari – come fissate all’art. 415-bis cod. proc. pen. – va catalogata tra quelle cd. a regime intermedio, in quanto nullità di ordine generale priva di carattere assoluto, sicché essa va eccepita o rilevata d’ufficio prima della deliberazione della sentenza di primo grado (Sez. 6, n. 1043 del 20/12/2012, dep. 9/01/2013, Cimmino, Rv. 253843).

Nel caso di specie, tuttavia, essendovi stata la presentazione, da parte dell’imputato, della richiesta di giudizio abbreviato, la predetta nullità rimane sanata ai sensi dell’art. 183 cod. proc. pen. (v. ex plurimis Sez. 3, n. 7336 del 31/01/2014, dep. 17/02/2014, Laneve, Rv. 258813).

Pertanto, anche il terzo motivo è infondato.

Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, oltre alla rifusione delle spese di parte civile che si liquidano in complessivi 3.500 Euro, oltre agli accessori di legge, da versarsi a favore dell’Erario.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, oltre alla rifusione delle spese di parte civile che si liquidano in complessivi Euro 3.500, oltre accessori di legge, da versarsi all’Erario.

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