Cassazione 4

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 6 ottobre 2014, n. 41383

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 28 gennaio 2013 il Tribunale di Parma ha condannato G.R. alla pena di € 800 di ammenda per il reato di cui agli articoli 5, lett. b), e 6 1.283/1962 perché deteneva alimenti in stato di cattiva conservazione per somministrarli a clienti di una mensa aziendale da lui gestita.
2. Ha presentato appello, convertito in ricorso, il difensore, che chiede l’assoluzione ex art.530, comma 2, c.p.p. perché sarebbe insufficiente il pericolo presunto ex art.5, lett. b), 1.283/1962, essendo necessario un reale pregiudizio; difetterebbe inoltre la prova della destinazione a terzi degli alimenti in questione.

Considerato in diritto

3. Il ricorso è infondato.
L’unico motivo, proposto dal ricorrente in modo assai conciso, adduce che la sentenza di condanna si fonda sulla natura di reato di pericolo presunto della norma incriminatrice e sulla destinazione a terzi degli alimenti sottoposti a sequestro. Il primo profilo non sarebbe condivisibile, trattandosi invece di reato di danno. Inoltre, la destinazione a terzi è stata data “pressoché per scontata” dal giudice di prime cure, laddove sarebbe stato invece ragionevole ritenere che gli alimenti poi sequestrati non sarebbero stati utilizzati per il consumo in mensa.
Per quanto concerne, allora, la natura del reato, il Tribunale lo ha qualificato reato di pericolo presunto, in adesione a una giurisprudenza di legittimità che ha definito come la più recente al riguardo. Questo rilievo è chiaramente attinente a un noto, ma ormai risalente, arresto delle Sezioni Unite cui fa riferimento nella sua censura il ricorrente. Invero S.U. 9 gennaio 2002 n. 443 hanno definito la fattispecie in questione come reato di danno, nel senso peraltro dell’assicurazione di una protezione immediata dell’interesse dei consumatore, come è stato evidenziato anche da una recentissima pronuncia di questa Terza Sezione penale (17 gennaio 2014 n. 6108) che ha ricostruito l’evoluzione dell’interpretazione della fattispecie come si è sviluppata dopo l’intervento delle Sezioni Unite. Il danno che deve essere frutto della condotta criminosa è stato identificato in una lesione del c.d. ordine alimentare, integrata non da una condizione ammalorata degli alimenti, bensì dalla violazione delle regole – normative o, in loro mancanza, dettate dalla comune esperienza – che disciplinano le modalità di conservazione degli alimenti stessi (oltre alla giurisprudenza già richiamata, cfr. ex multis Cass. sez. III, 26 febbraio 2014 n. 17000; Cass. sez. III, 28 novembre 2012-1 agosto 2013 n. 33313; Cass. sez. III, 20 aprile 2010 n. 15094; Cass. sez. III, 21 settembre 2007 n. 35234; Cass. sez. III, 2 settembre 2004 n. 35828). Ciò ha condotto effettivamente alcune pronunce a definire la fattispecie come reato di pericolo, in quanto perché il reato sussista non vi è necessità di verificare la commestibilità dell’alimento né tantomeno un danno alla salute del consumatore (in tal senso, anche dopo l’intervento delle Sezioni Unite, le massime di Cass. sez. III, 16 dicembre 2003-27 gennaio 2004 n. 2649 e Cass. sez. III, 9 gennaio 2007 n. 15049; in motivazione, da ultimo, v. la già citata Cass. sez. III, 26 febbraio 2014 n. 17000, nonché Cass. sez. III, 7 luglio 2011 n. 41074, quest’ultima invocata anche dal Tribunale). Nel caso di specie, peraltro, l’adesione formale del giudice di merito a una siffatta qualificazione del reato non ha incidenza sulla condanna dell’imputato. Tutta la giurisprudenzadi questa Suprema Corte sopra richiamata, invero, è concorde nell’identificare la condotta criminosa dei reato in questione nella violazione delle modalità di conservazione, per cui non sussiste alcuna reale discrepanza interpretativa, bensì una impostazione da punti di vista diversi (ovvero beni giuridici differenti: l’ordine alimentare o la salute dei consumatore) che conduce comunque ad un unico risultato sul contenuto della condotta suddetta. E infatti quello che è stato contestato all’imputato è riconducibile alla violazione delle regole sulla modalità di conservazione, in quanto i prodotti da lui detenuti risultavano “confezionati in modo anonimo e senza alcuna etichettatura”. La doglianza risulta pertanto infondata.
Il secondo profilo che il ricorrente lamenta, come si è visto, sarebbe la mancanza di prova sulla destinazione a terzi della merce sequestrata. La censura è evidentemente fattuale, il che la rende inammissibile; ed è quindi soltanto ad abundantiam che si osserva come il giudice di prime cure abbia evidenziato nella sua motivazione che i prodotti mal conservati – nel senso appena analizzato – si trovavano presso la mensa aziendale di cui l’imputato era fornitore.
Sulla base delle considerazioni fin qui svolte il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell’art.616 c.p.p., al pagamento delle spese del presente grado di giudizio. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale emessa in data 13 giugno 2000, n.186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 1000,00 in favore della Cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

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