Le massime

Con riferimento all’ipotesi in cui sia il conduttore che, nell’inerzia del locatore, voglia avvalersi del diverso regime giuridico della locazione conforme all’uso mutato – ha già stabilito (Cass., n. 14765/2007; Cass., n. 17005/2011) che, in caso di mutamento di destinazione d’uso della cosa locata, il decorso del termine di decadenza, di cui all’art. 80 legge 392/78 per mancato esercizio da parte del locatore dell’azione di risoluzione del contratto entro tre mesi dall’avvenuta conoscenza, non è rilevabile d’ufficio dal giudice, dovendo la parte interessata, nel sollevare l’eccezione, manifestare chiaramente la volontà di avvalersi dell’effetto estintivo dell’altrui pretesa, ricollegato dalla legge al decorso di un certo termine.

La restituzione del bene locato al termine del rapporto locativo (quale ne sia stata la causa della cessazione) può essere effettuato con modalità aventi valore di offerta non formale

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza del 26 luglio 2012, n. 13189

Svolgimento del processo

E.P. , con atto di citazione per convalida dinanzi al tribunale di Lucca, intimava a N.M. , conduttore di locali di sua proprietà, sfratto per morosità, esponendo che non le era stato corrisposto da circa tre mesi il canone mensile di Euro 236,41.
L’intimato, opponendosi, assumeva di aver già lasciato l’immobile libero dal 31 maggio 2006 (data di scadenza della locazione), avendone affidato le chiavi al terzo D. , perché le consegnasse alla locatrice.
A seguito del giudizio di merito, conseguente all’esaurimento del procedimento speciale per convalida, il tribunale di Lucca rigettava la domanda.
Considerava il tribunale che, avendo il teste D. dichiarato che aveva ricevuto la consegna delle chiavi del locale dal conduttore M. il giorno 30 maggio 2006 e che insieme avevano anche visitato l’immobile per constatarne le condizioni, non era fondata la domanda per la morosità successiva a tale data essendosi la locazione risolta alla scadenza.
Sul gravame della soccombente la Corte d’appello di Firenze, con la sentenza quivi denunciata, confermava la sentenza del tribunale, ribadendo che la richiesta risoluzione della locazione per morosità non poteva essere accolta perché alla data del 31 maggio 2006, essendo il contratto già cessato, il conduttore M. non occupava più il fondo, avendone anche rimesso le chiavi nella disponibilità della locatrice.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso P.E. con otto motivi.
Ha resistito con controricorso N.M. , che ha presentato anche memoria.

Motivi della decisione

Con i primi quattro motivi del ricorso, che per la loro stretta connessione devono essere congiuntamente esaminati, P.E. denuncia:
1) vizio di cui all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ.: violazione e falsa applicazione degli artt. 1587, 1590, 1591, 1216 e 1220 cod. civ. in relazione anche agli artt. 27, 79 e 80 L. 27.07.1978, n. 392;
2) vizio di cui all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ.: violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 cod. civ.;
3) vizio di cui all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ.: violazione e falsa applicazione degli artt. 5 (in relazione anche all’art. 658 cod. proc. civ.), 27, 79 e 80 della L. 27.07.1978 n. 392;
4) vizio di cui all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ.: motivazione insufficiente e contraddittoria circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
La ricorrente sostiene che, rispetto al contratto di locazione della durata fissata in un anno e per l’uso previsto di magazzino e ripostiglio, il conduttore avrebbe mutato la originaria destinazione in quella diversa di studio professionale, come da sua missiva in data 21 ottobre 2003, con la conseguenza che, dovendosi applicare al rapporto, ai sensi dell’art. 80 della legge n. 392 del 1978, il diverso regime della locazione ad uso professionale, avente la durata di sei anni a decorrere dall’intervenuto mutamento dell’uso pattuito, la unilaterale iniziativa del conduttore di rilasciare l’immobile prima della suddetta protratta scadenza, neppure tacitamente accettata da essa ricorrente locatrice, non poteva produrre l’effetto risolutivo del rapporto.
Assume, altresì, che la Corte d’appello di Firenze avrebbe operato un’inversione dell’onere della prova col ritenere che dovesse essere la locatrice a giustificare i motivi per i quali non aveva accettato la consegna delle chiavi, dato che spettava, invece, al conduttore dimostrare che il contratto era cessato prima della scadenza suddetta.
Aggiunge, poi, che il giudice del merito avrebbe motivato in modo insufficiente e contraddittorio sull’avvenuta risoluzione della locazione prima della scadenza dei sei anni.
I motivi, per i quali ratione temporis non era richiesta la formulazione del quesito di diritto ex art. 366 bis cod. proc. civ., non possono essere accolti.
I giudici dell’appello hanno ritenuto che, per la locazione intercorsa tra le parti, non era prevista alcuna disdetta né alcun termine di preavviso e, in tal modo, implicitamente hanno stabilito che la disciplina applicabile al rapporto era quella prevista dalle parti con scrittura privata della locazione di immobili ad uso di magazzino e ripostiglio della durata di un anno e senza obbligo di disdetta alcuna da ambo le parti, affermando, quindi, che, essendo il contratto pervenuto alla sua scadenza in data 31 maggio 2006, il conduttore, che aveva messo a diposizione della P. i locali, non doveva più corrispondere il canone, sicché l’azione di risoluzione proposta nei suoi confronti doveva essere rigettata.
In questa sede di legittimità sostiene, tuttavia, la ricorrente locatrice che il giudice del merito avrebbe dovuto, invece, ritenere che, per effetto del mutato d’uso dei locali all’esercizio della attività professionale del conduttore, prima della scadenza dei sei anni dall’avvenuta diversa destinazione, il M. , il quale neppure si era avvalso della facoltà di recesso per giustificati motivi, non avrebbe potuto considerare risolta anzitempo la locazione, ma avrebbe dovuto continuare a corrispondere il canone, obbligazione dalla quale non sarebbe valso ad esimerlo l’eventuale abbandono dei locali nella disponibilità di E.P.
Questo giudice di legittimità – con riferimento all’ipotesi in cui sia il conduttore che, nell’inerzia del locatore, voglia avvalersi del diverso regime giuridico della locazione conforme all’uso mutato – ha già stabilito (Cass., n. 14765/2007; Cass., n. 17005/2011) che, in caso di mutamento di destinazione d’uso della cosa locata, il decorso del termine di decadenza, di cui all’art. 80 legge 392/78 per mancato esercizio da parte del locatore dell’azione di risoluzione del contratto entro tre mesi dall’avvenuta conoscenza, non è rilevabile d’ufficio dal giudice, dovendo la parte interessata, nel sollevare l’eccezione, manifestare chiaramente la volontà di avvalersi dell’effetto estintivo dell’altrui pretesa, ricollegato dalla legge al decorso di un certo termine.
Allo stesso modo deve ritenersi che, quando ad invocare gli effetti di un mutamento di uso sia il locatore – che, sul presupposto dell’avvenuto mutamento e della consapevole sua non opposizione nel termine di tre mesi, ritenga così applicabile al contratto il regime giuridico corrispondente all’uso diverso da quello originariamente pattuito – analogamente occorra, essendo egli la parte a ciò interessata, che la domanda sia introdotta secondo la suddetta prospettazione e senza che lo stesso incorra in ipotesi di preclusione o di decadenza.
Orbene, nel caso in esame, nel giudizio di primo grado la locatrice P. non aveva affatto enunciato che ella agiva per la risoluzione del contratto relativo ai locali che sarebbero stati successivamente destinati dal conduttore alla sua attività professionale, ma aveva soltanto dedotto che l’avvenuta consegna delle chiavi non sarebbe stata mai effettuata con effetto valido nei suoi confronti, per cui la locazione, pur dopo la scadenza del 31 maggio 2006, doveva ritenersi protratta (ai sensi della disciplina generale di cui all’art. 1597 cod. civ.) alle stesse condizioni e per l’uguale durata di un anno, essendo il conduttore rimasto nella detenzione dei locali, ivi lasciato dalla locatrice.
Con il gravame la stessa locatrice non aveva devoluto (e, comunque, la ricorrente neppure si fa carico di indicare dove o quando la censura risulta essere proposta) al giudice dell’appello la questione della diversa qualificazione giuridica della locazione e della rilevanza di essa ai fini dell’ammissibilità della proposta azione di risoluzione per morosità.
Ne consegue che trattasi, in questa sede, di thema decidendum non prima proposto e, quindi, non esaminabile in questa sede.
La mancata devoluzione della questione con l’appello, pertanto, esimeva anche la Corte territoriale dal motivare circa la diversa qualificazione della locazione, non potendo il giudice di secondo grado procedere d’ufficio, allo stesso modo come d’ufficio il tema non doveva essere affrontato in primo grado.
Resta, quindi, assorbita la censura relativa alla pretesa violazione della disciplina inderogabile prevista per le locazioni ad uso professionale dalle norme di cui agli art. 27, 70 e 80 della legge n. 392 del 1978 ed è corretta l’impugnata sentenza laddove – con implicito chiaro riferimento ad eventuali pretese della locatrice ai sensi dell’art. 1591 cod. civ. – ha osservato la P. avrebbe dovuto avanzare domanda diversa dalla proposta azione di risoluzione della locazione per la morosità del conduttore.
L’ulteriore conseguenza dell’accertata cessazione del contratto alla scadenza del 31 maggio 2006 è che, circa l’avvenuto rilascio dei locali alla P. , era onere della locatrice giustificare i motivi per i quali riteneva di non dovere accettare la consegna delle chiavi.
Con il quinto, sesto, settimo ed ottavo motivo la ricorrente rispettivamente denuncia:
5) vizio di cui all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ.: violazione e falsa applicazione degli artt. 1587, 1590, 1591, 1216 e 1220 cod. civ., sotto altro profilo;
6) vizio di cui all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ.: violazione e falsa applicazione degli artt. 1587, 1590, 1591, 1216 e 1220 cod. civ., sotto primo profilo;
7) vizio di cui all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ.: violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 cod. civ. (anche in relazione agli artt. 1175 e 1375 cod. civ.) sotto altro profilo;
8) vizio di cui all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. per motivazione insufficiente e contraddittoria circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
Sostiene che:
il rilascio dell’immobile era avvenuto in modo non formale;
il conduttore aveva abbandonato i locali e, quindi, era obbligato a pagare il canone;
il giorno 8 giugno 2006 essa locatrice non aveva ritirato le chiavi, rimaste ancora per due anni presso il D. ;
la Corte d’appello di Firenze, non tenendo conto del fatto che sarebbe stata necessaria per il conduttore un’offerta ai sensi dell’art. 1216 cod. civ., aveva erroneamente posto a suo carico l’onere probatorio di non aver ricevuto una valida consegna del bene, dato che l’offerta di rilascio dell’immobile, avvenuta in modo non formale, non poteva essere ritenuta idonea a liberare il conduttore dalla sua obbligazione di pagamento del canone.
Anche dette censure, che vanno esaminate congiuntamente in quanto strettamente connesse, non sono fondate.
La sentenza impugnata ha chiarito che il giorno 8 giugno 2006 P.E. e N.M. si recarono insieme a visitare l’immobile per constatarne le condizioni e, nell’occasione, alla proprietaria vennero offerte le chiavi, siccome la locatrice stessa aveva ammesso in sede di interrogatorio formale.
In tale situazione il giudice del merito ha ravvisato una vera e propria offerta non formale, in virtù della quale il conduttore N.M. veniva ad essere esentato da ogni altra sua obbligazione, (restitutoria o risarcitoria), che la legge collega all’ingiustificato rifiuto di rilasciare la res locata.
Correttamente, pertanto, la Corte di merito ha riconosciuto che il conduttore aveva assolto l’onere della prova relativo all’avvenuto rilascio, così uniformandosi anche alla regola di diritto a mente della quale la restituzione del bene locato al termine del rapporto locativo (quale ne sia stata la causa della cessazione) può essere effettuato con modalità aventi valore di offerta non formale (Cass., n. 7776/2004; Cass., n. 6090/2002).
Il ricorso, perciò, è rigettato e la soccombente ricorrente è condannata a pagare le spese del giudizio di cassazione, liquidate nella misura di cui al dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 2.500,00 (duemilacinquecento/00), di cui Euro 2.300,00 (duemilatrecento/00) per onorari, oltre rimborso forfettario delle spese generali ed accessori come per legge.

Depositata in Cancelleria il 26.07.2012

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