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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

sezione IV

SENTENZA 18 ottobre 2013, n. 43083

 

Svolgimento del processo

 1. – Con sentenza resa in data 6.3.2012, il tribunale di Mantova, sezione distaccata di Castiglione delle Stiviere, ha condannato R.M. e N.G. alla pena di un anno e sei mesi di reclusione ciascuno, oltre al risarcimento dei danni (in solido con la Orman s.r.l., responsabile civile) in favore delle parti civili costituite, siccome giudicati responsabili del reato di omicidio colposo commesso, in violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, ai danni di C. P., in (OMISSIS), il (OMISSIS).

Agli imputati, in qualità (la R.) di amministratore unico della Orman s.r.l. (società proprietaria della stalla della corte agricola ‘Belfienile’ e committente dei lavori di sostituzione di quattro lastre di fibrocemento della copertura di detta stalla) e (il N.) di socio amministratore della società semplice Azienda Agricola Pieve di Nodari Gualtiero e C. (società subaffittuaria della stalla), era stata originariamente contestata, oltre ai tradizionali parametri della colpa generica, la violazione del D.P.R. n. 494 del 1996, art. 3, comma 8 e del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7, perchè, agendo in cooperazione tra loro (ex art. 113 c.p.), avevano incaricato T.B. e P.C. (due pensionati non iscritti ad alcun albo di categoria e del tutto inidonei a provvedervi, sul piano tecnico-professionale, anche in ragione dell’indisponibilità delle necessarie attrezzature) della sostituzione di quattro lastre di fibrocemento nella copertura del tetto della stalla sopra richiamata, senza verificare i rischi specifici esistenti in loco e le misure di prevenzione e di emergenza da adottare in relazione agli stessi; con la conseguenza che il P., salito sul tetto per compiere l’attività di sostituzione delle lastre, precipitava all’interno della stalla a seguito del cedimento del manto di copertura, perdendo la vita nell’immediatezza a causa delle gravissime lesioni politraumatiche riportate.

Con sentenza in data 12.12.2012, la corte d’appello di Brescia, in parziale riforma della sentenza di primo grado, escluso il ricorso dell’aggravante di cui all’art. 589 cpv. c.p., a carico del N., ha disposto la riduzione della pena a carico dello stesso, determinandola in sei mesi di reclusione, confermando nel resto la decisione del primo giudice.

Avverso la sentenza d’appello, a mezzo dei propri difensori, hanno proposto ricorso per cassazione entrambi gli imputati.

2.1.1. – R.M. propone ricorso sulla base di tre motivi d’impugnazione.

Con il primo motivo, la ricorrente si duole del mancato rilievo, ad opera della corte territoriale, della violazione del principio di correlazione tra l’imputazione contestata e il contenuto della decisione di condanna emessa dal primo giudice, con la conseguente nullità di entrambe le sentenze di merito.

In particolare, mentre nel capo d’imputazione era stato contestato alla ricorrente di aver conferito al P. l’incarico di eseguire il lavoro di sostituzione delle lastre della copertura della stalla di proprietà della Orman s.r.l. (di cui la stessa è amministratrice unica), il giudice di primo grado aveva viceversa condannato l’imputata per aver consentito (o comunque non avere impedito) che detto lavoro si svolgesse in assenza delle necessarie cautele.

Nel respingere la corrispondente censura sollevata in sede d’appello, la corte territoriale aveva rilevato come il tribunale avesse comunque mantenuto fermo il nucleo essenziale dell’imputazione originariamente contestata, in tal modo impedendo che si verificasse alcun pregiudizio dei diritti della difesa.

Tale asserzione del giudice d’appello, ad avviso della ricorrente, doveva considerarsi del tutto erronea, atteso che la condanna dell’imputata è stata pronunciata in relazione a una fattispecie concreta fondata su elementi di fatto mai posti a oggetto della discussione processuale e, tantomeno, di alcuna attività di accertamento nel corso del giudizio di primo grado, essendosi l’intero dibattimento svolto avendo come punto di riferimento la circostanza costituita dal preteso incarico conferito dall’imputata al P. per l’esecuzione del lavoro di sostituzione delle lastre di copertura del tetto della stalla.

L’imputata, pertanto, dapprima accusata del compimento di un reato commissivo, è stata viceversa condannata in relazione alla consumazione di un reato omissivo improprio, e quindi per un titolo di reato differente da quello oggetto dell’originaria contestazione;

con la conseguente lesione dei diritti della difesa consistiti nella mancata estensione dell’accertamento processuale alla verifica di tutte le circostanze di fatto idonee a giustificare la riconducibilità dell’evento offensivo all’ambito di ‘copertura’ della posizione di garanzia eventualmente ascrivibile alla R..

2.1.2. – Con il secondo motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per vizio di motivazione apprezzabile in relazione a tre profili specifici.

Con riguardo al primo profilo, la ricorrente si duole che la corte territoriale, dopo aver affermato l’indispensabilità, ai fini del riconoscimento della responsabilità dell’imputata, (quantomeno) dell’accertamento della consapevolezza, da parte della stessa, dell’iniziativa relativa alla riparazione del tetto, abbia omesso di rilevare come, ad esito dell’istruzione dibattimentale, fosse rimasta impossibile l’individuazione del soggetto cui ascrivere detta iniziativa, tanto non essendo emerso sulla base di alcuna delle deposizioni testimoniali sul punto acquisite nel corso del giudizio (e partitamente richiamate nel corpo del ricorso), tantomeno dalla circostanza che la R. avesse provveduto a rimborsare il T. delle somme da quest’ultimo anticipate per l’acquisto delle lastre di copertura del tetto della stalla, stante l’obiettiva equivocità della circostanza in relazione al presunto accertamento della consapevolezza, da parte dell’imputata, dell’impiego cui dette lastre erano destinate.

Con riguardo al secondo profilo, la ricorrente denuncia il travisamento delle risultanze processuali in cui sono incorsi i giudici del merito, con particolare riferimento alla prova del rapporto di dipendenza tra il P. e la società (Orman s.r.l.) amministrata dalla R..

Sul punto – premesso il carattere indimostrato della circostanza secondo cui l’attività di riparazione del tetto fosse stata effettuata nell’ambito delle incombenze attinenti tale rapporto lavorativo -, rileva la ricorrente come la corte d’appello avesse ingiustificatamente omesso di considerare, al fine di escludere il ricorso del richiamato rapporto lavorativo del P., la valutazione del dato costituito dall’estensione dell’appezzamento di terreno rimasto in proprietà alla Orman s.r.l., le cui ridotte dimensioni (inidonee a consentire l’esercizio di alcuna attività di coltivazione) non richiedevano l’impiego di alcuna forza lavoro (tantomeno a tempo pieno), del cui effettivo ricorso nessuna delle deposizioni testimoniali acquisite nel corso del giudizio (puntualmente richiamate in ricorso) aveva offerto alcun concreto riscontro, essendo piuttosto risultata la destinazione delle sporadiche prestazioni rese dal P. e dal T. in favore della sola persona del B., all’epoca convivente dell’imputata.

A tali conclusioni, nessuna ferita poteva essere inferta dalla deposizione resa dalla teste L. (anch’essa sotto altri profili trascurata dai giudici del merito), essendosi quest’ultima limitata a riferire su circostanze relative a un periodo di tempo largamente anteriore rispetto a quello relativo ai fatti oggetto dell’odierno esame.

Con riguardo al terzo e ultimo profilo, la ricorrente rileva, più in generale, il carattere meramente apparente della motivazione dettata dalla corte d’appello, avendo quest’ultima suffragato il relativo percorso argomentativo con il richiamo ad elementi probatori estrapolati in forma parziale dal complesso delle dichiarazioni testimoniali acquisite, configurando il ragionamento seguito ai fini della pronuncia della condanna dell’imputata in modo apodittico e complessivamente illogico.

2.1.3. – Con il terzo motivo la ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione di legge in relazione all’art. 40 c.p., comma 2, avendo il giudice d’appello erroneamente sostenuto come qualsiasi incertezza in ordine al soggetto a cui fosse ascrivibile l’iniziativa di riparazione del tetto non sarebbe valsa ad escludere la responsabilità dell’imputata, così accreditando un’erronea lettura della portata dell’art. 40 cit., da cui era discesa la conseguente grave trascuratezza del problema relativo all’effettiva riconducibilità del fatto oggetto di causa all’ambito di rilevanza giuridica della posizione di garanzia dell’imputata, in tal modo omettendo di accertare se l’evento ascritto alla R. si fosse o meno verificato sulla base di una sequenza causale che la stessa aveva l’obbligo di impedire.

2.1.4. – Con il ricorso proposto, la ricorrente ha infine invocato la sospensione dell’esecuzione della condanna al pagamento delle somme a titolo provvisionale individuate dalla corte d’appello in favore delle parti civili costituite, stante il grave e irreparabile danno paventato in considerazione delle condizioni economiche della medesima ricorrente e delle stesse parti civili, tali da prospettare come sostanzialmente impossibile il recupero di quanto eventualmente corrisposto, in caso di annullamento della sentenza d’appello.

2.2.1. – N.G. propone ricorso sulla base di tre motivi d’impugnazione.

Con il primo motivo, il ricorrente si duole del mancato rilievo, ad opera della corte territoriale, della violazione del principio di correlazione tra l’imputazione contestata e il contenuto della decisione di condanna emessa dal primo giudice, con la conseguente nullità di entrambe le sentenze di merito.

In particolare, il ricorrente denuncia il pregiudizio subito per effetto della non corrispondenza tra il contenuto dell’accusa (dettata con riguardo all’asserito conferimento, ai lavoratori in esame, dell’incarico relativo al compimento dell’opera de qua) e quello della condanna pronunciata nei suoi confronti (viceversa correlata all’avvenuta diretta partecipazione alle operazioni di sostituzione della copertura della stalla); pregiudizio segnatamente consistito nell’esser stato indotto a non esercitare alcuna attività difensiva in relazione a tutti i profili in fatto configurabili in connessione a quelli viceversa valorizzati dai giudici in sede decisionale, con la conseguente violazione dei principi di tutela del contraddittorio e della difesa sanciti dall’art. 111 Cost., italiana e dall’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

2.2.2. – Con il secondo motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 113 e 589 c.p., per avere la corte territoriale apoditticamente sostenuto la sussistenza di un interesse dell’imputato al compimento delle attività di manutenzione oggetto di causa, e per aver contraddittoriamente sostenuto come la responsabilità dell’imputato non risiedesse nell’aver facilitato l’elevazione delle lastre al livello della copertura della stalla, bensì per aver preso parte all’intervento su un immobile di cui aveva la disponibilità, senza imporre l’uso di misure di prevenzione e senza opporsi alla prosecuzione dell’intervento in assenza di cautele.

Sul punto, il ricorrente lamenta le carenze istruttorie relative all’accertamento circa l’effettiva mancanza di presidi a tutela dei lavoratori, rimarcando la vistosa illogicità della sentenza impugnata nella parte in cui, dopo aver escluso l’aggravante di cui all’art. 589, cpv. c.p., ha ugualmente riconosciuto il dovere del N. di impedire ai lavoratori di salire sul tetto e di svolgere le attività lavorative de quibus; e ciò, in assenza di alcun dovere specifico di garanzia ricostruibile in termini positivi in capo all’imputato.

Parimenti carente, sul piano motivazionale, deve ritenersi la sentenza impugnata in ordine alla verifica della sussistenza del nesso di causalità tra la condotta del N. e l’evento dannoso, avendo la corte d’appello omesso di dar contezza delle ragioni per cui la regola di cui all’art. 40 c.p., comma 2, dovesse ritenersi estesa anche nei confronti dell’imputato, non bastando, a mente dell’art. 113 c.p., il generico richiamo alla consapevolezza di cooperare con altri nella realizzazione dell’evento, piuttosto occorrendo uno specifico legame eziologico tra la condotta del cooperante e l’evento stesso.

Sulla base di tali premesse – rilevata l’omessa giustificazione, ad opera della corte d’appello, della sussistenza dell’elemento psicologico del reato di omicidio colposo a carico dell’imputato -, il ricorrente ha altresì sottolineato la discutibile riconduzione della condotta dell’imputato alla figura della cooperazione colposa di cui all’art. 113 c.p., quando non piuttosto all’ipotesi delle condotte colpose indipendenti (art. 41 c.p., comma 3), atteso che, nel caso di specie, ciascuno dei coimputati aveva agito in assenza di rapporti volontari con l’altro, rimanendo la condotta del N. priva di alcun legame causale con l’evento dannoso verificatosi.

2.2.3. ‘ Con il terzo motivo, il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 114 e 589 c.p., per avere la corte d’appello di Brescia escluso la concessione dell’attenuante della partecipazione concorsuale di minima importanza in relazione al contributo fornito dal N., sulla base di uno sviluppo motivazionale erroneo e illogico, avuto riguardo all’inesistenza di alcuna posizione di garanzia in capo all’imputato.

2.3. – All’odierna udienza, la parte civile ha invocato la pronuncia del rigetto dei ricorsi, depositando le proprie conclusioni in forma scritta unitamente alla nota spese.

 Motivi della decisione

 3.1. – Il primo motivo del ricorso della R. e il primo motivo del ricorso del N. – congiuntamente esaminabili in ragione dell’intima connessione delle questioni dedotte – sono infondati.

Sul punto, converrà rimarcare, nel solco del consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità come, nel verificare la mancata corrispondenza tra accusa contestata e fatto ritenuto in sentenza, occorra riferirsi all’operatività di criteri non formali o meccanicistici, valendo al riguardo la decisività del principio che impone (nel caso in cui sia accertato lo scostamento indicato) il riscontro dell’avvenuto rispetto dei diritti della difesa, nel senso che l’imputato abbia avuto, in concreto, la possibilità di difendersi da ogni profilo dell’addebito; e tanto, a prescindere dalla differente configurazione formale, in termini commissivi od omissivi, della condotta contestata (cfr. Cass., Sez. 4^, n. 41674/2004, Rv. 229893; Cass., Sez. 4^, n. 7026/2002, Rv.223747).

Tale evenienza, in particolare, ricorre in tutti casi in cui dell’addebito si sia concretamente trattato nelle varie fasi del processo, ovvero in quelli nei quali sia stato lo stesso imputato a evidenziare il fatto diverso quale elemento a sua discolpa (v. Cass., Sez. 5^, n. 23288/2010, Rv. 247761; Cass., Sez. 6^, n. 20118/2010, Rv. 247330; Cass., Sez. 2^, n. 11082/2000, Rv. 217222; Cass., Sez. 2^, n. 5329/2000, Rv. 215903).

In breve, il principio di correlazione tra fatto contestato e fatto ritenuto in sentenza, di cui all’art. 521 c.p.p., finalizzato alla salvaguardia del diritto di difesa, non è violato qualora la sentenza puntua-lizzi l’imputazione enunciata formalmente nell’atto di esercizio dell’azione penale con le integrazioni risultanti dagli interrogatori e dagli altri atti in base ai quali è stato reso in concreto possibile all’imputato di avere piena consapevolezza del thema decidendum, così da potersi difendere in ordine a un determinato fatto, inteso come episodio della vita umana (v. Cass., Sez. 6^, n. 9213/1996, Rv. 206208).

Ai fini della valutazione di detta correlazione, occorrerà dunque tener conto, non solo del fatto descritto in imputazione, ma anche di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate a conoscenza dell’imputato che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione, sicchè questi abbia avuto modo di esercitare le sue difese sul materiale probatorio posto a fondamento della decisione (v. Cass., Sez. 3^, n. 15655/2008, Rv. 239866).

Naturalmente, non deve trattarsi di un fatto completamente diverso ed eterogeneo con immutazione dell’imputazione nei suoi elementi essenziali (v. Cass., Sez. 1^, n. 6302/1999, Rv. 213459; Cass., Sez. 6^, n. 2642/1999, Rv. 212803), dovendo ritenersi sussistente la violazione de qua solamente quando nei fatti – rispettivamente descritti e ritenuti – non sia possibile individuare un nucleo comune, con la conseguenza che essi si pongono, tra loro, non in rapporto di continenza, bensì di eterogeneità (Cass., Sez. 6^, n. 81/2008, Rv. 242368).

Nel caso di specie, del tutto correttamente la corte territoriale ha osservato, da un lato, come il nucleo essenziale dell’imputazione contestata a carico della R. non fosse individuabile nell’avere la donna dato personalmente incarico al P. di eseguire il lavoro, bensì nel fatto che, in qualità di legale rappresentante della Orman s.r.l., avesse comunque consentito (al di là di chi avesse materialmente parlato con il lavoratore) che un lavoro da svolgersi per conto di quest’ultima, da parte di un dipendente della stessa, venisse posto in essere senza che fossero adottate le necessarie cautele.

Dall’altro lato, e in termini ugualmente corretti, la corte ha evidenziato come l’attività prestata dal N. per consentire il trasporto delle lastre sul tetto della stalla di cui aveva la disponibilità e, in generale, la condotta dallo stesso tenuta in quel frangente costituiva una circostanza largamente conosciuto dallo stesso e dalla sua difesa, così com’era evidente la sua rilevanza nel generale contesto della linea accusatoria, sì da non potersi ravvisare alcuna sostanziale lesione del relativo diritto di difesa.

La corretta individuazione, da parte del giudice d’appello, degli elementi essenziali dell’imputazione e il riscontro della relativa corrispondenza, tanto nell’atto d’accusa, quanto nella sentenza di condanna pronunciata a carico degli imputati, così come il riscontro dell’effettiva acquisita conoscenza in sede dibattimentale, da parte degli imputati, di tutti i fatti e gli elementi di prova utilizzati ai fini della decisione, valgono a lasciar ritenere pienamente rispettato, nel caso di specie, il principio di correlazione tra accusa e sentenza di cui all’art. 521 c.p.p. (e in ogni caso l’assenza di alcuna lesione dei relativi diritti di difesa), con la definitiva attestazione della radicale infondatezza dei motivi d’impugnazione sul punto sollevati dagli odierni ricorrenti.

3.2. – Il secondo e il terzo motivo del ricorso della R. sono infondati in relazione a tutti i profili critici rassegnati.

Con particolare riguardo al contestato raggiungimento della prova relativa all’acquisita consapevolezza, da parte dell’imputata, dell’iniziativa relativa al lavoro di sostituzione delle lastre di copertura della stalla o al rapporto di dipendenza del P. con la società gestita dalla R., varrà evidenziare come, sul punto, la ricorrente si sia limitata a prospettare unicamente una diversa lettura delle risultanze istruttorie acquisite, in difformità dalla complessiva ricostruzione dei giudici di merito, deducendo (peraltro, in modo solo ipotetico e congetturale) i soli elementi astrattamente idonei a supportare la propria alternativa rappresentazione del fatto, senza tuttavia farsi carico della complessiva riconfigurazione dei fatti oggetto di causa sulla base di tutti gli elementi istruttori raccolti, che, viceversa, i giudici del merito hanno ricostruito con adeguata coerenza logica e linearità argomentativa (sull’integrazione in un unico corpo argomentativo delle sentenze di primo e di secondo grado concordi nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, cfr. Cass., Sez. 1^, n. 8868/2000, Rv. 216906 e segg. conformi).

Sul punto, è appena il caso di richiamare il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, ai sensi del quale la modificazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e), introdotta dalla L. n. 46 del 2006, consente la deduzione del vizio del travisamento della prova là dove si contesti l’introduzione, nella motivazione, di un’informazione rilevante che non esiste nel processo, ovvero si ometta la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia.

Il sindacato della corte di cassazione rimane tuttavia quello di sola legittimità, sì che continua a esulare dai poteri della stessa quello di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, una volta riscontrata la coerente e logica ricostruzione operatane dal giudice di merito (v., ex multis, Cass., Sez. 2^, n. 23419/2007, Rv. 236893).

Da ciò consegue che gli ‘altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame’ menzionati dal testo vigente dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), non possono che essere quelli concernenti fatti decisivi che, se convenientemente valutati anche in relazione all’intero contesto probatorio, avrebbero potuto determinare una soluzione diversa da quella adottata, rimanendo esclusa la possibilità che la verifica sulla correttezza e completezza della motivazione si tramuti in una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito (Cass., Sez. 4^, n. 35683/2007, Rv. 237652).

Nel caso di specie, i giudici del merito hanno coerentemente e in modo logicamente corretto ricostruito i fatti evidenziati dal complesso degli elementi di prova raccolti, sottolineando la complessiva gravità, precisione e concordanza degli indici probatori d’indole critica e la concreta concludenza delle fonti di prova diretta, univocamente destinati a comprovare l’effettivo pieno coinvolgimento della R. nell’attività di gestione e amministrazione della Orman s.r.l.; la continuità e l’estensione dell’impegno lavorativo profuso dal P. nell’ambito aziendale (desunte anche dalla regolarità delle modalità retributive e delle forme di esplicazione della subordinazione tecnica del P. alla R.); il carattere significativo e decisivo della circostanza costituita dal rimborso, da parte dell’imputata in favore del T., delle somme da quest’ultimo anticipate per l’acquisto delle lastre destinate ad essere collocate in sostituzione sulla copertura della stalla aziendale.

Con particolare riguardo a tale ultima circostanza, del tutto coerentemente, e in modo pienamente congruo sul piano argomentativo, la corte territoriale ha evidenziato l’assoluta inverosimiglianza della prospettazione dell’imputata secondo cui la stessa avrebbe provveduto al rimborso di tali somme senza sapere (o quantomeno informarsi in quel frangente) della destinazione di quelle lastre, sottolineando come in ogni caso la R., in qualità di amministratrice della società, avesse l’obbligo di seguire le lavorazioni che i propri dipendenti svolgevano nell’ambito aziendale, anche al fine di provvedere a quanto necessario per la relativa sicurezza, non essendo ammissibile che la stessa trascurasse di interessarsi delle relative esigenze, o li ‘abbandonasse a se stessi’ nell’organizzazione degli interventi da effettuare ai fini della manutenzione dei beni aziendali; e ciò, soprattutto al cospetto della prospettata programmazione di un’attività tanto pericolosa, come quella da realizzare al livello di copertura di un immobile (così platealmente annunciata attraverso la richiesta di rimborso dell’acquisto dei materiali per loro natura destinati a tale impiego), che l’imputata aveva l’obbligo di accertare e di seguire, anche in relazione all’attività di predisposizione delle modalità e delle cautele da adottare, al fine di scongiurare ogni possibile rischio per l’incolumità dei lavoratori, che la stessa imputata, in relazione alla posizione funzionale rivestita, era formalmente tenuta a garantire.

Proprio in relazione a tali premesse si rivela l’infondatezza del terzo motivo di ricorso prospettato dall’imputata, avendo la corte territoriale coerentemente e logicamente sottolineato l’irrilevanza, ai fini del riconoscimento della responsabilità penale della R., del tema relativo all’accertamento del soggetto a cui fosse concretamente ascrivibile l’iniziativa di riparazione del tetto, a tal fine dovendo ritenersi sufficiente la sola premessa in fatto costituita dalla consapevolezza (effettiva e doverosa), da parte dell’imputata, dell’esistenza di lavorazioni potenzialmente pericolose programmate in ambito aziendale, alla cui cura e garanzia la stessa era, in qualità di amministratrice unica della società datrice di lavoro, ineludibilmente tenuta.

3.3. – Il secondo e il terzo motivo del ricorso del N. sono infondati.

Al riguardo – premessa la correttezza della decisione impugnata, laddove ha dato atto della sostanziale irrilevanza del tema relativo all’interesse dell’imputato al compimento delle lavorazioni di sostituzione della copertura della stalla (interesse peraltro implicito nella diretta conduzione della stalla da parte della società gestita dell’imputato), e rilevata l’inammissibilità della rilettura degli strumenti istruttori adeguatamente e coerentemente ricostruiti, sul piano logico, dai giudici del merito, circa la mancata predisposizione e adozione, nella specie, delle necessarie misure cautelari a tutela del lavoratore rimasto ucciso -, rileva questa corte la piena correttezza, sul piano logico-giuridico, della decisione dei giudici del merito circa la riconduzione del fatto oggetto di causa all’ambito normativo della cooperazione nel delitto colposo disciplinata dall’art. 113 c.p.; qualificazione destinata a coinvolgere le questioni sollevate dal ricorrente, con riguardo, tanto alla ritenuta responsabilità dell’imputato per aver preso parte all’intervento su un immobile di cui pure aveva la disponibilità (attraverso la messa a disposizione e la concreta utilizzazione del mezzo con il quale le lastre di copertura furono elevate al livello di copertura della stalla) senza che fosse stata adottata la benchè minima misura di prevenzione a tutela dei lavoratori ivi impegnati (e per non essersi astenuto dal dar corso al proprio intervento cooperativo proprio in ragione dell’estrema ed evidente pericolosità delle operazioni in esecuzione), quanto alla verifica della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato e del nesso di causalità tra la condotta del N. e l’evento dannoso.

Sul punto, varrà sottolineare, in coerenza all’insegnamento di questa corte di legittimità, come ai fini del riconoscimento della cooperazione nel delitto colposo, oltre a non esser necessaria la conoscenza dell’identità delle altre persone cui risale la cooperazione, deve ritenersi non necessaria neppure la consapevolezza della natura colposa dell’altrui condotta, essendo sufficiente la coscienza, da parte dell’agente, che dello svolgimento di una determinata attività (nella specie, dell’attività di rifacimento della copertura di un immobile altrui) siano investite anche altre persone (cfr. Cass., Sez. 4^, n. 6215/2009, Rv. 246420; Cass., Sez. 4^, n. 26020/2009, Rv. 243932).

In particolare, tale cooperazione deve ritenersi ravvisabile anche quando (come nel caso di specie) un soggetto interviene nell’ambito di un’opera complessivamente organizzata, essendo a conoscenza che la sistemazione di detta opera è riservata anche all’altrui responsabilità (v. Cass., Sez. 4^, n. 26020/2009, cit.).

Proprio con riguardo a tali aspetti, questa corte ha già in precedenza avuto modo di sottolineare come l’elemento di coesione tra le diverse condotte di cooperazione chieda d’essere rinvenuto nel dato d’indole psicologica costituito dalla consapevolezza di cooperare con altri, senza peraltro che tale consapevolezza debba estendersi sino a cogliere il carattere colposo dell’altrui condotta.

Le contrastanti tesi espresse al riguardo presentano il fianco a qualche critica. La tesi della mera consapevolezza dell’altrui condotta sembra implicare il rischio di creare un’indiscriminata estensione dell’imputazione. D’altra parte, richiedere la consapevolezza del carattere colposo dell’altrui comportamento reca il rischio opposto di svuotare la norma e di renderla inutile, giacchè una tale consapevolezza ben potrebbe implicare un atteggiamento autonomamente rimproverabile.

Le preoccupazioni di un’eccessiva estensione della fattispecie di cooperazione connesse alla mera consapevolezza dell’altrui condotta concorrente, peraltro, appaiono ragionevolmente arginabili individuando con rigore, sul piano fenomenico, le condotte che si pongono tra loro in cooperazione. Occorre cioè che il coinvolgimento integrato di più soggetti sia imposto dalla legge, da esigenze organizzative connesse alla gestione del rischio, o almeno sia contingenza oggettivamente definita senza incertezze e pienamente condivisa sul piano della consapevolezza. In tali situazioni, l’intreccio cooperativo, il comune coinvolgimento nella gestione del rischio, giustifica la penale rilevanza di condotte che, sebbene atipiche, incomplete, di semplice partecipazione, si coniugano e si compenetrano con altre condotte tipiche. In tutte tali situazioni ciascun agente dovrà agire tenendo conto del ruolo e della condotta altrui. Si genera così un legame e un’integrazione tra le condotte che opera non solo sul piano dell’azione, ma anche sul regime cautelare, richiedendo a ciascuno di rapportarsi, preoccupandosene, pure alla condotta degli altri soggetti coinvolti nel contesto. Tale pretesa ‘d’interazione prudente’ individua il canone per definire il fondamento e i limiti della colpa di cooperazione. La stessa pretesa giustifica la deviazione rispetto al principio di affidamento e di autoresponsabilità, insita nell’idea di cooperazione colposa (v. Cass., Sez. 4^, n. 1428/2011, Rv. 252940).

Del tutto correttamente, pertanto, la corte territoriale ha configurato la vicenda de qua nel quadro della cooperazione colposa di cui all’art. 113 c.p., avendo esattamente rilevato come l’imputato fosse a conoscenza della condotta (nella specie, d’indole omissiva) attribuibile alla responsabilità della società proprietaria della stalla, allo stesso essendo noti, tanto gli obblighi contrattuali incombenti sulla società proprietaria (e concedente), quanto la volontà dei relativi organi amministrativi di provvedere alle opere di manutenzione della copertura, ed avendo altresì ben potuto verificare personalmente come nessuna cautela fosse stata adottata, da detti organi, al fine di prevenire l’eventuale precipitazione dall’alto dei lavoratori (cfr. pag. 15 della sentenza d’appello): la stessa corte territoriale ha significativamente evidenziato come il N. avesse ammonito il P. a non salire sul tetto ma a rimanere più prudentemente sulla pala della macchina operatrice utilizzata per l’elevazione delle lastre al livello di copertura della stalla (cfr. pagg. 5 e 9 della sentenza d’appello).

Proprio sulla base di tali premesse in fatto, i giudici del merito hanno riconosciuto, in termini pienamente coerenti sul piano logico e argomentativo, come la circostanza che il N. avesse offerto un fattivo e rilevante contributo alla realizzazione dell’opera de qua (nelle condizioni così evidentemente pericolose per i lavoratori ad essa adibiti) valesse a giustificare l’imputazione anche a carico dello stesso dell’evento dannoso verificatosi; e ciò, tanto sul piano soggettivo della colpa ad esso rimproverabile (per aver sconsideratamente agevolato l’evento lesivo, senza doverosamente astenersi dal contribuire, con la propria condotta attiva, all’aggravamento e alla concretizzazione del rischio oggettivamente prevedibile e prevenibile), quanto su quello oggettivo del nesso causale, attesa l’inscindibilità dell’immediato collegamento tra il contributo attivo fornito dal N. e l’omissione colposa ascrivibile alla R..

A tale ultimo riguardo, è appena il caso di evidenziare come, secondo la consolidata interpretazione della giurisprudenza di legittimità, la fattispecie disciplinata dall’art. 113 c.p., vale a porsi quale strumento normativo di estensione della responsabilità penale colposa in relazione al rilievo di condotte che, se astrattamente atipiche (meramente agevolatrici o anche di modesta significatività) rispetto alla produzione dell’evento non voluto, assumono piena rilevanza penale, in termini di colpevolezza e d’imputazione causale obiettiva dell’evento, attraverso il nesso d’indole psicologica che lega la condotta dell’agente con quella degli altri soggetti cooperatori nel delitto colposo, sì da giustificare il riconoscimento di precisi doveri d’indole cautelare anche in relazione alla sfera di soggetti rispetto ai quali non parrebbe in astratto predicabile alcuna specifica o formale posizione di garanzia (cfr. Cass., Sez. 4^, n. 1786/2009, Rv. 242566; Cass., Sez. 4^, n. 1428/2011, Rv. 252940, cit.).

Nella specie, pertanto, del tutto correttamente la corte territoriale ha interpretato le potenzialità normative dell’istituto della cooperazione nel delitto colposo (di cui all’art. 113 c.p.) in relazione alla qualificazione giuridica della fattispecie de qua, a tale istituto dovendo ritenersi riconducibile, oltre all’ipotesi del difetto di consapevolezza, da parte dell’un cooperante, dell’identità dell’altro o della natura colposa della sua azione (cfr., ancora, di recente, Cass., Sez. 4^, n. 26239/2013, Rv.255696), altresì l’ipotesi in cui la coscienza dell’altrui cooperazione sia propria solo di uno dei cooperanti.

Allo stesso modo, deve ritenersi coerente allo spirito del richiamato istituto, l’imposizione di uno specifico dovere giuridico di astensione a carico dell’agente il quale, trovandosi a operare in una situazione di rischio da lui immediatamente e distintamente percepibile (e pur non rivestendo alcuna posizione di garanzia), contribuisca con la propria condotta cooperativa all’aggravamento del rischio, fino a concretizzarne il ricorso, fornendo un contributo causale giuridicamente apprezzabile alla realizzazione dell’evento.

Evenienza peraltro riscontrabile pur dove la condotta del cooperante, in sè considerata, appaia tale da non violare alcuna regola cautelare, poichè il contenuto di lesività di detta condotta chiede d’essere apprezzato per il solo fatto di accedere psicologicamente alla condotta colposa altrui. In relazione a tale ipotesi, infatti, l’integrazione di un’ipotesi di cooperazione nel delitto colposo viene determinata, non già dai caratteri oggettivi della condotta, bensì dal contenuto della volontà del soggetto che aderisce intenzionalmente all’altrui azione negligente, imprudente o inesperta, assumendo così sulla sua azione (anche di sola agevolazione) il medesimo disvalore che, in origine, è caratteristico solo dell’altrui comportamento.

Occorre dunque ribadire come, proprio il nesso d’indole psicologica che lega la volontà dell’agente all’altrui condotta colposa (così assumendo sulla propria azione il medesimo disvalore di quella) – e il fatto stesso di orientare la propria attività cooperativa all’obiettivo mantenimento (quando non all’aggravamento o alla concretizzazione) della situazione di rischio (oggettivamente percepibile) da altri realizzata – vale a confermare la perdurante compatibilità, con il principio di colpevolezza, del rimprovero in ipotesi levato in relazione a condotte (in sè oggettivamente considerate) del tutto rispettose di regole cautelari. Come pure coerente, con il diverso principio di tassatività, deve ritenersi il meccanismo estensivo della responsabilità penale connesso all’efficacia operativa dell’art. 113 c.p., occorrendo osservare come l’area dei comportamenti penalmente rilevanti risulti adeguatamente delimitata, per effetto tanto della tipizzazione della condotta sulla base della sua efficacia condizionante rispetto all’agevolazione (ovvero all’aggravamento o alla concretizzazione) del rischio obiettivamente e percepibilmente creato da altri, quanto dell’obiettiva riconoscibilità, sul piano della realtà sociale, di comportamenti concreti ragionevolmente sussumibili, secondo un criterio di normalità, nel quadro dei tipi legali di volta in volta in rilievo, là dove il coinvolgimento integrato di più soggetti nel compimento di un’opera comune sia imposto dalla legge, da obiettive esigenze organizzative connesse alla gestione del rischio, o si presenti almeno nelle forme di una contingenza oggettivamente definita senza incertezze.

Da ultimo, occorre rilevare la radicale infondatezza del terzo motivo d’impugnazione sollevato dal N., avendo la corte territoriale congruamente giustificato il disconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 114 c.p., in favore dello stesso, specificando come non potesse in alcun modo qualificarsi in termini di ‘minima importanza’ un contributo così decisivo e determinante, nella produzione dell’evento lesivo da ultimo verificatosi, come quello nell’occasione fornito dal N..

4. – Il riscontro dell’integrale infondatezza di tutti i motivi d’impugnazione illustrati con i ricorsi proposti in questa sede (oltre all’assorbimento di ogni questione relativa all’invocata sospensione dell’esecuzione della condanna al pagamento delle somme a titolo provvisionale individuate dalla corte d’appello in favore delle parti civili costituite), impone il rigetto dei ricorsi e la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali, oltre al rimborso delle spese di giudizio in favore delle parti civili costituite, secondo la liquidazione di cui al dispositivo.

 P.Q.M.

 La Corte Suprema di Cassazione, rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè al pagamento in favore delle parti civili delle spese di questo giudizio di cassazione liquidati in totali Euro 3.000,00 oltre accessori come per legge.

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