Cassazione 3

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 22 ottobre 2014, n. 22331

REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. AMATUCCI Alfonso – Presidente
Dott. VIVALDI Roberta – Consigliere
Dott. SESTINI Danilo – Consigliere
Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere
Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 1214-2011 proposto da:
(OMISSIS) (OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS) giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS) SRL, in persona del legale rappresentante p.t., dott. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dagli avvocati (OMISSIS), (OMISSIS) con studio in (OMISSIS), giusta procura a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1039/2009 della CORTE D’APPELLO di SALERNO, depositata il 16/11/2009 R.G.N. 983/2009;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 29/05/2014 dal Consigliere Dott. MARCO ROSSETTI;
udito l’Avvocato (OMISSIS);
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PRATIS Pierfelice che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Nel 2004 il sig. (OMISSIS), dichiarando di agire sia per se’ che in rappresentanza del fratello (OMISSIS), interdetto, convenne dinanzi al Tribunale di Nocera Inferiore la societa’ (OMISSIS) s.r.l. (d’ora innanzi, per brevita’, la Casa di cura ), esponendo che:
-) il sig. (OMISSIS) era sofferente di disturbi mentali;
-) per tale ragione era stato ricoverato nella clinica gestita dalla societa’ convenuta;
-) il (OMISSIS) (OMISSIS) si era allontanato dalla suddetta clinica, e nel tentativo di suicidarsi venne investito da un treno, subendo l’amputazione della mano destra;
-) la responsabilita’ dell’accaduto andava ascritta alla convenuta, per avere negligentemente sorvegliato il paziente.
Concluse pertanto chiedendo la condanna della convenuta al risarcimento del danno.
2. Con sentenza 5.6.2003 n. 569 il Tribunale di Nocera Inferiore rigetto’ la domanda, sul presupposto che al momento dell’accaduto la malattia del paziente non fosse tale da far ragionevolmente presagire un intento suicidano.
3. La decisione di primo grado, impugnata dai soccombenti, venne confermata dalla Corte d’appello di Salerno con la sentenza 16.11.2009 n. 1039.
4. Tale sentenza viene ora impugnata per cassazione da (OMISSIS), in proprio e quale rappresentante legale del fratello (OMISSIS), sulla base di un solo motivo di ricorso.
Ha resistito la Casa di cura con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Questioni preliminari.
1.1. Con l’unico motivo di ricorso il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe affetta sia da una di violazione di legge, ai sensi all’articolo 360 c.p.c., n. 3, (assume violati gli articoli 1218, 2043, 2047, 2049 e 2697 c.c.; nonche’ la Legge 13 maggio 1978, n. 180 ); sia da un vizio di motivazione, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 5.
Nella illustrazione del motivo si trovano concentrate cinque diverse doglianze, cosi’ riassumibili:
(a) la Corte d’appello ha errato nel ritenere che la Casa di cura non avesse alcun obbligo di vigilanza della persona di (OMISSIS); tale obbligo al contrario scaturiva necessariamente dal contratto di ricovero e dal tipo di malattia per la quale il paziente fu ricoverato, ovvero un disturbo depressivo maggiore ricorrente, che lo aveva indotto gia’ in passato a tentare il suicidio;
(b) sarebbe stato pertanto onere della Casa di cura, ai sensi dell’articolo 1218 c.c., provare di avere adottato tutte le misure idonee a prevenire atti autolesionistici del paziente o comunque il suo allontanamento dalla clinica;
(c) la Corte d’appello aveva ritenuto fornita tale prova, ma senza motivare adeguatamente tale statuizione, in quanto si era limitata ad osservare che:
(c1) la clinica era recintata ed aveva un custode;
(c2) la vittima godeva di frequenti permessi di uscita per recarsi in famiglia.
Queste prime tre motivazioni, prosegue il ricorrente, sarebbero incongrue, in quanto da un lato non era dimostrato che il giorno della disgrazia (OMISSIS) uso’ un permesso per allontanarsi dalla clinica; e dall’altro era irrilevante dimostrare che la clinica avesse un custode, se non si dimostrava in che modo (OMISSIS) si era allontanato dalla clinica (e cioe’ eludendo in modo non prevenibile la sorveglianza);
(d) la Corte d’appello ha errato nel ritenere inammissibile per difetto di specificita’ il motivo di gravame col quale si lamentava l’esclusione della colpa della Casa di cura;
(e) la Corte d’appello ha errato nell’escludere il nesso di causa tra la condotta del personale della clinica e il danno patito da (OMISSIS), nesso che doveva ritenersi in re ipsa, posto che una adeguata vigilanza del paziente ne avrebbe impedito l’allontanamento.
2. La Casa di cura ha eccepito la tardivita’ del ricorso, deducendo che:
– la sentenza d’appello e’ stata depositata il 16.11.2009;
– il termine per il ricorso per cassazione e’ spirato il 31.12.2010;
– il ricorso e’ stato notificato alla Casa di cura l’11.1.2011.
2.1. L’eccezione e’ infondata.
Il ricorrente ha tentato una prima notifica il 30 dicembre 2010, non andata a buon fine perche’ il destinatario e’ risultato trasferito. Ha quindi reiterato il tentativo di notifica il successivo 11 gennaio 2011.
Deve trovare dunque applicazione, nel nostro caso, il consolidato principio secondo cui quando la notificazione di un atto processuale non vada a buon fine per cause non imputabili al richiedente, questi ha l’onere di tentare immediatamente una seconda notifica. Se questo secondo tentativo va a buon fine, la notificazione si avra’ per eseguita sin dal momento in cui il piego venne consegnato per la prima volta all’ufficiale giudiziario, a nulla rilevando che dopo tale data sia maturata una preclusione o scaduto un termine perentorio (ex multis, da ultimo Sez. L, Sentenza n. 20830 del 11/09/2013, Rv. 627938).
Nel caso di specie:
(a) non risulta che l’esito infruttuoso della prima notifica sia ascrivibile a negligenza del notificante;
(b) la seconda notifica e’ stata richiesta soltanto 11 giorni dopo la prima, e per di piu’ nel pieno d’un periodo festivo.
Sono pertanto, soddisfatti sia il requisito dell’incolpevolezza dell’esito infruttuoso della notifica; sia quello della solerzia nella reiterazione della notifica.
Ne consegue che il dies ad quem del termine per impugnare va conteggiato dalla data (per il notificante) della richiesta della prima notifica, avvenuta il 30.12.2010, e quindi il ricorso e’ tempestivo.
3. Ordine di trattazione.
3.1. Nel merito, le varie doglianze proposte dal ricorrente vanno esaminate con l’ordine logico di cui all’articolo 276 c.p.c., comma 2, che sara’ il seguente:
(a) la doglianza concernente l’inammissibilita’ dell’appello;
(b) la doglianza concernente il nesso di causa;
(c) le doglianze concernenti l’accertamento della colpa.
4. Ammissibilita’ dell’appello.
4.1. La Corte d’appello ha ritenuto che il secondo motivo dell’appello di (OMISSIS) (col quale si censurava la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva escluso la colpa della Casa di cura) fosse inammissibile perche’ privo del requisito della specificita’, prescritto dall’articolo 342 c.p.c..
Il difetto di specificita’, secondo la Corte d’appello, discenderebbe da cio’: che l’appellante ha censurato la sentenza di primo grado per non avere ritenuto la clinica in colpa, sebbene non avesse adottato misure idonee ad evitare l’allontanamento del paziente; mentre avrebbe dovuto impugnarla nella parte in cui aveva ritenuto insussistente un obbligo di vigilanza.
4.2. La statuizione del giudice d’appello e’, su questo punto, affetta sia da violazione di legge, sia da vizio di motivazione.
E’ affetta da violazione di legge, perche’ e’ pacifico che la specificita’ dei motivi d’appello prescritta dall’articolo 342 c.p.c. (nel testo vigente ratione temporis) deve essere desunta da una valutazione globale dell’atto di impugnazione, senza segmentarlo od estrapolarne singoli passaggi. E nel caso di specie l’atto di appello esprime in modo sufficientemente chiaro il contenuto della doglianza mossa alla sentenza di primo grado: ovvero l’asserita erronea esclusione della culpa in vigilando della clinica.
4.3. La statuizione del giudice d’appello in merito all’inammissibilita’ del gravame e’, tuttavia, anche priva di adeguata motivazione. La Corte d’appello di Salerno ha infatti preteso di distinguere tra le due questioni dell’obbligo di vigilare e dell’obbligo di adottare misure per prevenire la fuga , per concludere che l’appello sarebbe stato ammissibile se avesse posto la prima questione, ed inammissibile se avesse posto la seconda.
Nel caso di specie, tuttavia, il thema decidendum era l’esistenza in capo alla Casa di cura, e la sua eventuale violazione, di un obbligo di sorveglianza dei pazienti. E poiche’ l’obbligo di sorveglianza comprende necessariamente anche l’adozione di misure per prevenire allontanamenti, la distinzione compiuta dalla Corte d’appello, espressa in quei termini e senza ulteriori specificazioni, appare incomprensibile.
5. Il nesso di causa.
5.1. La Corte d’appello (pagg. 5-6 della sentenza impugnata), dopo avere ritenuto inammissibile il secondo motivo di gravame proposto da (OMISSIS), ha soggiunto per completezza che al momento del fatto (OMISSIS) non aveva una malattia grave, tale da lasciare ragionevolmente presagire che il malato potesse costituire un pericolo per se’ o per gli altri. Di conseguenza, non essendo il malato pericoloso, deve anche escludersi il nesso di causalita’ tra la condotta del personale medico ed il successivo tentativo di suicidio del paziente .
Di tale statuizione il ricorrente lamenta sia l’erroneita’ in iure (pag. 9 del ricorso), sia il difetto di motivazione (pag. 10 del ricorso).
5.2. La doglianza e’ inammissibile, perche’ la Corte d’appello, dopo avere dichiarato inammissibile l’appello, non aveva piu’ il potere di esaminarne il merito.
E’ pacifico, nella giurisprudenza di questa Corte, che quando il giudice di merito giustifica la propria decisione con motivazioni ad abundantiam, occorre distinguere due ipotesi.
Quando il giudice adotta una doppia ratio decidendi sul merito (ad esempio: l’obbligazione e’ prescritta ma se non lo fosse sarebbe nulla), tutte e due le motivazioni sorreggono la decisione, e tutte e due devono essere impugnate in sede di legittimita’ da chi domanda la riforma della sentenza. Se, invece, il giudice adotta una decisione in rito con la quale dichiara inammissibile la domanda o il motivo di gravame, cosi’ facendo egli si spoglia della potestas iudicandi sul merito. In questo caso, se poi il giudice procede comunque all’esame di quest’ultimo, la relativa statuizione e’ tamquam non esset, e sara’ di conseguenza inammissibile, per difetto di interesse ex articolo 100 c.p.c., il motivo di impugnazione che contesti la decisione sul merito della questione (ex permultis, in tal senso, Sez. U, Sentenza n. 24469 del 30/10/2013, Rv. 627991; Sez. 1, Sentenza n. 3927 del 12/03/2012, Rv. 621978).
5.3. Deve dunque escludersi che la sentenza impugnata contenga, nella decisione relativa al secondo motivo d’appello, alcuna statuizione suscettibile di passare in giudicato in merito all’accertamento del nesso di causa tra condotta della clinica ed evento dannoso; e di conseguenza il ricorso principale deve ritenersi in parte qua inammissibile per avere impugnato una statuizione fantasma , ovvero inesistente. Un cenno al problema del nesso di causa e’ contenuto nella sentenza impugnata anche nella parte dedicata all’esame del terzo motivo dell’appello proposto da (OMISSIS): ma di essa si dira’ infra, par. 6.2.1.
6. La colpa.
6.1. Nel presente giudizio il Tribunale escluse la responsabilita’ della Casa di cura per difetto del requisito della colpa.
L’appellante impugno’ tale decisione, assumendo in buona sostanza che:
(a) la colpa della convenuta si doveva presumere, ex articolo 1218 c.c.;
(b) la Casa di cura non aveva fornito la prova liberatoria impostale dalla norma ora ricordata;
(c) in ogni caso, non sorvegliare un malato di mente costituisce di per se’ una condotta colposa.
6.2. A fronte di questo tipo di doglianza, la Corte d’appello ha cosi’ statuito: il personale della Casa di cura ha adottato tutte le misure idonee nel caso specifico alla migliore assistenza del paziente in relazione allo stato della sua patologia. Ne’, del resto, sussiste prova del nesso di causalita’ tra il dedotto presunto inadempimento contrattuale ed il pregiudizio lamentato . Dall’esame complessivo della motivazione si puo’ altresi’ desumere che le circostanze in fatto poste dal giudice d’appello a fondamento della decisione di esclusione della colpa della societa’ convenuta sono state le seguenti:
(a) il sig. (OMISSIS) al momento del fatto era capace di intendere e di volere;
(b) la sua malattia era in via di guarigione, e non lasciava presagire il rischio di gesti autolesivi;
(c) il paziente aveva goduto di frequenti permessi di uscita per tornare in famiglia;
(d) la Casa di cura aveva pur sempre adottato misure di controllo: era infatti recintata e vi era un custode.
6.2. Tale statuizione viene impugnata dal sig. (OMISSIS) sulla base delle argomentazioni esposte supra, par. 1.1.
Esse sono fondate.
6.2.1. Sussiste, in primo luogo, il vizio di motivazione in merito alla ritenuta insussistenza di nesso di causa tra inadempimento e danno.
Nel caso di culpa in vigilando, come del resto in qualsiasi ipotesi di colpa omissiva consistita nel non avere impedito un evento che si era obbligati ad impedire, l’avverarsi stesso dell’evento costituisce in tesi prova dell’esistenza del nesso di causa tra la condotta omissiva ed il danno.
In questi casi, per escludere l’esistenza del nesso di causa tra omissione e danno, e’ necessario dimostrare che l’evento dannoso abbia avuto una causa diversa dall’omissione, indicando quale sia stata.
Nel caso di specie la Corte d’appello, senza indicare quale sarebbe stata la causa alternativa dell’infortunio patito da (OMISSIS), e dopo avere affermato che inadempimento della Casa di cura non vi fu, ha concluso che mancasse per cio’ anche il nesso di causa.
Questa motivazione e’ logicamente viziata per due ragioni:
(a) la prima e’ che la Corte ha fatto discendere la mancanza del nesso di causa dalla mancanza di colpa ( siccome non vi fu colpa della clinica, manca il nesso di causa ): il che e’ logicamente scorretto, in quanto colpa e nesso di causa costituiscono elementi dell’illecito indipendenti ed autonomi: vi potra’ essere la prima senza il secondo o viceversa, senza che dalla presenza dell’uno possa inferirsi alcunche’ in merito all’esistenza dell’altro;
(b) la seconda e’ che, in un caso in cui si assume una culpa in vigilando, e si sia verificato l’evento che la vigilanza mirava ad impedire, il nesso di causa e’ suscettibile di essere solo per questo ravvisato: sicche’ per escluderlo il giudice ha l’onere di indicarne la causa concreta, diversa dall’inadempimento, e non gli e’ consentito limitarsi a dire non vi e’ prova del nesso di causa .
Ove poi, con tale affermazione la Corte d’appello avesse inteso affermare non esservi stata condotta negligente da parte del personale sanitario, la domanda si sarebbe dovuta rigettare per difetto di colpa, non per difetto del nesso di causa.
Nell’uno come nell’altro caso, pertanto, la motivazione e’ viziata perche’ non esce dalla seguente alternativa:
– o e’ apodittica perche’ non ha indicato la causa concreta del danno, diversa dalla condotta della clinica;
– ovvero e’ illogica, perche’ ha desunto dalla mancanza di colpa l’inesistenza del nesso di causa.
6.2.2. Sussiste, altresi’, sia il vizio di violazione di legge, sia quello di motivazione in merito alla ritenuta esclusione della colpa della societa’ convenuta.
6.2.2.1. Per quanto attiene al primo aspetto (violazione di legge) la sentenza non ha fatto corretta applicazione degli articoli 1176, 1374 e 1218 c.c.
Qualsiasi struttura sanitaria, nel momento stesso in cui accetta il ricovero d’un paziente, stipula un contratto dal quale discendono naturalmente, ai sensi dell’articolo 1374 c.c., due obblighi: il primo e’ quello di apprestare al paziente le cure richieste dalla sua condizione; il secondo e’ quello di assicurare la protezione delle persone di menomata o mancante autotutela, per le quali detta protezione costituisce la parte essenziale della cura. Questi principi, affermati per la prima volta quasi trent’anni fa (Sez. 3, Sentenza n. 6707 del 04/08/1987, Rv. 454927), sono divenuti col tempo ius receptum nella giurisprudenza di questa Corte, la quale ancora di recente ha ribadito che ove un paziente ricoverato per disturbi mentali tenti il suicidio, riportando lesioni personali, la struttura sanitaria che l’aveva in cura risponde di tali lesioni, a prescindere dal carattere volontario od obbligatorio del trattamento sanitario praticato in concreto, non potendo quest’ultimo condizionare l’obbligo di sorveglianza da parte del medico e del personale sanitario (Sez. 1, Sentenza n. 11038 del 10/11/1997, Rv. 509677; Sez. 3, Sentenza n. 22818 del 10/11/2010, Rv. 615165; Sez. 3, Sentenza n. 12965 del 16/06/2005, Rv. 582022).
6.2.2.2. L’estensione ed il contenuto dell’obbligo di vigilanza di cui si e’ detto variano in funzione delle circostanze del caso concreto. Quell’obbligo sara’ tanto piu’ stringente, quanto maggiore e’ il rischio che il degente possa causare danni, o patirne.
Tuttavia ne’ la capacita’ di intendere e di volere, ne’ l’assoggettamento del paziente ad un trattamento sanitario obbligatorio, sono presupposti necessari perche’ sorga l’obbligo di vigilanza.
L’obbligo di vigilanza e protezione del paziente, in quanto scaturente ipso facto dall’accettazione del paziente, prescinde dalla capacita’ di intendere e di volere di questi, ne’ esige che il paziente sia sottoposto ad un trattamento sanitario obbligatorio.
Anche una persona perfettamente capace di intendere e di volere, infatti, puo’ aver bisogno di vigilanza e protezione per evitare che si faccia del male (come nel caso di degente non autosufficiente); ne’ solo le malattie mentali sopprimono la capacita’ di intendere e di volere; ne’, infine, un malato di mente puo’ ritenersi non pericoloso per se’ o per gli altri sol perche’ non abbia perduto la capacita’ di intendere e di volere. La capacita’ di intendere e di volere consiste infatti nella possibilita’ di autodeterminarsi, e non e’ affatto concetto sovrapponibile a quello di salute mentale : dunque ben possono aversi casi in cui il degente sia malato di mente, ma capace di intendere e di volere, cosi’ come casi in cui sia sano di mente, ma incapace di intendere e di volere.
La eterogeneita’ di questi concetti rende evidente che l’obbligo di vigilanza e protezione del degente grava sulla struttura sanitaria nei confronti di tutti i pazienti: malati di mente e malati di corpo, capaci od incapaci di intendere e di volere, con estensione e contenuto correlati alle circostanze del caso concreto, come s’e’ sopra affermato.
6.2.2.3. Nemmeno e’ pensabile che l’obbligo di vigilanza e protezione del malato sia dovuto solo al fine di prevenire alcuni rischi, e non altri: si da ritenere, ad esempio, che esso vada adempiuto rispetto ai malati di mente al solo fine di evitare il suicidio; rispetto ai malati di corpo al solo fine di evitare cadute, e via dicendo.
In quanto obbligo di protezione scaturente naturaliter dal contratto (articolo 1374 c.c.), l’obbligo in esame non e’ teleologicamente orientato: non va adempiuto solo se si tratti di prevenire il rischio A od il rischio B , ma va adempiuto omnimodo, al fine di prevenire tutti i rischi potenzialmente incombenti sul degente, alla sola condizione che rientrino nello spettro della prevedibilita’.
6.2.2.4. Triplice, pertanto, e’ stato l’errore in iure commesso dalla Corte d’appello nella sentenza impugnata:
(a) avere equiparato la nozione clinica di sanita’ di mente a quella giuridica di capacita’ di intendere e di volere , per concludere che il degente capace e’ per cio’ solo anche sano, e quindi non bisognoso di vigilanza;
(b) avere ritenuto che la clinica non avesse obblighi di vigilanza sol perche’ il paziente (ancora malato: la malattia viene definita infatti in fase di remissione ) era capace di intendere e di volere (cosi’ la sentenza, pag. 4);
(c) avere ritenuto che la clinica non avesse obblighi di vigilanza sol perche’ il paziente non era soggetto ad un trattamento sanitario obbligatorio.
6.2.3. Oltre che erronea in diritto, la sentenza impugnata e’ altresi’ motivata in modo insufficiente.
In un caso in cui era il convenuto a dovere provare di avere adempiuto le proprie obbligazioni, la Corte ha ritenuto fornita tale prova liberatoria sulla base di cinque argomentazioni:
(a) il degente era capace di intendere e di volere;
(b) la malattia era in fase di remissione;
(c) non ricorreva alcun rischio imminente di suicidio;
(d) l’allontanamento del paziente non era prevedibile;
(e) la clinica era recintata e l’ingresso era sorvegliato.
Questa motivazione e’ per un verso contraddittoria, e per altro verso carente.
6.2.4. E’ contraddittoria nella parte in cui, da un lato, ammette che il malato non era guarito ( la malattia era in fase di remissione ), e dall’altro soggiunge che nella specie non sussistevano elementi specifici che imponessero prescrizioni o cautele . Uno di questi elementi invece senz’altro esisteva, ed era la malattia stessa, in virtu’ di quanto esposto supra, par. 6.2.2.1.
La sentenza e’ altresi’ contraddittoria nella parte in cui, da un lato, afferma che nella specie non sussistevano elementi specifici che imponessero prescrizioni o cautele , e dall’altro soggiunge che il paziente godeva di permessi di uscita per tornare in famiglia : un permesso di uscita e’ infatti una cautela, e non si comprende perche’ mai dovette essere adottata, se davvero il paziente non era esposto ad alcun rischio.
6.2.5. La motivazione riassunta al par. 6.2.3. e’, poi, illogica, sotto tre profili.
In primo luogo, e’ illogica la’ dove esclude l’obbligo di vigilanza in capo alla clinica, perche’ nella specie non ricorreva alcun rischio imminente di suicidio . Un malato di mente va sorvegliato per il solo fatto che abbia la malattia, a prescindere da qualsiasi imminenza del rischio.
In secondo luogo, la sentenza e’ illogica la’ dove ha ritenuto assolto l’onere della prova di avere vigilato il degente, da parte della Casa di cura, attraverso la sola dimostrazione del fatto che la clinica fosse recintata ed avesse un custode.
La presunzione di cui all’articolo 1218 c.c., gravante sulla clinica, e’ infatti una presunzione di colpa.
Da essa il soggetto onerato si libera dimostrando di avere tenuto una condotta diligente.
La diligenza esigibile dalla struttura ospedaliera, ai sensi dell’articolo 1176 c.c., comma 2, per quanto detto in precedenza (par. 6.1 e ss.), consiste in una adeguata sorveglianza del degente, che sia o meno capace di intendere e di volere.
Tale sorveglianza ovviamente deve avvenire innanzitutto nel reparto di degenza: e’ li’, infatti, che in primis il degente puo’ avere bisogno d’aiuto.
Ma su quali fossero le condizioni e la vigilanza all’interno del reparto dove era degente il sig. (OMISSIS) la sentenza impugnata tace del tutto.
La sentenza incorre dunque nel vizio logico di ritenere provata l’assenza di colpa attraverso l’accertamento d’una circostanza di fatto (presenza di recinzione e custode) che non dimostrava affatto l’incolpevolezza della clinica.
7. La sentenza va dunque cassata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Salerno, la quale si atterra’ al seguente principio di diritto:
Il contratto di ricovero produce, quale effetto naturale ex articolo 1374 c.c., l’obbligo della struttura sanitaria di sorvegliare il paziente, in modo adeguato rispetto alle sue condizioni, al fine di prevenire che quegli possa causare danni a terzi o subirne. La mera circostanza che il paziente sia capace di intendere o di volere, ovvero il fatto che non sia soggetto ad alcun trattamento sanitario obbligatorio, non esclude il suddetto obbligo, ma puo’ incidere unicamente sulle modalita’ del suo adempimento.
8. Inoltre, nell’accertare in facto se la convenuta abbia superato la presunzione di colpa posta a suo carico dall’articolo 1218 c.c., il giudice di rinvio avra’ cura di colmare le mende motivazionali elencate ai parr. 6.2.4 e 6.2.5, e quindi:
– spieghera’ se il pericolo di gesti autolesivi da parte del paziente fosse astrattamente ipotizzabile, senza limitarsi ad escluderlo per il solo fatto che il paziente fosse capace di intendere e di volere;
– spieghera’ se il pericolo di gesti autolesivi da parte del paziente fosse astrattamente ipotizzabile, senza limitarsi ad escluderlo per il solo fatto che esso non fosse imminente ;
– terra’ debito conto, nel valutare il contenuto dell’obbligo di sorveglianza gravante sui sanitari, del fatto che il paziente aveva bisogno di permessi per lasciare la struttura;
– terra’ debito conto, nel valutare il superamento, da parte della clinica, dell’onere probatorio di cui all’articolo 1218 c.c., delle modalita’ con cui la vigilanza venne attuata nel reparto, oltre che all’esterno della struttura.
9. Le spese.
Le spese del giudizio di legittimita’ e dei gradi precedenti di merito saranno liquidate dal giudice del rinvio, ai sensi dell’articolo 385 c.p.c., comma 3.
P.Q.M.
la Corte di cassazione:
-) accoglie il primo ed il terzo motivo di ricorso, cassa e rinvia la causa alla Corte d’appello di Salerno in diversa composizione;
-) rimette al giudice del rinvio la liquidazione delle spese del giudizio di legittimita’ e di quelle dei gradi di merito.

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