cassazione 8

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 5 maggio 2015, n. 18501

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 15/11/2013 la Corte d’appello di Bari ha confermato la sentenza del 13/04/2012, impugnata dal solo imputato, con la quale il Tribunale di quello stesso capoluogo aveva dichiarato il sig. R.G. colpevole, nella sua qualità di legale rappresentante della “Ipo Plastic Sri”, dei reati di cui all’art. 10-ter, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, commessi in relazione ai periodi di imposta 2005 e 2006, e, ritenuti gli stessi avvinti da un unico disegno criminoso, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche, lo aveva condannato alla pena di otto mesi di reclusione.
Si contesta all’imputato, nella sua già indicata qualità, di aver omesso il versamento, nel termine previsto per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo, dell’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alle dichiarazioni annuali 2006 e 2007 per i periodi di imposta 2005 e 2006, pari rispettivamente a Euro 86.673,00 per l’anno di imposta 2005, e ad Euro 128.778,00 per l’anno di imposta 2006.
La Corte di appello ha ritenuto infondati i rilievi difensivi secondo i quali non sussisteva il dolo di evasione sol perché i corrispettivi fatturati non erano mai state incassati.
Secondo i giudici distrettuali tale circostanza non esclude il dolo generico; semmai, affermano, potrebbe integrare lo stato di necessità che però hanno ritenuto insussistente a causa della genericità delle allegazioni difensive ed in considerazione della reiterazione della condotta per due anni consecutivi.
2. Per l’annullamento della sentenza propongono ricorso per cassazione il Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Bari e l’imputato.
Entrambi i ricorrenti eccepiscono, in buona sostanza, la mancata considerazione delle pessime condizioni economiche in cui versava la società alla scadenza dei termini previsti dai versamenti quale fatto che, incidendo sulla effettiva volontà di commettere il delitto, avrebbe dovuto comportante l’assoluzione dell’imputato per mancanza di dolo; mancanza di volontà ulteriormente desumibile dalla circostanza che in ogni caso l’imputato era stato ammesso a pagare (e stava pagando) ratealmente il dovuto.
L’imputato ulteriormente evidenzia che l’omesso versamento era dovuto alla mancata riscossione dell’IVA da parte di clienti insolventi o falliti, circostanza questa che aveva aggravato la crisi di liquidità dell’impresa.
Quale ulteriore motivo di doglianza, il R. adduce l’insufficienza della motivazione circa la quantificazione della pena.

Considerato in diritto

3. I ricorsi sono infondati.
4. È necessario premettere che la Corte costituzionale, con sentenza 7-8 aprile 2014, n. 80 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 17 del 16 aprile 2014 – Prima serie speciale), ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 10-ter, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, nella parte in cui, con riferimento ai fatti commessi sino al 17 settembre 2011, punisce l’omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla relativa dichiarazione annuale, per importi non superiori, per ciascun periodo di imposta, ad Euro 103.291,38.
4.1. La sentenza della Corte delle leggi incide su un elemento costitutivo del reato privando il fatto per quale si procede di penale rilevanza.
4.2. Si tratta di considerazione che, per quanto riguarda l’anno di imposta 2005, impone l’annullamento, senza rinvio, della sentenza impugnata “in parte qua” perché il fatto non sussiste.
5. Quanto al residuo anno di imposta, osserva il Collegio quanto segue.
5.1. Gran parte delle questioni sollevate con l’odierno ricorso trovano risposta negli approdi ermeneutici di Sez. U., n. 37424 del 28/03/2103, Romano, Rv. 255757, secondo la quale: a) il reato in esame è punibile a titolo di dolo generico e consiste nella coscienza e volontà di non versare all’Erario le ritenute effettuate nel periodo considerato, non essendo richiesto che il comportamento illecito sia dettato dallo scopo specifico di evadere le imposte; b) la prova del dolo è insita in genere nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo di imposta, e che deve, quindi, essere saldato o almeno contenuto non oltre la soglia, entro il termine lungo previsto; c) il debito verso il fisco relativo ai versamenti IVA è normalmente collegato al compimento delle operazioni imponibili. Ogni qualvolta il soggetto d’imposta effettua tali operazioni riscuote già (dall’acquirente del bene o del servizio) l’IVA dovuta e deve, quindi, tenerla accantonata per l’Erario, organizzando le risorse disponibili in modo da poter adempiere all’obbligazione tributaria. L’introduzione della norma penale, stabilendo nuove condizioni e un nuovo termine per la propria applicazione, estende evidentemente la detta esigenza di organizzazione su scala annuale. Non può, quindi, essere invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine lungo, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta (protrattasi, in sede di prima applicazione della norma, nella seconda meta del 2006) di non far debitamente fronte alla esigenza predetta.
5.2. Sviluppando e riprendendo il tema della “crisi di liquidità” d’impresa quale fattore in grado di escludere la colpevolezza, tema solo accennato nella citata sentenza delle Sezioni Unite, questa Corte ha ulteriormente precisato che è necessario che siano assolti, sul punto, precisi oneri di allegazione che devono investire non solo l’aspetto della non imputabilità al contribuente della crisi economica che improvvisamente avrebbe investito l’azienda, ma anche la circostanza che detta crisi non potesse essere adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso ad idonee misure da valutarsi in concreto.
5.3. Occorre cioè la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse economiche e finanziarie necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di un’improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili (Sez. 3, 9 ottobre 2013, n. 5905/2014; Sez. 3, n. 15416 del 08/01/2014, Tonti Sauro; Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013, Mercutello, Rv. 258055).
6. Tanto premesso, si osserva che nel caso di specie le allegazioni del Procuratore Generale e del ricorrente sono del tutto generiche e non riescono a supportare le eccezioni di inesigibilità della condotta o comunque di sussistenza della forza maggiore.
6.1. Occorre però sgombrare preliminarmente il campo da un equivoco di fondo che rischia di alterare la corretta impostazione dogmatica del problema: per la sussistenza del reato in questione non è richiesto il fine di evasione, tantomeno l’intima adesione del soggetto alla volontà di violare il precetto.
6.2. Quando il legislatore ha voluto attribuire all’elemento soggettivo del reato il compito di concorrere a tipizzare la condotta e/o quello di individuare il bene/valore/interesse con essa leso o messo in pericolo, lo ha fatto in modo espresso, escludendo, per esempio, dall’area della penale rilevanza le condotte solo eventualmente (e dunque non intenzionalmente) volte a cagionare l’evento (art. 323, cod. pen., artt. 2621, 2622, 2634, cod. civ., art. 27, comma 1, d.lgs. 27 gennaio 2010, n. 39), incriminando, invece, quelle ispirate da un’intenzione che va oltre la condotta tipizzata (i reati a dolo specifico), attribuendo rilevanza allo scopo immediatamente soddisfatto con la condotta incriminata (per es., art. 424 cod. pen.), assegnando al momento finalistico della condotta stessa il compito di individuare il bene offeso (artt. 393 e 629 cod. pen., 416, 270, 270-bis, 305, cod. penv 289-bis, 630, 605, cod. pen.).
6.3. Il dolo del reato in questione è integrato, dunque, dalla condotta omissiva posta in essere nella consapevolezza della sua illiceità, non richiedendo la norma, quale ulteriore requisito, un atteggiamento antidoveroso di volontario contrasto con il precetto violato.
6.4. È noto che la forza maggiore esclude la “suitas” della condotta.
6.5. Secondo l’impostazione tradizionale, è la “vis cui resisti non potest”, a causa della quale l’uomo “non agit sed agitur” (Sez. 1, n. 900 del 26/10/1965, Sacca, Rv. 100042; Sez. 2, n. 3205 del 20/1271972, Pilla, Rv. 123904; Sez. 4, n. 8826 del 21/0471980, Ruggieri, Rv. 145855).
6.6. Per questa ragione, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la forza maggiore rileva come causa esclusiva dell’evento, mai quale causa concorrente di esso (Sez. 4, n. 1492 del 23/11/1982, Chessa, Rv. 157495; Sez. 4, n. 1966 del 06/12/1966, Incerti, Rv. 104018; Sez. 4 n. 2138 del 05/12/1980, Biagini, Rv. 148018); essa sussiste solo e in tutti quei casi in cui la realizzazione dell’evento stesso o la consumazione della condotta antigiuridica è dovuta all’assoluta ed incolpevole impossibilità dell’agente di uniformarsi al comando, mai quando egli si trovi già in condizioni di illegittimità (Sez 4, n. 8089 del 13/0571982, Galasso, Rv. 155131; Sez. 5, n. 5313 del 26/03/1979, Geiser, Rv. 142213; Sez. 4, n. 1621 del 19/01/1981, Sodano, Rv. 147858; Sez. 4 n. 284 del 18/02/1964, Acchiardi, Rv. 099191).
6.7. Poiché la forza maggiore postula la individuazione di un fatto imponderabile, imprevisto ed imprevedibile, che esula del tutto dalla condotta dell’agente, sì da rendere ineluttabile il verificarsi dell’evento, non potendo ricollegarsi in alcun modo ad un’azione od omissione cosciente e volontaria dell’agente, questa Suprema Corte ha sempre escluso, quando la specifica questione è stata posta, che le difficoltà economiche in cui versa il soggetto agente possano integrare la forza maggiore penalmente rilevante. (Sez. 3, n. 4529 del 04/12/2007, Cairone, Rv. 238986; Sez. 1, n. 18402 del 05/04/2013, Giro, Rv. 255880; Sez 3, n. 24410 del 05/04/2011, Bolognini, Rv. 250805; Sez. 3, n. 9041 del 18/09/1997, Chiappa, Rv. 209232; Sez. 3, n. 643 del 22/10/1984, Bottura, Rv. 167495; Sez. 3, n. 7779 del 07/05/1984, Anderi, Rv. 165822).
6.8. Costituisce corollario di queste affermazioni il fatto che nei reati omissivi integra la causa di forza maggiore l’assoluta impossibilità, non la semplice difficoltà di porre in essere il comportamento omesso (Sez. 6, n. 10116 del 23/03/1990, Iannone, Rv. 184856).
6.9. Ne consegue che: a) il margine di scelta esclude sempre la forza maggiore perché non esclude la suitas della condotta; b) la mancanza di provvista necessaria all’adempimento dell’obbligazione tributaria penalmente rilevante non può pertanto essere addotta a sostegno della forza maggiore quando sia comunque il frutto di una scelta/politica imprenditoriale volta a fronteggiare una crisi di liquidità; c) non si può invocare la forza maggiore quando l’inadempimento penalmente sanzionato sia stato con-causato dai mancati accantonamenti e dal mancato pagamento alla singole scadenze mensili e dunque da una situazione di illegittimità; d) l’inadempimento tributario penalmente rilevante può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore che non ha potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico.
6.10. Alla luce delle considerazioni che precedono, appaiono in tutta la loro inconsistenza le tesi dei ricorrenti volte da un lato a giustificare la condotta omissiva con le pessime condizioni economiche in cui versava l’impresa dell’imputato (a loro volta genericamente supportate dalla “situazione socioeconomica mondiale” che, secondo il PG ricorrente, costituisce fatto notorio che dovrebbe innervare l’interpretazione della norma applicabile al caso concreto, ma che in realtà rischia di trasformarsi in una formula astratta utilizzabile come grimaldello per scardinare i precisi oneri probatori che incombono su chi allega la crisi di impresa) e con il mancato pagamento delle fatture (ricorso dell’imputato); dall’altro a ritenere l’insussistenza dell’elemento soggettivo del reato sol perché l’imputato ha successivamente chiesto ed ottenuto il pagamento rateale del debito.
6.11. Quanto al mancato pagamento delle fatture (e dunque all’impossibilità di accantonare somme mai riscosse), rileva ulteriormente il Collegio che le deduzioni difensive solo del tutto generiche poiché ricalcano, pressoché alla lettera, i motivi di appello.
6.12. I giudici distrettuali, peraltro, non hanno sostenuto che l’argomento è di per sé irrilevante; ne hanno stigmatizzato la genericità perché, avuto riguardo anche al lungo periodo in contestazione, il ricorrente non ha mai indicato con la necessaria precisione a quali e quante operazioni imponibili non abbia fatto seguito il pagamento effettivo delle somme fatturate.
7. Sono del tutto generiche le doglianze mosse dal ricorrente in ordine al trattamento sanzionatorio, del quale lamenta l’eccessiva severità, tanto più se si considera che la pena posta dal primo giudice a base dei propri calcoli (nove mesi di reclusione) è prossima al minimo edittale.
7.1. È noto il costante insegnamento di questa Corte secondo il quale, in generale, “in tema di determinazione della pena, quanto più il giudice intenda discostarsi dal minimo edittale, tanto più ha il dovere di dare ragione del corretto esercizio del proprio potere discrezionale, indicando specificamente quali, tra i criteri, oggettivi o soggettivi, enunciati dall’art. 133 c.p., siano stati ritenuti rilevanti ai fini di tale giudizio, dovendosi perciò escludere che sia sufficiente il ricorso a mere clausole di stile, quali il generico richiamo alla entità del fatto e alla personalità dell’imputato” (così, in motivazione, Sez. 6, n. 35346 del 12/06/2008, Bonarrigo; cfr. anche Sez. 1, n. 2413 del 13/03/2013, Pachiarotti; Sez. 6, n. 2925 del 18/11/1999, Baragiani).
7.2. Si può far ricorso esclusivo a tali clausole, così come a espressioni del tipo: “pena congrua”, “pena equa”, “congruo aumento”, solo quando il Giudice non si discosti molto dai minimi edittali (Sez. 1, n. 1059 del 14/02/1997, Gagliano; Sez. 3, n. 33773 del 29/05/2007, Ruggieri) oppure quando, in caso di pene alternative, applichi la sanzione pecuniaria, ancorché nel suo massimo edittale (Sez. 1, n. 40176 del 01/10/2009, Russo; Sez. 1, n. 3632 del 17/01/1995, Capelluto).
7.3. Nel caso di specie, come visto, i Giudici di merito hanno ritenuto congrua una pena prossima al minimo edittale, stimandola equa alla luce dei criteri di cui all’art. 133, cod. pen., ed al comportamento tenuto dall’imputato che gli è valso il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
7.4. L’annullamento parziale della sentenza impugnata comporta che debba (e possa già in questa sede) essere eliminata la parte di pena attribuita all’annualità di imposta 2005, quantificata in sede di merito nella misura di due mesi di reclusione.
7.5. Non v’è dunque necessità del rinvio alla Corte di appello di Bari.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla violazione relativa all’anno di imposta 2005 perché il fatto non sussiste ed elimina la relativa pena di mesi due di reclusione.
Rigetta nel resto i ricorsi.

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