buca colma d'acqua

Suprema Corte di Cassazione 

sezione III

sentenza del 26 maggio 2014, n. 11660

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RUSSO Libertino Alberto – Presidente –
Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere –
Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –
Dott. D’AMICO Paolo – Consigliere –
Dott. CIRILLO Francesco Maria – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 19223-2008 proposto da:
R.C. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA OVIDIO 32, presso lo studio dell’avvocato GUIDO BRUNO CRASTOLLA, che la rappresenta e difende giusta procura speciale in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
COM ERCHIE in persona del Sindaco pro tempore M.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G.P.DA PALESTRINA 19, presso lo studio dell’avvocato FRANCO FABIO FRANCESCO, rappresentato e difeso dall’avvocato VILLANI FRANCESCO giusta procura speciale a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 146/2007 del TRIBUNALE DI BRINDISI SEDE DISTACCATA DI FRANCAVILLA FONTANA, depositata il 31/05/2007, R.G.N. 727/2005;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/03/2014 dal Consigliere Dott. FRANCESCO MARIA CIRILLO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA Mario che ha concluso per l’inammissibilità in subordine per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

1. R.C. conveniva in giudizio, davanti al Giudice di pace di Oria, il Comune di Erchie affinchè fosse condannato al risarcimento dei danni da lei subiti a seguito della caduta in una profonda buca esistente sul manto stradale.

Il Giudice di pace accoglieva la domanda, condannando il Comune al pagamento della somma di Euro 2.457,75 oltre interessi e spese.

2. Proposto appello da parte del Comune soccombente, il Tribunale di Brindisi, Sezione distaccata di Francavilla Fontana, con sentenza del 31 maggio 2007, in totale riforma di quella di primo grado, respingeva la domanda della R., compensando integralmente le spese di giudizio.

Osservava il Tribunale che la domanda era fondata sull’art. 2043 cod. civ. e che nel caso specifico era emerso dall’ istruttoria che la strada dove il sinistro si era verificato era sterrata e non brecciata, sicchè era notorio che la stessa diveniva impercorribile in caso di pioggia. La R., quindi, era avveduta della situazione di pericolo esistente, la quale non poteva certo definirsi come occulta, per cui l’incidente era da ascrivere a sua esclusiva responsabilità.

3. Contro la sentenza del Tribunale di Brindisi propone ricorso R.C., con atto affidato a due motivi.

Resiste il Comune di Erchie con controricorso.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2051 c.c..

Rileva la ricorrente che la sentenza avrebbe errato nel ritenere che la responsabilità del Comune possa derivare soltanto dall’ipotesi dell’art. 2043 cod. civ., perchè se la pubblica amministrazione può configurarsi custode del bene demaniale, la stessa ne risponde ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., in base al potere di fatto che si traduce nel potere di governo della cosa. Nella specie, la strada si trovava all’interno del perimetro urbano del Comune, sicchè l’obbligo di custodia era esistente; e la norma dell’art. 2043 cod. civ. dovrebbe trovare applicazione – secondo la tesi del ricorrente – solo in mancanza dei requisiti di cui all’art. 2051 citato.

2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia.

Rileva la ricorrente che la visibilità dello stato di abbandono non è di per sè sufficiente per escludere la responsabilità dell’ente proprietario; nella specie, poi, la R. ebbe contezza della profondità della buca solo dopo esservi caduta, mentre il dato della prevedibilità va valutato prima e non dopo il sinistro. Oltre a ciò, il principio di autoresponsabilità invocato dal Tribunale va contemperato con quello dell’affidamento, per cui a carico della ricorrente poteva, al massimo, riconoscersi un concorso di colpa.

3. I due motivi, che vanno decisi congiuntamente avendo ad oggetto i medesimi problemi, sono entrambi privi di fondamento.

3.1. Risulta dal testo della sentenza impugnata e dalla vicenda processuale nel suo complesso che la domanda dell’odierna ricorrente è stata impostata fin dal giudizio di primo grado in termini di violazione dell’art. 2043 cod. civ., richiamando le tradizionali figure dell’insidia e trabocchetto.

Com’è stato assai di recente ribadito da questa Corte nella sentenza 20 gennaio 2014, n. 999, l’azione di responsabilità fondata sulla violazione di un obbligo di custodia è intrinsecamente, per così dire, diversa da quella fondata sul principio generale del neminem laedere. Ciò in quanto “l’applicabilità dell’una o dell’altra norma implica, sul piano eziologico e probatorio, diversi accertamenti e coinvolge distinti temi d’indagine, trattandosi di accertare, nel primo caso, se sia stato attuato un comportamento commissivo od omissivo, dal quale è derivato un pregiudizio a terzi, e dovendosi prescindere, invece, nel caso di responsabilità per danni da cosa in custodia, dal profilo del comportamento del custode, che è elemento estraneo alla struttura della fattispecie normativa di cui all’art. 2051 cod. civ., nella quale il fondamento della responsabilità è costituito dal rischio, che grava sul custode, per i danni prodotti dalla cosa che non dipendano dal caso fortuito” (così la sentenza 6 luglio 2004, n. 12329, richiamando un orientamento ancora più risalente). In altre parole, mentre l’azione ai sensi dell’art. 2043 cod. civ. comporta la necessità, per il danneggiato, di provare l’esistenza del dolo o della colpa a carico del danneggiante, nel caso di azione fondata sull’art. 2051 cod. civ. la responsabilità del custode è prevista dalla legge per il fatto stesso della custodia, potendo questi liberarsi soltanto attraverso la gravosa dimostrazione del fortuito. Ne consegue un’ovvia differenza in ordine ai temi di indagine ed al riparto dell’onere della prova, perchè nel primo caso il danneggiato dovrà attivarsi a dimostrare qualcosa, mentre nel secondo sarà il danneggiante a doversi attivare.

Tale approdo giurisprudenziale è stato in seguito ribadito da questa Corte (v. sentenze 23 giugno 2009, n. 14622, e 20 agosto 2009, n. 18520). E da tanto si trae la dovuta conseguenza per cui, una volta proposta in primo grado una domanda ai sensi dell’art. 2043 cod. civ. – fondata, ad esempio, sulle figure dell’insidia e del trabocchetto, ancorchè impropriamente richiamate – non è consentito alla parte in grado di appello fondare la medesima domanda sulla violazione dell’obbligo di custodia, perchè ciò verrebbe inevitabilmente a stravolgere il processo, mettendo il danneggiante nella situazione di doversi attivare quando una serie di preclusioni processuali si sono già maturate.

Dando per pacifica tale conclusione, la giurisprudenza più recente ha esplicitato in modo ancora più chiaro che la domanda fondata sull’art. 2051 cod. civ. può non essere considerata nuova rispetto a quella fondata sull’art. 2043 cod. civ. – e, quindi, improponibile in appello – solo se l’attore abbia “sin dall’atto introduttivo del giudizio enunciato in modo sufficientemente chiaro situazioni di fatto suscettibili di essere valutate come idonee, in quanto compiutamente precisate, ad integrare la fattispecie contemplata da detti articoli” (sentenze 21 giugno 2013, n. 15666, e 5 agosto 2013, n. 18609). Con la importante precisazione, però, che la regola probatoria di cui all’art. 2051 cod. civ., più favorevole per il danneggiato, “in tanto può essere posta a fondamento dell’affermazione della responsabilità del convenuto stesso in quanto non gli si ascriva la mancata prova di fatti che egli non sarebbe stato tenuto a provare in base al criterio di imputazione ordinario della responsabilità originariamente invocato dall’attore” (così la sentenza n. 18609 del 2013).

3.2. Pertanto, in mancanza di diversi rilievi che neppure la ricorrente compie, è corretta l’osservazione contenuta nel controricorso per cui la presunta violazione dell’art. 2051 cod. civ. è stata dedotta solo in sede di giudizio di cassazione e costituisce, quindi, domanda nuova, come tale inammissibile in questa sede.

4. Nel presente giudizio, quindi, dovrà essere valutata la correttezza della decisione alla luce dei criteri di cui all’art. 2043 c.c..

Ora, se la domanda è stata fondata sull’art. 2043 cod. civ., bene ha fatto il Tribunale a ritenere che fosse onere della R. dimostrare il dolo o la colpa e il nesso di causalità. In particolare, il Tribunale ha correttamente richiamato il concetto di prevedibilità dell’evento dannoso dovuto al fatto che lo stato dei luoghi era visibile – per cui non poteva parlarsi di pericolo occulto – e ben noto agli abitanti della zona, fra i quali rientrava anche l’odierna ricorrente.

La più recente giurisprudenza di questa Corte, infatti, ha definito il concetto di prevedibilità come concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo ed ha evidenziato che, ove tale pericolo sia visibile, si richiede dal soggetto che entra in contatto con la cosa un grado maggiore di attenzione, proprio perchè la situazione di rischio è percepibile con l’ordinaria diligenza (v., oltre alla citata sentenza n. 999 del 2014, anche la sentenza 22 ottobre 2013, n. 23919).

Nella specie il Tribunale, con una valutazione dei fatti correttamente motivata e priva di vizi logici, ha accertato che la situazione dei luoghi era tale da rendere palesi i rischi conseguenti all’accesso nella strada in questione, soprattutto in caso di pioggia, ed ha precisato che la R. ben conosceva detta situazione; e da tale premessa ha tratto la corretta conclusione della responsabilità esclusiva della R. nella determinazione del sinistro. Non c’è, quindi, nella pronuncia impugnata alcuna violazione di legge nè alcun vizio di motivazione, perchè essa si è conformata agli insegnamenti di questa Corte, facendone corretta applicazione (v. anche, sul concetto di prevedibilità, la recente ordinanza 26 aprile 2013, n. 10096).

Il fatto che la motivazione contenga, poi, un’evidente imprecisione – là dove osserva che la danneggiata avrebbe dovuto accedere alla propria abitazione da un’altra via, ovvero “intentare azione contro il Comune per il risarcimento dei danni derivanti dal mancato utilizzo della propria abitazione” non impedisce alla sentenza di resistere, comunque, alle censure che le vengono mosse.

5. Il ricorso, pertanto, è rigettato.

A tale pronuncia segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in conformità ai soli parametri introdotti dal decreto ministeriale 20 luglio 2012, n. 140, sopravvenuto a disciplinare i compensi professionali.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 1.500, di cui Euro 200 per spese, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione Civile, il 4 marzo 2014.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2014

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