CASSAZIONE

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 3 dicembre 2014, n. 50628

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SQUASSONI Claudia – Presidente

Dott. GAZZARA Santi – Consigliere

Dott. ACETO Aldo – Consigliere

Dott. GENTILI Andrea – Consigliere

Dott. SCARCELLA Alessio – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

– (OMISSIS), n. (OMISSIS);

avverso la sentenza della Corte d’appello di BOLOGNA in data 6/11/2013;

visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Alessio Scarcella;

udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. U. De Augustinis, che ha chiesto annullarsi con rinvio l’impugnata sentenza.

RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 6/11/2013, depositata in data 11/12/2013, la Corte d’appello di BOLOGNA, in parziale riforma della sentenza del tribunale di PIACENZA del 19/05/2010 appellata da (OMISSIS) dichiarava non doversi procedere in ordine al reato di cui all’articolo 8, d.lgs. n. 74/2000, limitatamente alle condotte relative all’anno 2004 perche’ estinto per prescrizione a seguito del riconoscimento dell’ipotesi attenuata di cui all’articolo 8, Decreto Legislativo citato, confermando nel resto l’impugnata sentenza (fatti contestati come commessi dal 2004 al 2009, con ultima fattura emessa in data 22/04/2009 dell’importo di euro 3.024,00 con causale “bancali usati Epal”).
2. Ha proposto ricorso il (OMISSIS), impugnando la predetta sentenza e deducendo nove motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex articolo 173 disp. att. c.p.p..
2.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di cui all’articolo 606 c.p.p., lettera b), per erronea applicazione della legge penale in relazione al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 8, comma 1, per difetto dell’elemento oggettivo; deduce altresi’ il vizio di cui all’articolo 606 c.p.p., lettera e), sotto il profilo del travisamento del fatto in riferimento alla condotta tipica sanzionata dalla norma contestata.
In sintesi, la censura investe l’impugnata sentenza per non aver la Corte d’appello applicato correttamente la norma contestata, riconducente erroneamente la condotta alla fattispecie di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 8, comma 1; poiche’ la fattura si intende formata solo quando presenta tutti i contenuti previsti dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1973, articolo 21, comma 2, nel caso in esame, in cui il ricorrente avrebbe consegnato un bollettario in bianco, il fatto non sarebbe sussumibile nella fattispecie penale; non sarebbe possibile un’estensione della previsione a fatti non tipicamente riconducibili alla fattispecie astratta di reato.
2.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di cui all’articolo 606 c.p.p., lettera b), per erronea applicazione della legge penale in relazione al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 8, comma 1, per difetto dell’elemento soggettivo ed erronea valutazione del contenuto del dolo specifico come richiesto dalla norma in esame.
In sintesi, la censura investe l’impugnata sentenza per aver la Corte d’appello ritenuto sussistente il dolo specifico normativamente richiesto nonostante l’elemento soggettivo risultasse pacificamente insussistente; la Corte territoriale avrebbe desunto l’esistenza del dolo dalle dichiarazioni del ricorrente di essersi determinato a commettere il fatto in quanto disoccupato, emettendo fatture fittizie nei confronti del destinatario che ne aveva necessita’; tali dichiarazioni avrebbero dovuto essere lette unitamente a quanto da questi dichiarato durante l’interrogatorio del 30/09/2009, in cui aveva riferito di essere stato costretto a commettere il reato per la grave situazione economica familiare; ne discenderebbe, dunque, che la finalita’ per cui il (OMISSIS) si era determinato ad agire era solo ed esclusivamente legata alla necessita’ di mantenere la propria famiglia; il ricorrente, inoltre, per il suo grado di scolarizzazione e le scarse cognizioni in materia tributaria, non sarebbe stato in grado di comprendere le finalita’ dell’azienda di ricevere le fatture fittizie e quindi che l’eventuale registrazione delle medesime avrebbe comportato una possibile evasione fiscale; il dolo richiesto, in sintesi, non e’ la consapevolezza della possibilita’ che si verifichi l’evento, ma la finalita’ specifica perseguita, nel caso di specie insussistente.
2.3. Deduce, con il terzo motivo, il vizio di cui all’articolo 606 c.p.p., lettera e), per omessa motivazione in ordine ai reati contestati per gli anni dal 2007 al 2009, per travisamento del fatto in relazione al medesimo periodo nonche’ per omessa valutazione della prova quanto all’applicazione della norma contestata per il medesimo periodo.
In sintesi, la censura investe l’impugnata sentenza per non aver la Corte d’appello motivato in ordine a due circostanze indicate nell’impugnazione (da un lato, non avrebbero tenuto conto che in relazione agli anni 2007/2009 il ricorrente aveva escluso di aver consegnato moduli in bianco e di aver percepito compensi; dall’altro, non avrebbero argomentato sul fatto che il timbro intestato alla ditta (OMISSIS), utilizzato per intestare i moduli negli anni 2007/2009, sarebbe stato differente da quello effettivamente consegnato dal ricorrente nel 2004 che indicava una sede diversa da quella che risulta dai moduli della ditta che li aveva ricevuti); l’iter criminoso degli anni 2004/2006 si sarebbe quindi interrotto rispetto al triennio successivo, circostanza in relazione alla quale difetterebbe qualsiasi argomentazione logica; inoltre, la Corte territoriale avrebbero ritenuto equivalente la dazione dei moduli con l’effettiva formazione e dazione della fattura, senza considerare che la consegna dei moduli da parte del (OMISSIS) sarebbe cessata nel 2006, sicche’ la circostanza che l’evento si sia verificato anche negli anni successivi non estende la consumazione del reato, che si arresterebbe nel 2006.
2.4. Deduce, con il quarto motivo, il vizio di cui all’articolo 606 c.p.p., lettera b), per l’erronea applicazione della recidiva ex articolo 99 c.p., comma 4.
In sintesi, la censura investe l’impugnata sentenza per aver la Corte d’appello erroneamente ritenuto applicabile la recidiva, essendo stato questi dichiarato recidivo per la prima volta con sentenza del tribunale di Piacenza, irrevocabile in data 9/02/2006; trattandosi di reato continuato, l’inizio della condotta criminosa del (OMISSIS) deve essere fissato nel 2004, ossia in periodo assolutamente precedente alla predetta sentenza; ai fini della dell’applicazione della recidiva, dunque, trattandosi di reato continuato, il termine di riferimento e’ l’inizio della commissione del reato considerato come reato base, quindi l’anno 2004, e non la permanenza della condotta penalmente sanzionata; non rileverebbe, del resto, la circostanza che nelle more del giudizio, il reato relativo al 2004 sia stato dichiarato prescritto, in quanto cio’ non modifica il termine iniziale della consumazione del reato.
2.5. Deduce, con il quinto motivo, il vizio di cui all’articolo 606 c.p.p., lettera b), per l’erronea applicazione della recidiva ex articolo 99 c.p., come modificato dalle legge n. 251/2005, in quanto operata in violazione dell’articolo 2 c.p..
In sintesi, la censura investe l’impugnata sentenza per aver la Corte d’appello erroneamente ritenuto applicabile la recidiva ex articolo 99, comma 4, nel testo successivo alle modifiche introdotte dalla legge n. 251/2005, in vigore dall’8/12/2005; poiche’ l’inizio della consumazione del reato risale al 2004, la normativa applicabile e’ quella vigente all’epoca dell’inizio della consumazione, dunque le modifiche del 2005 non possono esplicare i loro effetti deteriori retroattivamente.
2.6. Deduce, con il sesto motivo, il vizio di cui all’articolo 606 c.p.p., lettera b) e c), per l’erronea applicazione della pena, determinata in violazione di legge; deduce ancora l’omessa riduzione della pena, pur essendo stato dichiarato estinto per prescrizione il reato commesso nell’anno 2004, con conseguente violazione del principio della reformatio in peius.
In sintesi, la censura investe l’impugnata sentenza per aver la Corte d’appello erroneamente confermato la sentenza di condanna del primo giudice in punto di trattamento sanzionatorio, senza ridurre corrispondentemente la pena irrogata nonostante l’intervenuta declaratoria di estinzione per prescrizione del reato ascritto per l’anno 2004; inoltre, sarebbe illegittima la decisione della Corte d’appello di ritenere piu’ grave il reato commesso nell’anno 2006 alla luce del maggior importo riferito all’evasione, considerato che il primo giudice aveva ritenuto piu’ grave il fatto commesso nel 2004, non sussistendo impugnazione sul punto da parte del P.M..
2.7. Deduce, con il settimo motivo, il vizio di cui all’articolo 606 c.p.p., lettera b) ed e), per violazione di legge in relazione all’aumento a titolo di continuazione ex articolo 99 c.p., e correlato vizio di omessa motivazione.
In sintesi, la censura investe l’impugnata sentenza per aver la Corte d’appello erroneamente applicato un aumento della pena di due terzi per la recidiva contestata ex articolo 99 c.p., comma 4, senza tener conto che il reato base era stato commesso nell’anno 2004, sicche’ l’aumento non avrebbe potuto superare, tenuto conto del testo dell’articolo 99, antevigente alle modifiche introdotte dalla Legge n. 251 del 2005, la misura di un terzo della pena; inoltre i giudici di appello non avrebbero fornito alcuna motivazione in ordine alla determinazione della pena, cosi’ non consentendo al ricorrente di esplicare le proprie valutazioni difensive.
2.8. Deduce, con l’ottavo motivo, il vizio di cui all’articolo 606 c.p.p., lettera e), per l’omessa motivazione in ordine alla determinazione della pena ampiamente superiore al minimo edittale nonche’ per l’omessa motivazione in ordine alla valutazione dei requisiti di cui all’articolo 133 c.p..
In sintesi, la censura investe l’impugnata sentenza per non aver la Corte d’appello motivato in ordine ai criteri indicati dall’articolo 133 c.p., al fine di giustificare la determinazione di una pena superiore ai minimi edittali; vi sarebbe stato un mero richiamo di stile alle norme in tema di trattamento sanzionatorio.
2.9. Deduce, infine, con il nono motivo, il vizio di cui all’articolo 606 c.p.p., lettera e), per l’omessa motivazione in ordine al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche.
In sintesi, la censura investe l’impugnata sentenza per non aver la Corte d’appello motivato in ordine alle ragioni per cui non sono state riconosciute le circostanze attenuanti generiche; il comportamento collaborativo del ricorrente, le ragioni familiari che lo avrebbero indotto ad agire e le gravi difficolta’ economiche costituivano ragioni che i giudici di appello avrebbero dovuto prendere in esame per valutare la concedibilita’ o meno delle attenuanti generiche.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso e’ fondato per le ragioni di seguito esposte.
4. Seguendo l’ordine imposto dalla struttura dell’impugnazione di legittimita’ dev’essere esaminato il primo motivo, con cui il ricorrente censura l’impugnata sentenza per violazione di legge Decreto Legislativo n. 74 del 2000, ex articolo 8.
La tesi del ricorrente, in estrema sintesi, e’ che la consegna a terzi di semplici bollettari per l’emissione delle fatture, in bianco, completi di partita IVA dell’impresa e del timbro con la ragione sociale, non rientra nel campo di applicazione della fattispecie penale. A fondamento dell’assunto il ricorrente richiama la normativa tributaria, segnatamente ricordando che, poiche’ la fattura si intende formata solo quando presenta tutti i contenuti previsti dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1973, articolo 21, comma 2, nel caso in esame, in cui il ricorrente avrebbe consegnato un bollettario in bianco, il fatto non sarebbe sussumibile nella fattispecie penale cio’ in quanto non sarebbe possibile un’estensione della previsione a fatti non tipicamente riconducibili alla fattispecie astratta di reato.
5. Ritiene il Collegio fondato l’assunto difensivo, con alcune necessarie puntualizzazioni.
Il Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, con il quale il legislatore ha provveduto alla riforma del sistema penale tributario, ha ridefinito l’apparato sanzionatorio lungo una linea direttrice orientata alla semplificazione ed alla riduzione dell’intervento penale, non perdendo mai di vista l’obiettivo fondamentale, peraltro confermato dalla Relazione governativa, di tutelare energicamente gli interessi dell’Erario. Il decreto della riforma non ha pero’ fornito una definizione specifica del concetto di “fattura”, anche perche’, almeno apparentemente, non sembrano sussistere particolari difficolta’ interpretative riguardanti tale nozione, per la quale il legislatore allude ai documenti disciplinati dal Decreto del Presidente della Repubblica 633 del 1972, articolo 21. Taluna dottrina ha definito la “fattura” come documento fiscale in cui si ravvisa una “dichiarazione di scienza intesa ad attestare le cessioni di beni e le prestazioni di servizi”, di regola soggette all’imposta. Le fatture devono essere emesse per ciascuna operazione “imponibile” posta in essere, nonche’ in presenza di operazioni “non imponibili” o “esenti”, ai sensi del citato Decreto del Presidente della Repubblica 633 del 1972, articolo 21, e, relativamente alle operazioni comunitarie, del Decreto Legge n. 331 del 1993, articolo 46, convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 427 del 1993. Il legislatore ha provveduto alla minuziosa descrizione delle caratteristiche della fattura, prescrivendo che esse debbano essere datate e numerate in ordine progressivo e che debbano contenere una serie di indicazioni necessarie tra cui: a) la ditta; b) la denominazione o ragione sociale (o il nome e cognome nonche’ residenza o domicilio dei soggetti ai quali l’operazione e’ stata effettuata); c) il numero di partita IVA dell’emittente; d) i beni o servizi oggetto dell’operazione; e) la base imponibile, precisamente individuata nonche’ l’aliquota e l’ammontare dell’imposta.
Inoltre, per le fatture relative ad acquisti intracomunitari, e’ previsto che debbano contenere il numero di identificazione attribuito al cessionario o al committente dello Stato membro di appartenenza.
In ambito IVA, la fattura assume un’importanza fondamentale, giacche’ consente al cliente di ottenere la detrazione dell’imposta pagata al proprio fornitore sugli acquisti, per cui assume la funzione di “titolo di credito” nei confronti dello Stato; pertanto, laddove il contribuente riceva una fattura – a meno che non abbia diritto alla detrazione (si pensi ai casi delle operazioni esenti) – vantera’ un credito verso l’Erario pari all’imposta che risulta dalla fattura medesima. D’altronde, il citato Decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972, articolo 21, comma 7, (norma che fornisce una definizione di “fatture per operazioni inesistenti” valevole nel settore del diritto tributario, stabilendo che “se viene emessa fattura per operazioni inesistenti, ovvero se la nella fattura i corrispettivi dell’operazione o delle imposte relative sono indicate in misura superiore a quella reale, l’imposta e’ dovuta per l’intero ammontare indicato corrispondente alle indicazioni della fattura”) prevede l’obbligo di versare l’imposta per l’intero ammontare indicato in fattura, anche in seguito all’emissione di documenti per operazioni in tutto o in parte oggettivamente inesistenti, nonche’ in caso di soprafatturazione. E’ curioso riscontrare come il legislatore, in sede di redazione del testo unico in materia di IVA, non abbia menzionato l’ipotesi del cosiddetto “falso soggettivo”, nel quale, cioe’, l’operazione viene riferita a “soggetti diversi da quelli effettivi”; tale tipologia di inesistenza, invece, e’ stata espressamente prevista in seno al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 1, lettera a).
Occorre, infine, rilevare che tali fatture debbono essere emesse in duplice esemplare al momento dell’effettuazione della cessione o della prestazione, individuato Decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972, ex articolo 6.
Il legislatore tributario attribuisce, dunque, una sorta di “fede privilegiata” alla fattura, come si rileva dai numerosi e precisi obblighi di registrazione ed annotazione, nonche’ dal rilievo probatorio congiunto in ambito IVA ed imposte sui redditi. Taluna dottrina ha rilevato che, in materia di imposta sul valore aggiunto, la fatturazione costituisca “l’obbligo formale di centrale e fondamentale importanza” ai fini del peculiare meccanismo di applicazione dell’imposta in quanto, oltre a consentire il soddisfacimento delle “finalita’ documentative del singolo atto imponibile”, estrinsecandosi in una manifestazione di capacita’ contributiva, permette, altresi’, la realizzazione del meccanismo impositivo che si fonda sul “principio del diritto/obbligo di rivalsa” e sul correlativo diritto alla detrazione dell’imposta addebitata in via di rivalsa.
5.1. Condicio sine qua non perche’ tutto cio’ accada, tuttavia, e’ che di “fattura” si tratti nel senso “documentale” richiesto dal legislatore alla stregua del chiaro disposto del Decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972, articolo 21.
Orbene, analizzando i riflessi di tale asserzione nel campo penale tributario, non sfugge all’interprete come il Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 8, e’ norma che incrimina la falsita’ ideologica e non quella materiale della fattura e punisce, con espressione inequivoca, chi “emette o rilascia” fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. La condotta vietata (emettere o rilasciare), dunque, va riferita al documento “fattura” come qualificato dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972, articolo 21, o agli “altri documenti” cui si riferisce la norma in esame.
5.2. Un primo problema e’ quello di delimitare l’esatto perimetro applicativo della condotta, come detto, consistente nell'”emettere” o “rilasciare”.
La realizzazione del reato presuppone che l’agente tenga una condotta di tipo commissivo, che puo’ consistere dunque nell’emissione o, piu’ genericamente, nel rilascio di fatture o altri documenti idonei ad attestare il sostenimento di costi relativi ad operazioni inesistenti. La condotta si perfeziona mediante la consegna – o la spedizione – ad un terzo, potenziale utilizzatore, della documentazione predetta. Non e’ sufficiente, invece, per determinare la punibilita’ della condotta, la mera predisposizione di fatture ideologicamente false che non sia seguita dalla consegna ai soggetti che potrebbero beneficiarne. Per l’integrazione del delitto e’ sufficiente l’emissione anche di una sola fattura, non essendo previsto come necessario il raggiungimento di alcuna soglia di punibilita’, rilevando eventualmente i bassi importi riportati in fatture quale circostanza attenuante secondo la previsione di cui all’articolo 8, comma 3. La ragione di tale scelta del legislatore va rinvenuta nella circostanza che l’emittente di false fatture e’ in genere un contribuente dalle limitate possibilita’ economiche, con la conseguenza che prevedere in questi casi una soglia di punibilita’ significherebbe di fatto assicurare l’impunita’ a condotte di rilascio di documentazione relativa ad operazioni inesistenti che non raggiungano la soglia in questione. Per quanto concerne il primo, il verbo “emettere”, riferito alle fatture ed agli altri documenti non lascia spazio ad interpretazioni: il termine “fatture” contenuto nel Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 1, comma 1, lettera a), ad esempio, deve ritenersi comprensivo anche di quelle elettroniche e, nell’articolo 8 (emissione di fatture per operazioni inesistenti) il verbo “emette” deve riferirsi altresi’ alla trasmissione per via elettronica. In particolare, il reato puo’ considerarsi consumato all’atto della trasmissione per via elettronica in quanto, ai sensi dell’articolo 21, del Testo Unico sull’IVA, la fattura si considera emessa nel momento in cui viene spedita o consegnata alla controparte, ovvero all’atto della sua trasmissione per via elettronica. Quanto, poi, alla condotta consistente nel “rilasciare” le predette fatture o documenti, ben si attaglia ad esempio, alle “ricevute” rilasciate a fini di prova civilistica o, piu’ in generale, alle “ricevute fiscali” che, com’e’ noto, devono essere rilasciate Legge n. 249 del 1976, ex articolo 8, da determinate categorie di contribuenti in relazione ad “operazioni per cui non risulta obbligatoria all’emissione della fattura”, tra cui, ad esempio, i soggetti che provvedono alla somministrazione di pasti e bevande e i soggetti che provvedono a somministrazioni alberghiere. Ancora, la nozione si riferisce agli scontrini fiscali i quali vengono rilasciati nel rispetto della disciplina di cui alla Legge 26 gennaio 1983, n. 18, (Obbligo da parte di determinate categorie di contribuenti dell’imposta sul valore aggiunto di rilasciare uno scontrino fiscale mediante l’uso di speciali registratori di cassa), relativamente ad operazioni per cui non sia prescritto l’obbligo di fattura e il cui rilascio puo’ essere imposto ai contribuenti indicati nel Decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972, articolo 22, purche’, anche in questo caso, specificamente individuati a tal fine da appositi decreti ministeriali. Lo scontrino fiscale va rilasciato, ad esempio, in caso di cessioni effettuate in locali aperti al pubblico o in spacci interni, per le quali non e’ obbligatoria l’emissione della fattura e, inoltre, in caso di somministrazioni in pubblici esercizi di alimenti e bevande non soggette all’obbligo del rilascio della ricevuta fiscale.
5.3. Ovviamente, pero’, la circostanza di piu’ frequente verificazione e’ quella del rilascio di una pluralita’ di documenti per operazioni inesistenti.
Il Decreto Legislativo n. 74 del 2000, non ha provveduto ad elencare i documenti fiscalmente rilevanti ai fini della configurazione dei reati di frode fiscale. Pertanto – come gia’ rilevato in dottrina durante il periodo di vigenza della Legge n. 516 del 1982 – tale compito e’ stato inevitabilmente attribuito agli interpreti, che si sono interrogati sulla portata del termine “norme tributarie” richiamato nel Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 1, lettera a), che ha influenzato notevolmente nell’individuazione dei documenti aventi analogo peso probatorio nel sistema penale tributario.
C’e’ da dire che nello schema preliminare di decreto delegato compariva una definizione leggermente differenziata da quella utilizzata nel testo definitivo del Decreto Legislativo n. 74 del 2000, in cui, appunto, si faceva riferimento ai documenti aventi “rilievo probatorio ai fini fiscali”. La relazione allo schema preliminare specificava che i documenti avuti di mira dovevano “possedere, nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, nel caso concreto, un’attitudine alla prova delle operazioni che ne risultano non dissimile da quella delle fatture”. Al fine di evitare, quindi, che tale espressione potesse allargare oltremodo l’area di applicazione della norma incriminatrice, il legislatore ha optato per un’indicazione piu’ stringente; pertanto, ha escluso la rilevanza penale della falsita’ riguardante i documenti di natura contabile ma privi di rilievo fiscale, limitando, di fatto, l’ambito applicativo della disposizione e individuando il “metro” piu’ semplice, ossia il “riferimento normativo con rilievo fiscale specifico”. Alla luce di tale interpretazione, tra gli “altri documenti” viene ricompresa tutta quella documentazione – ulteriore rispetto alle fatture – che comunque assume uno specifico rilievo fiscale sulla base della esplicita previsione legislativa.
I medesimi documenti, pertanto, devono necessariamente riguardare “operazioni” e “corrispettivi”; cio’ induce a circoscrivere la nozione a quei soli documenti che svolgono una funzione omologa a quella della fattura nell’attestare determinati rapporti, ovvero integrano o potenziano la funzione ad essa attribuita. Si deve, quindi, trattare di documenti “fiscalmente tipici” nonche’ idonei a far prova nei confronti dell’Amministrazione finanziaria dell’effettuazione di cessioni di beni o prestazioni di servizi. Non possono essere ricompresi quei documenti che risultano equiparati alle fatture in forza di decreti ministeriali e di altri atti di normazione secondaria o terziaria. Cio’ consente di escludere, ad esempio, la rilevanza fiscale dei “buoni consegna” delle merci e delle “ricevute” rilasciate a fini di prova civilistica.
Il parametro di assimilazione viene, quindi, individuato nella natura “funzionale” di tali documenti, che consente di equipararli alle fatture laddove possano sostituirle, integrarle, o ampliarne la funzione. D’altro canto, come gia’ accennato, il riferimento al rinvio normativo e la mancata elencazione tassativa dei documenti fiscalmente rilevanti lascia aperto il novero delle possibilita’ di individuazione di documenti rilevanti; cio’ consente, soprattutto, di evitare che l’evoluzione del sistema legislativo e degli istituti tributari non rappresenti un elemento di inefficienza rispetto alla previsione penale tributaria. Di certo, infatti, l’elencazione tassativa dei documenti aventi rilevanza fiscale avrebbe comportato la mancata configurazione dei reati di cui al decreto novellato in caso di utilizzo di documenti non rientranti nell’elenco tassativo predisposto, anche qualora esprimessero la medesima “pericolosita’ fiscale” di quelli rientranti nell’elenco.
Sulla base di quanto disposto dal Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 1, comma 1, lettera a), sembra essere ancora attuale il pensiero della dottrina formatasi durante la vigenza della Legge n. 516 del 1982, articolo 4, lettera d), secondo la quale “non puo’ trattarsi di qualsivoglia documento di carattere fiscale, poiche’ altrimenti si rischia di violare il principio di tassativita’ della previsione normativa”.
Rientrano, quindi, nell’elenco de quo, tutti i documenti idonei a supportare l’esposizione fittizia di “elementi passivi” e che – avendo valore probatorio in ambito tributario – consentano di variare l’imponibile e di perpetrare un’evasione dell’imposta a fronte di un’operazione inesistente, ossia non realmente accaduta.
Taluna dottrina si e’ soffermata con particolare attenzione sul problema dell’ampiezza da attribuire in ambito interpretativo all’inciso “norme tributarie” contenuto dell’articolo 1, lettera a). Tale questione assume particolari risvolti a seconda che per “norme tributarie” si alluda alle disposizioni “che disciplinano direttamente un dato documento, e in particolare il suo rilievo probatorio, rendendolo analogo a quello attribuito alla fattura”, o si faccia riferimento altresi’ alle “norme che disciplinano determinati istituti di diritto tributario (componenti di reddito, oneri deducibili ecc.)”, al fine di rendere “rilevante il contenuto probatorio di un dato documento, assimilandolo alla fattura”.
Talvolta, la giurisprudenza di questa Corte ha attribuito rilievo probatorio analogo alla fattura anche a documenti di natura diversa, assimilando, sul piano probatorio, la fattura a documentazione cosiddetta “atipica” (Sez. 3, n. 46785 del 10/11/2011 – dep. 19/12/2011, P.M. in proc. Acitorio, Rv. 251621 relativa ad una condotta di frode fiscale consistente nella falsa dichiarazione di avere sostenuto spese mediche, per le quali spetta la detrazione IRPEF del 19%, con allegazione di fatture o documenti equipollenti materialmente falsi apparentemente emessi da cliniche private). D’altronde, anche il legislatore tributario individua spesso fattispecie in cui “una certa documentazione e’ equiparata alla fattura dal punto di vista dell’idoneita’ probatoria alla dimostrazione del sostenimento di una spesa deducibile da parte del contribuente” (v. ad esempio, il Decreto Ministeriale 17 Gennaio 2000, punto 1.8.).
Pur tuttavia, la medesima dottrina, ha inteso evidenziare come l’estensione in ambito penale dell’equiparazione – a livello probatorio – di tali documenti “atipici” alle fatture, in applicazione della disciplina relativa a determinati istituti tributari, comporterebbe, automaticamente, l’annullamento dell’effetto repressivo voluto dal legislatore della riforma relativamente agli “altri documenti” rispetto a quanto disposto dalla formulazione previgente, contenuta nella Legge n. 516 del 1982, articolo4, comma 1, lettera d). Sarebbe sufficiente, infatti, cercare in seno allo sconfinato sistema tributario norme che, pur non disciplinando direttamente un dato documento, gli attribuiscano rilievo probatorio analogo la fattura, per estendere smisuratamente il campo di applicazione delle fattispecie penalmente rilevanti previste dal Decreto Legislativo n. 74 del 2000.
Per un verso, dall’analisi del Decreto Legislativo n. 74 del 2000, sembrerebbe emergere la correttezza di tale interpretazione estensiva laddove il legislatore ha posto l’accento sulla idoneita’ di tali documenti all’attestazione di “elementi passivi fittizi”; pertanto, in presenza di documenti falsi che, analogamente alle fatture, risultino idonei a dimostrare che il contribuente ha sostenuto un costo, genericamente inteso, possono configurarsi le condotte penalmente rilevanti previste dal decreto della riforma. Anche il Ministero delle Finanze sembra aver sposato codesta interpretazione “penalizzante”, affermando, in seno alla Circolare 4 agosto 2000, n. 154/E che “tra gli altri documenti possono annoverarsi (…) le ricevute e gli altri documenti attestanti comunque oneri, spese e costi fittizi”.
5.4. Tuttavia, alcuni Autori hanno fortemente criticato il suddetto orientamento, evidenziando che tale interpretazione consente di attribuire rilevanza penale a tutti i documenti che abbiano una benche’ minima attinenza con la fattispecie tributaria. Tali critiche sono state fondate, peraltro, su una serie di considerazioni che sembrano far emergere profili di criticita’ di rilevante portata.
Si e’ affermato, in primis, che l’articolo 1, lettera a), risulterebbe “costituzionalmente illegittimo” per violazione del principio di legalita’, sub specie di “tassativita’ – determinatezza”, laddove si attribuisca rilevanza penale a tutti i documenti che risultino genericamente idonei ad attestare il sostenimento di un costo.
Inoltre, alla luce di quest’interpretazione estensiva, risulterebbe incomprensibile la ratio seguita dal legislatore della riforma che, da una parte, ha introdotto una definizione restrittiva di altri documenti in seno all’articolo 1, e dall’altra ne ha disconosciuto la portata. Infine, chi ha sostenuto tale tesi sembra non aver considerato l’eccezionalita’, in seno all’ordinamento penale, delle fattispecie previste dal Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articoli 2 ed 8, che puniscono le ipotesi di falsificazione ideologica in scrittura privata, disponendo, tra l’altro, le pene piu’ severe in seno al decreto novellato. Cio’, di per se’, dovrebbe indurre a selezionare le condotte connotate da particolare gravita’, in termini di portata decettiva del comportamento del contribuente rispetto alle pretese erariali, in quanto una generalizzata estensione della punibilita’, realizzata, nell’ipotesi considerata, attraverso l’allargamento indiscriminato della portata della definizione in esame, condurrebbe ad una pletora di procedimenti penali per fatti bagattellari, in controtendenza rispetto alla “voluntas legis”.
I medesimi autori, pertanto, si sono impegnati ad individuare una valida soluzione a tale questione interpretativa, affermando che occorre individuare i documenti fiscalmente rilevanti sulla base della loro specifica disciplina e non su quella della fattispecie tributaria che ad essi rimanda. Secondo tale teoria, quindi, il legislatore, con l’inciso “norme tributarie”, ha inteso riferirsi alla disciplina specifica di un documento “innominato”, che attribuisce al medesimo un valore probatorio privilegiato, analogo a quello della fattura; cio’ consentirebbe di restringere notevolmente la portata delle norme incriminatrici aventi ad oggetto fatture ed altri documenti fasulli. D’altronde, sembra palese la rilevanza fiscale della fattura per cui risulterebbe ingiustificato adottare “opzioni esegetiche che comportino uno svilimento della funzione esercitata dal documento, quale deriverebbe dall’allargamento, verso il basso, del numero dei documenti ad essi assimilabili”.
Non sarebbe, altrimenti, giustificata la previsione delle piu’ gravi sanzioni per i reati che si configurano in seguito all’emissione o all’utilizzo di fatture o altri documenti falsi; tali pene sono giustificate solamente qualora codesti documenti innominati risultino in tutto e per tutto parificabili, per via normativa, ex articolo 1, alle fatture.
Infine, per completare la disamina delle caratteristiche che devono contraddistinguere tali documenti, sembra necessario menzionare la “definitivita’”, per cui e’ esclusa l’integrazione del reato, allorche’ l’emissione sia stata seguita, ad esempio, da una nota di variazione. Codesti atti, infatti, hanno “una funzione complementare nella rappresentazione della realta’ del rapporto negoziale, con i mutamenti che nell’iter della sua formazione possono intervenire in conformita’ alle volonta’ delle parti”.
5.5. Ed allora, conclusivamente, escluso che una fattura priva dei requisiti indicati dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972, articolo 21, comma 2, possa qualificarsi come tale ne’ come documento in tutto e per tutto parificabile, per via normativa, ex articolo 1, alle fatture propriamente dette (tant’e’ che la giurisprudenza civilistica, da un lato, ha chiarito che l’omessa indicazione nelle fatture dei dati prescritti dal Decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, articolo 21, integra quelle gravi irregolarita’ che, ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, articolo 39, legittimano l’Amministrazione finanziaria a ricorrere all’accertamento induttivo del reddito imponibile: Sez. 5, Sentenza n. 5748 del 10/03/2010, Rv. 612101; dall’altro, che l’irregolarita’ della fattura, non redatta in conformita’ ai requisiti di forma e contenuto prescritti dal Decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, articolo 21, fa venir meno la presunzione di veridicita’ di quanto in essa rappresentato e la rende inidonea a costituire titolo per il contribuente ai fini del diritto alla deduzione del costo relativo, per cui l’Amministrazione finanziaria puo’ contestare l’effettivita’ delle operazioni ad essa sottese e ritenere indeducibili i costi nella stessa indicati: Sez. 5, Sentenza n. 21446 del 10/10/2014, Rv. 632508), ne discende che la stessa non puo’ essere corrispondentemente qualificata come “emessa” ai sensi del Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 8.
Piuttosto, rileva il Collegio come, nel caso in esame, e’ il terzo, cui il documento in bianco (non ancora fattura) e’ stato consegnato, che ha provveduto a formare la fattura falsa. Difetta, dunque, nella fattispecie concreta, la condotta di “emissione”, dovendosi piuttosto parlare di “formazione” da parte di un soggetto diverso dell’emittente. Ed e’ pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che chi commette un falso materiale non e’ punibile Decreto Legislativo n. 74 del 2000, ex articolo 8, ma risponde del delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti Decreto Legislativo n. 74 del 2000, ex articolo 2, configurabile nel caso di utilizzazione di fatture o documenti sia ideologicamente che materialmente falsi (Sez. 3, n. 46785 del 10/11/2011 – dep. 19/12/2011, P.M. in proc. Acitorio, Rv. 251621), delitto in relazione al quale e’ punibile l’attuale ricorrente quale concorrente ex articolo 110 c.p..
D’altronde, si osserva, il regime previsto dal Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 9, che esclude la possibilita’ di concorso reciproco fra il reato previsto dall’articolo 2 (dichiarazione fraudolenta mediante utilizzazione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti) e quello previsto dall’articolo 8 (emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti), ha la finalita’ di evitare che la medesima condotta sostanziale sia punita due volte, ma non introduce alcuna deroga ai principi generali in tema di concorso di persone nel reato, fissati dall’articolo 110 c.p.: puo’ quindi configurarsi una responsabilita’ a titolo di concorso del (OMISSIS) nella condotta del destinatario del bollettario in bianco che, formando la fattura, ha integrato il delitto di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 2.
6. La diversita’ del fatto e l’impossibilita’ per questa Corte di procedere alla riqualificazione giuridica “ex officio” (non essendo quest’ultima stata rappresentata al difensore dell’imputato, in modo che la parte abbia potuto beneficiare di un congruo termine per apprestare la propria difesa: Sez. 2, n. 37413 del 15/05/2013 – dep. 12/09/2013, Drassich, Rv. 256653), impone l’annullamento senza rinvio dell’impugnata sentenza e di quella di primo grado, con trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Piacenza per nuovo giudizio sul fatto correttamente qualificato.
Quanto sopra determina, all’evidenza, l’assorbimento degli ulteriori motivi di ricorso.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio l’impugnata sentenza e quella del GUP del 19 maggio 2010, e dispone trasmettersi gli atti al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di PIACENZA.

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