Cassazione toga rossa

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 27 maggio 2015, n. 22104

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FIALE Aldo – Presidente

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere

Dott. PEZZELLA Vincenzo – Consigliere

Dott. SCARCELLA Alessio – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

– (OMISSIS), n. (OMISSIS);

avverso la sentenza della Corte d’appello di TRIESTE in data 9/07/2014;

visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Alessio Scarcella;

udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. D’AMBROSIO Vito, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. (OMISSIS) ha proposto ricorso avverso la sentenza della Corte d’appello di TRIESTE emessa in data 9/07/2014, depositata in data 18/07/2014, che ha confermato la sentenza emessa in data 23/11/2011 dal Tribunale di UDINE, con cui la ricorrente veniva condannata, con il concorso di attenuanti generiche, alla pena condizionalmente sospesa di mesi 4 di arresto ed euro 7.000,00 di ammenda, per aver immesso sul mercato alcuni oggetti da considerare pericolosi, meglio descritti nell’imputazione (13 accendini di fantasia e 28 puntatori laser), esponendoli sui banchi di vendita del negozio della medesima gestito (Decreto Legislativo n. 206 del 2005, articolo 107, comma 2, e articolo 112, comma 1: fatti contestati come commessi fino al (OMISSIS), data del sequestro).

2. Con il ricorso per cassazione, proposto personalmente dalla ricorrente, viene dedotto un unico motivo, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex articolo 173 disp. att. c.p.p..

2.1. Deduce la ricorrente, con tale unico motivo, il vizio di cui all’articolo 606 c.p.p., lettera b), in particolare per violazione dell’articolo 168 bis c.p.. In particolare, la censura investe l’impugnata sentenza per aver i giudici di appello negato alla ricorrente di essere rimessa in termini per la richiesta di sospensione del processo con messa alla prova; riferisce la ricorrente che, alla prima udienza tenutasi davanti alla Corte d’appello in data 28/05/2014, la difesa aveva avanzato istanza di rimessione in termini ex articolo 168 bis c.p.; la Corte aveva rinviato all’ud. 9/07/2014, all’esito della quale aveva ritenuto inammissibile la richiesta e infondati, nel merito, i motivi di appello; sostiene la ricorrente che, essendosi generato il problema interpretativo dell’applicabilita’ dell’istituto della messa alla prova per i processi in corso alla data dell’entrata in vigore della Legge n. 67 del 2014 (entrata in vigore il 17/05/2014), ed essendo pacifico che, davanti alla Corte d’appello, e’ avvenuto il superamento della fase processuale indicata dall’articolo 464 bis c.p.p., comma 2, entro cui va formulata, a pena di decadenza, la richiesta di sospensione del processo per messa alla prova, detta istanza dovrebbe comunque ritenersi ammissibile – attesa la portata sostanziale della modifica – anche dopo la formulazione delle conclusioni all’udienza preliminare ovvero la dichiarazione di apertura del dibattimento nel processo a citazione diretta.

L’interpretazione estensiva cosi’ suggerita sarebbe giustificata da alcuni argomenti di tipo sostanziale, in particolare osservandosi che il momento indicato dal legislatore come termine ultimo entro cui si deve formulare la richiesta non puo’ rappresentare una linea di confine invalicabile per la richiesta ex articolo 168 bis c.p., nei processi che, alla data del 17/05/2014, gia’ si trovavano in una fase processuale successiva, donde l’applicabilita’ per tutti i processi in cui vi sia gia’ stata una sentenza non definitiva di condanna; in secondo luogo, perche’, a titolo esemplificativo, si e’ gia’ ammesso in giurisprudenza che possa essere richiesta l’applicazione del lavoro di pubblica utilita’ in appello anche quando la condotta sia stata posta in essere anteriormente alla modifica normativa che ha introdotto detta sanzione sostitutiva e pur dopo il giudizio di primo grado che detta sanzione non ha disposto; nel periodo transitorio, dunque, il giudice di appello non potrebbe esimersi dall’applicare estensivamente l’istituto della sospensione con messa alla prova, pena la violazione del principio di eguaglianza ex articolo 3 Cost., ponendosi in essere una irragionevole disparita’ di trattamento tra gli imputati il cui processo risulta pendente in primo grado nella fase anteriore alla dichiarazione di apertura del dibattimento che se ne possono avvalere e quelli il cui processo si trova in fase piu’ avanzata; che tale interpretazione estensiva sia legittima, sarebbe desumibile, secondo la ricorrente, dalla stessa giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte (il riferimento e’ a Sez. Un., n. 18821/2014, Ercolano), richiamandosi anche le fonti transnazionali che ritengono applicabile il principio della lex mitior, tenuto altresi’ conto dell’interpretazione della CGUE secondo cui detto principio dev’essere rispettato dal giudice nazionale quando applica il diritto interno per attuare l’ordinamento comunitario; a cio’ si aggiunge, infine, quanto disposto dall’articolo 7 della Convenzione c.d.u. come interpretato dalla Corte di Strasburgo, secondo cui detto principio va inteso non solo nel senso dell’irretroattivita’ della legge penale piu’ severa, ma anche della retroattivita’ della legge penale meno severa, esegesi condivisa anche dalla giurisprudenza di legittimita’.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso e’ infondato.

4. La questione giuridica posta dalla ricorrente nel presente giudizio e’ la seguente: “se sia ammissibile la richiesta di sospensione della messa prova ex articolo 168 bis c.p., nel giudizio di appello”.

La richiesta, si osserva, venne avanzata davanti ai giudici di appello, essendo nelle more entrata in vigore, in data 17/05/2014, la Legge n. 67 del 2014, che ha introdotto, appunto, detto nuovo istituto, previsto in particolare dall’articolo 168 bis c.p.; la Corte territoriale ha ritenuto inammissibile la richiesta considerando che la Legge n. 67 del 2014, articoli 3 e 4, prevedono uno sbarramento processuale preclusivo in ordine alla proponibilita’ della richiesta.

5. La motivazione della Corte territoriale merita conferma.

Dovendo preliminarmente valutare, infatti, il profilo della tempestivita’ della richiesta, il giudice d’appello ha ritenuto preclusivo il tenore dell’articolo 464 bis c.p.p., comma 2, come introdotto dalla legge n. 67 del 28 aprile 2014 (“la richiesta puo’ essere proposta, oralmente o per iscritto, fino a che non siano formulate le conclusioni a norma degli articoli 421 e 422, o fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo gradi nel giudizio direttissimo e nel procedimento di citazione diretta a giudizio”), cosi’ rilevando l’avvenuto superamento di quel termine, giusta motivazione essenziale ma pienamente congrua rispetto alla concreta situazione processuale determinatasi.

6. La ricorrente chiede di fornire un’interpretazione costituzionalmente orientata (tenuto conto anche della giurisprudenza CGE e CEDU) al tema della applicazione intertemporale dell’istituto della messa alla prova introdotto nel sistema dalla citata Legge n. 67 del 2014, indicando quale parametro di legalita’ costituzionale il principio di retroattivita’ della lex mitior successiva desumibile dall’articolo 7 par. 1 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e che, a suo dire, farebbe ormai parte del sistema quale specificazione dell’articolo 2 c.p., comma 4.

Non considera, tuttavia, la ricorrente che secondo la piu’ recente giurisprudenza non solo della Corte Costituzionale (Corte Cost. n. 236 del 2011), ma anche della stessa Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, il principio di retroattivita’ della lex mitior, cosi’ come in generale delle norme in materia di retroattivita’ contenute nell’articolo 7 della Convenzione EDU, concerne le sole “disposizioni che definiscono i reati e le pene che li reprimono” (Corte E.D.U. sentenza 27 aprile 2010, Morabito contro Italia, nonche’ sentenza 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, citata anche in ricorso), trattandosi oltre tutto di principio riconosciuto dalla Convenzione Europea che non coincide, tuttavia, con quello regolato nel nostro ordinamento dall’articolo 2 c.p., comma 4.

Quest’ultimo riguarda, infatti, ogni disposizione penale successiva alla commissione del fatto, che apporti modifiche in melius di qualunque genere alla disciplina di una fattispecie criminosa, incidendo sul complessivo trattamento riservato al reo, mentre il primo ha una portata piu’ circoscritta, concernendo le sole norme che prevedono i reati e le relative sanzioni (v. Corte Cost. n. 236 del 2011 cit.: “La diversa e piu’ ristretta, portata del principio convenzionale e’ confermata dal riferimento che la giurisprudenza Europea fa alle fonti internazionali e comunitarie e alle pronunce della Corte di giustizia dell’Unione Europea. Sia l’articolo 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, sia l’articolo 49 della Carta di Nizza, infatti, non si riferiscono a qualsiasi disposizione penale, ma solo alla legge che prevede l’applicazione di una pena piu’ lieve”).

Sempre, infatti, secondo la fondamentale Corte Costituzionale n. 236 del 2011, “e’ da ritenere che il principio di retroattivita’ della lex mitior riconosciuto dalla Corte di Strasburgo riguardi esclusivamente la fattispecie incriminatrice e la pena, mentre sono estranee all’ambito di operativita’ di tale principio, cosi’ delineato, le ipotesi in cui non si verifica un mutamento, favorevole al reo, nella valutazione sociale del fatto che porti a ritenerlo penalmente lecito o comunque di minore gravita’”.

7. Quanto al nuovo istituto della messa alla prova, introdotto nel processo penale ordinario dalla Legge n. 67 del 2014, esso si configura come un percorso del tutto alternativo rispetto all’accertamento giudiziale penale, ma non incide affatto sulla valutazione sociale del fatto, la cui valenza negativa rimane anzi il presupposto per imporre all’imputato, il quale ne abbia fatto esplicita richiesta, un programma di trattamento alla cui osservanza con esito positivo consegua l’estinzione del reato.

Si e’, dunque ed all’evidenza, al di fuori dell’ambito di operativita’ del principio di retroattivita’ della lex mitior ed e’ pertanto da escludere che la mancata previsione di una applicazione retroattiva dell’istituto della messa alla prova si ponga in contrasto con l’articolo 7, par. 1 CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo e violi l’articolo 117 Cost., comma 1, che del primo (norma interposta) costituisce il parametro di legalita’ costituzionale.

8. Ne’, si aggiunge, residua spazio per una sospetta incostituzionalita’ della nuova normativa con riferimento all’articolo 3 Cost. nella parte in cui non e’ consentita la presentazione dell’istanza anche quando sia gia’ decorso il termine finale di cui all’articolo 464 bis c.p.p., comma 2, e cioe’, in relazione al caso concreto, in sede di impugnazione.

Il Collegio, nel dare continuita’ ad un orientamento gia’ sostenuto da questa Corte (Sez. 6, n. 47587 del 22/10/2014 – dep. 18/11/2014, Calamo, Rv. 261255), ritiene che non vi sia alcun sospetto di incostituzionalita’ della disciplina introdotta dal legislatore del 2014, atteso che il tema dell’individuazione del termine finale di proponibilita’ della richiesta di ammissione al nuovo istituto involge all’evidenza scelte rimesse alla discrezionalita’ del legislatore, come tali insindacabili tranne il caso in cui risultino palesemente irragionevoli, come stabilito dalla Corte Costituzionale con la nota sentenza n. 393 del 2006 a proposito della norma transitoria della Legge n. 251 del 2005, articolo 10, comma 3, regolante l’applicazione retroattiva del piu’ favorevole regime di prescrizione introdotto con quella legge.

Tuttavia, proprio il ricordato carattere alternativo del procedimento di messa alla prova rispetto all’accertamento giudiziale penale non rende, a parere del collegio, irragionevole la fissazione del termine finale di presentazione della richiesta al momento della dichiarazione di apertura del dibattimento nel caso di procedimenti con citazione diretta a giudizio ai sensi dell’articolo 550 c.p.p. e segg..

Che, del resto, questa sia l’esegesi piu’ corretta e’ desumibile, a contrario, da un dato normativo ulteriore. Successivamente all’entrata in vigore della Legge n. 67 del 2014, infatti, e’ stata promulgata la Legge 11 agosto 2014, n. 118 che ha introdotto nella Legge n. 67 del 2014, l’articolo 15 bis (Norme transitorie), previsione concernente, tuttavia, il solo Capo III della legge e la disciplina ivi stabilita di sospensione del procedimento nei confronti degli irreperibili, ma non il Capo II relativo alla messa alla prova, confermando, dunque, a contrario, che non vi e’ stato da parte del legislatore alcun ripensamento quanto alla individuazione del termine finale di presentazione dell’istanza di cui all’articolo 464 bis c.p.p., comma 2.

9. Non meno significativa, infine, l’esegesi della nuova disciplina operata da questa Corte.

Ed infatti, nel pronunciarsi su analoga questione con cui si instava per l’applicabilita’ dell’istituto nel giudizio di legittimita’, questa Corte, nell’escludere che nel giudizio di cassazione l’imputato possa chiedere la sospensione del procedimento con la messa alla prova di cui all’articolo 168 bis c.p., ne’ possa altrimenti sollecitare l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio al giudice di merito, ha affermato, da un lato, che il beneficio dell’estinzione del reato, connesso all’esito positivo della prova, presuppone lo svolgimento di un “iter” processuale alternativo alla celebrazione del giudizio e, dall’altro, richiamando la gia’ citata sentenza della Corte costituzionale n. 263 del 2011, ha puntualizzato come non sia configurabile alcuna lesione del principio di retroattivita’ della “lex mitior”, che imponga, nonostante la mancanza di disposizioni transitorie ad hoc, l’applicazione della disciplina della sospensione del procedimento con messa alla prova nei giudizi di impugnazione – dunque sia davanti alla Corte d’appello che davanti alla Corte di Cassazione – pendenti alla data della sua entrata in vigore (Sez. F, n. 42318 del 09/09/2014 – dep. 10/10/2014, Valmaggi, Rv. 261096; Sez. F, n. 35717 del 31/07/2014 – dep. 13/08/2014, Ceccaroni, Rv. 259935).

10. Del resto, l’apertura in Appello o in Cassazione di una nuova “fase incidentale volta a consentire l’eventuale svolgersi della messa alla prova”, allungando i tempi del giudizio, andrebbe a cozzare con il principio della ragionevole durata del processo, oltreche’ con l’esigenza di evitare la eventuale dispersione di attivita’ processuali gia’ compiute. Sul punto, solo una disciplina transitoria, che prevedesse espressamente l’applicazione retroattiva delle nuove regole, potrebbe risolvere definitivamente il problema.

In conclusione, sulla base di quanto detto, puo’ dunque affermarsi il seguente principio di diritto:

“Nei giudizi di impugnazione davanti alla Corte d’appello e davanti alla Corte di Cassazione l’imputato non puo’ chiedere la sospensione del procedimento con la messa alla prova di cui all’articolo 168 bis c.p., ne’ puo’ altrimenti sollecitare l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio al giudice di merito, attesa l’incompatibilita’ dell’istituto introdotto dalla Legge n. 67 del 2014, con i predetti giudizi di impugnazione, perche’ il beneficio dell’estinzione del reato, connesso all’esito positivo della prova, presuppone lo svolgimento di un iter processuale alternativo alla celebrazione del giudizio. (In motivazione, la Corte ha evidenziato che, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 263 del 2011, non e’ configurabile alcuna lesione del principio di retroattivita’ della lex mitior, che imponga, nonostante la mancanza di disposizioni transitorie relative al Capo II della citata legge, l’applicazione della disciplina della sospensione del procedimento con messa alla prova nei giudizi di impugnazione pendenti alla data della sua entrata in vigore)”.

11. Il ricorso dev’essere, conclusivamente, rigettato. Segue, a norma dell’articolo 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

12. Solo per completezza va rilevato che non e’ ancora decorso il termine di prescrizione quinquennale del reato che, individuato il dies a quo nella data del sequestro (15/04/2010, giungera’ a maturazione in data 15/04/2015, successiva alla decisione di questa Corte.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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