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Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 16 gennaio 2014, n. 750

I fatti

Nell’aprile del 2004 S.G. e S.M., in proprio nella qualità di eredi del figlio L., convennero in giudizio, dinanzi al tribunale di Milano, il dott. R.G., suo medico curante all’epoca dei fatti, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni per avere il sanitario cagionato, o contribuito a cagionare, il decesso del minore in conseguenza di un errore diagnostico e terapeutico consistito nella sola somministrazione di farmaci antiemetici, senza procedere ad un esame obbiettivo del torace e dell’apparato respiratorio del piccolo paziente (affetto da carenza immunitaria anticorporale), nonostante questi avesse accusato dapprima astenia e cefalea accompagnata da alcune linee di febbre, poi alcuni episodi di vomito, per spirare, infine, a causa di una polmonite franca lombare.
Il giudice di primo grado, pur essendo stato reso edotto da parte convenuta di come l’operato del professionista fosse stato giudicato incensurabile in sede penale (all’esito di decreto di archiviazione da parte del GIP), dispose a sua volta CTU, all’esito della quale respinse la domanda, sul rilievo, tra l’altro, che il consulente d’ufficio aveva concluso la sua indagine nel senso della totale assenza di qualsiasi responsabilità professionale del sanitario, attesa, in particolare, la impredicabilità di un nesso giuridicamente rilevante tra la condotta e l’evento avverso.
La corte di appello di Milano, investita del gravame proposto dagli attori in prime cure, lo rigettò.
Per la cassazione della sentenza della Corte milanese S.G. ha proposto ricorso illustrato da 3 motivi.
Resiste R.G. con controricorso integrato da ricorso incidentale.

Le ragioni della decisione

I ricorsi riuniti non possono essere accolti, anche se la motivazione della sentenza deve essere corretta.
Il ricorso principale
Con il primo motivo, si denuncia:
a) violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e dei principi che disciplinano la coincidenza tra il chiesto e il pronunciato e secondo cui il giudice deve decidere su tutta la domanda (art. 360 nn. 3 e 4 c.p.c.)
b) violazione e falsa applicazione degli artt. 115 comma 2 e 116 c.p.c. e dei principi che disciplinano la valutazione delle prove e che impongono al giudice, una volta disposta la CTU, di fare riferimento alle risultanze tecnico-scientifiche di cui all’elaborato peritale per condividerne il contenuto, ovvero in relazione alle quali motivare il proprio dissenso;
c) violazione e falsa applicazione dei principi che disciplinano la disponibilità e la valutazione delle prove da parte del giudice, al quale – pur sulla base degli elementi tecnici acquisiti in sede di accertamento peritale – è riservata la decisione e la soluzione giuridica delle questioni, che non può essere demandata al CTU;
d) violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 ss. c.c. e 2236 c.c. e dei principi e norme che disciplinano la responsabilità civile del medico, che prescinde dalla sussistenza del reato;
e) omessa, illogica e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia.
Ciascuna delle censure sopra riportate è corredata da un corrispondente quesito di diritto (formulato ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., applicabile nella specie, ratione temporis, nel vigore del. D.lgs. 40/2006).
Il motivo è infondato.
Pur volendo prescindere dai non marginali profili di inammissibilità che esso inevitabilmente pone al collegio (sia sotto il profilo della genericità dei quesiti che sotto quello della loro molteplicità di tipo eterogeneo, in evidente dissonanza con i principi più volte affermati, in subiecta materia, da questa Corte regolatrice, anche a sezioni unite), va osservato, nel merito, che tutte le censure mosse alla sentenza sotto il profilo di una sua pretesa, acritica adesione alle risultanze dell’elaborato tecnico d’ufficio non colgono nel segno, poiché la corte territoriale, con motivazione esente da vizi logico-giuridici, valuta e si esprime criticamente, per poi ponderatamente concludere, in ordine alla (assenza di) responsabilità del sanitario sotto il profilo causale, attesa la natura della broncopolmonite che aveva colpito il piccolo L.M., la cui asintomaticità fu tale da rendere insospettabile l’esistenza di un così grave quadro infiammatorio che avrebbe poi interessato il miocardio, cagionando nel giro di pochi giorni l’evento mortale così come verificatosi.
Nessun acritico ed automatico appiattimento, né alcun inconsapevole recepimento tout court alla CTU da parte del giudice territoriale appare, pertanto, a questi ascrivibile e contestabile quanto all’iter motivazionale adottato, contrariamente all’assunto (corretto in astratto e in punto di diritto, ma impredicabile in concreto, nel caso di specie) di cui parte ricorrente si duole attraverso la formulazione dei quesiti che concludono il motivo in esame.
Con il secondo motivo, si denuncia:
a) violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e 1223 c.c. e dei principi e norme che disciplinano il nesso causale e impongono al giudice di valutare di volta in volta la sussistenza del nesso con riferimento al caso concreto;
b) insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia;
c) violazione e falsa applicazione degli artt. 115 comma 2 e 116 c.p.c. e dei principi e norme che disciplinano la valutazione delle prove e che impongono al giudice, una volta disposta la CTU, di tenere in considerazione le risultanze tecniche medico-legali di cui alla perizia per porle a fondamento del proprio convincimento;
d) illogica motivazione su un punto decisivo della controversia;
e) violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e 1223 c.c. e dei principi e norme che disciplinano il nesso causale e in particolare del principio della regolarità causale, nell’ambito della responsabilità civile e per l’ipotesi di illecito anche commissivo.
La complessa censura, corredata a sua volta, al pari di quella che precede, da una molteplicità di quesiti non del tutto omogenei tra loro (onde i medesimi problemi di ammissibilità già evidenziati in sede di analisi del motivo che precede), non può essere accolta.
Al suo esame va peraltro premesso come non erri parte ricorrente nel richiamare, in astratto (e in specie con il quinto quesito, formulato al folio 26 del ricorso) alcuni dei principi più volte affermati da questa Corte regolatrice in tema di causalità.
E ciò è a dirsi sia in ordine alla rilevanza della “specificità” del singolo caso concreto – da esaminarsi di volta in volta proprio in ragione della sua dedotta specificità, che talvolta può addirittura tradursi in “unicità” proprio di quel caso sottoposto al vaglio del giudice, non essendo la medicina una scienza esatta, ed essendo l’organismo umano, a sua volta, una entità imperfetta -; sia in ordine alle differenze criteriologiche che vedono il giudizio civile e quello penale divergere sotto il profilo dell’applicabilità di differenti regole causali tanto di struttura (la regolarità/adeguatezza causale piuttosto che la teoria condizionalistica) quanto di funzione (e cioè probatorie: l’alto grado di probabilità logico/razionale piuttosto che il più probabile che non, dovendosi in tali sensi correggersi in parte qua la motivazione della sentenza impugnata, che erroneamente richiama principi applicabili al solo processo penale); sia infine, in ordine al corretto riparto oneri probatori in tema di causalità e di colpa.
La non accoglibilità del motivo in esame consegue, difatti, in concreto, alla (comunque) corretta conclusione cui perviene la Corte territoriale quando discorre di assenza tout court di nesso causale tra la condotta (in parte commissiva, in parte ipoteticamente omessa) e l’evento lesivo, sottolineando come tale conclusione fosse stata suffragata dagli accertamenti svolti sia dal consulente tecnico del giudice penale, sia della consulenza disposta autonomamente in sede di giudizio risarcitorio, a riprova della assoluta impredicabilità di un acritico appiattimento del giudice civile sulle conclusioni raggiunte nel processo penale.
Vero è che, pur se del tutto comprensibilmente alla luce della tragicità di ogni vicenda che riguardi la morte di un fanciullo, il complesso ed articolato motivo in esame, formalmente strutturato come denuncia di plurime violazione di legge e di un di decisivo difetto di motivazione, si risolve, nella sostanza, in una (non più inammissibile) richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze come definitivamente accertati in sede di merito. Il ricorrente, difatti, piuttosto che prospettare a questa Corte un vizio della sentenza concretamente rilevante sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., si volge piuttosto ad invocare – oltre all’applicazione in astratto di diversi criteri operazionali e motivazionali – una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertare e ricostruite dalla corte territoriale, muovendo all’impugnata sentenza censure non rilevanti perché la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle – fra esse – ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva. E’ principio di diritto ormai consolidato quello per cui l’art. 360 del codice di rito non conferisce in alcun modo e sotto nessun aspetto alla Corte di cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, consentendo ad essa, di converso, il solo controllo – sotto il profilo logico-formale e della conformità a diritto – delle valutazioni compiute dal giudice d’appello, al quale soltanto, va ripetuto, spetta l’individuazione delle fonti del proprio convincimento valutando le prove (e la relativa significazione), controllandone la logica attendibilità e la giuridica concludenza, scegliendo, fra esse, quelle funzionali alla dimostrazione dei fatti in discussione. Il ricorrente, nella specie, pur denunciando, formalmente, un difetto di motivazione della sentenza di secondo grado, inammissibilmente (perché in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecita a questa Corte una nuova valutazione di risultanze di fatto (ormai cristallizzate quoad effectum) come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento, così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto, ormai immutabile, di fatti storici e vicende processuali, quanto l’attendibilità maggiore o minore di questa o di quella ricostruzione procedimentale, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di appello non condivise e per ciò solo censurate.
Con il terzo motivo, si denuncia:
a) violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e dei principi che disciplinano la coincidenza tra il chiesto e il pronunciato e secondo cui il giudice deve decidere su tutta la domanda;
b) omessa motivazione su un punto decisivo della controversia;
c) violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e ss. c.c., 2236 c.c., nonché dell’art. 2697 c.c., nonché dei principi e norme che disciplinano la distribuzione dell’onere della prova in ordine alla invocata responsabilità professionale del medico;
d) violazione e falsa applicazione degli artt. 115 comma 2 e 116 c.p.c. e dei principi e norme che disciplinano la valutazione delle prove e che impongono al giudice, una volta disposta la CTU, di fare riferimento alle risultanze tecnico-scientifiche di cui all’elaborato peritale per condividerne il contenuto, ovvero in relazione alle quali motivare il proprio dissenso;
e) illogica motivazione su un punto decisivo della controversia (viene in proposito, al folio 27 del ricorso, indicato, a cagione un evidente quanto irrilevante lapsus calami, l’art. 360 n. 3 e non n. 5 del codice di rito come norma di riferimento della lamentata violazione).
Anche tale ultima, complessa censura, a sua volta corredata da quesiti multipli, non può essere accolta, per le medesime ragioni già esposte in precedenza. Nella specie, difatti, non è mancata la prova processuale del nesso causale (il che avrebbe comportato l’applicazione di principi diversi da quelli evocati in sentenza in tema di riparto del relativo onere), essendo stato accertato, di converso, in sede di CTU, e al di là delle espressioni usate in sentenza, la sostanziale mancanza in fatto di una relazione etiologica giuridicamente rilevante tra condotta ed evento.
Il ricorso incidentale
Con esso si lamenta un preteso errore materiale in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale nel liquidare le spese processuali (risultando pacifico, a detta del ricorrente incidentale, che, per ammissione dello stesso giudice di merito, le note spese erano state regolarmente inserite nei fascicoli di parte).
La mancanza di una esplicita riproduzione di tali note in questa sede, in evidente spregio del principio di autosufficienza del ricorso, impedisce a questa Corte di valutare la legittimità e la fondatezza della censura.
I ricorsi vanno pertanto entrambi rigettati.
La disciplina delle spese segue – giusta il principio della reciproca soccombenza – come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte, decidendo sui ricorsi riuniti, rigetta il ricorso principale e quello incidentale. Dichiara interamente compensate le spese del giudizio di cassazione.

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