vigile urbano

Suprema Corte di Cassazione

sezione IV

sentenza 24 settembre 2014, n. 39075

Ritenuto in fatto

M.M.C. ricorre, a mezzo del suo difensore, avverso la sentenza 6 dicembre 2012 della Corte di appello di Caltanissetta, che ha confermato la sentenza 3 marzo 2010 del Tribunale di Enna, da lui appellata e dal Procuratore generale, di condanna per il reato contestatogli al capo b), – drviolazione dell’art. 388 capoverso. c.p., per avere, nella qualità di Sindaco del Comune di Catenanuova (EN), omesso di dare esecuzione al provvedimento d’urgenza, emesso dal Tribunale di Enna in data 23 novembre 2004 – e confermato in sede di reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c. – nell’ambito della controversia di lavoro che opponeva I.G. al Comune di Catenanuova, e con il quale si imponeva allo stesso Ente territoriale di reintegrare il lavoratore nelle funzioni e nella qualifica di Comandante della Polizia municipale. In (omissis) .
L’intera vicenda, in relazione agli atti nella disponibilità della Corte, va così riassunta:
1. Il M. , nella qualità di Sindaco del Comune di Catenanuova, nel marzo del 2004 aveva provveduto alla ristrutturazione della pianta organica del Comune, sopprimendo alcune delle 7 unità operative in cui era suddiviso il comune, accorpandole in tre aree, amministrativa, tecnica e finanziaria.
2. Con la deliberazione di G.M. n. 22 dell’08/03/2004, il Corpo della Polizia Municipale, una delle sette unità (in allora attribuita alla responsabilità di I.G. ), fu collocato nell’Area Amministrativa, mentre con la deliberazione n. 26 del 22/03 il detto Corpo venne suddiviso in cinque servizi: Polizia Commerciale e protezione civile, Polizia stradale, urbana, amministrativa giudiziaria, Polizia mortuaria, Polizia edilizia e ambientale.
3. In virtù del mutato assetto organizzativo con determinazioni sindacali, n. 23, 24 e 28 del 2004, il Vice sindaco, revocò a vari dipendenti l’incarico di responsabile di unità operativa, e tra questi al Comandante della Polizia Municipale, I.G. , che divenne responsabile di uno dei cinque servizi in cui era suddivisa la Polizia municipale e cioè dell’area amministrativa della “polizia commerciale, protezione civile e vigilanza strutture commerciali”. Coordinatore della polizia municipale, e quindi anche del servizio affidato all’I. , fu invece nominato L.C. .
4. L’Indelicato ricorse al Tribunale di Enna in funzione del giudice del lavoro, e chiese di essere reintegrato nelle funzioni di “Comandante del Corpo di P.M.” e di “coordinatore del corpo di P.M.”, funzione apicale quest’ultima scorrettamente attribuita al L. .
4.1. Su ricorso, promosso dall’I. ex art. 700 c.p.c., il Giudice, con ordinanza del 20 settembre 2004, ha accolto la richiesta del ricorrente, ordinando l’immediata sua reintegra con la relativa posizione stipendiale.
4.2. Avverso tale provvedimento il Comune di Catenanuova, ha proposto reclamo, rigettato dal Tribunale di Enna, il 20 aprile 2005, con provvedimento ex art. 669 terdecies c.p.c..
4.3. Nelle more dell’instaurazione del secondo giudizio, con atto di diffida, del 23 novembre 2004. notificato al Comune di Catenanuova, l’I. invitò il Sindaco, a dare tempestiva esecuzione all’ordinanza pronunciata dal Giudice del Lavoro di Enna.
4.4. Il Sindaco ed in particolare l’allora Segretario Comunale, la sig.ra P.M.L. , trasmise la lettera di diffida all’Avvocato Talio, che aveva patrocinato il comune nel procedimento avanti al giudice del lavoro, chiedendo “il da farsi” in considerazione del fatto che l’unità operativa polizia municipale non esisteva più e l’incarico di coordinatore, che aveva il L. non prevedeva l’indennità di posizione che, invece, aveva prima l’I. quando era comandante e responsabile di unità operativa.
4.5. Con delibera di giunta n. 27 del 29 marzo 2005 l’amministrazione comunale, previa revoca della decisione di ristrutturazione, attribuiva nuovamente la qualità di “unità operativa autonoma” alla polizia municipale; ricollocava l’I. nel precedente ruolo apicale di Comandante, coordinatore dei servizi di polizia municipale, a far data dal marzo del 2004, e revocava l’attribuzione di coordinatore che era stata illegittimamente operata (con determina n.28 del 5 aprile 2004) in favore del L. , persona già inquadrata nella categoria “d”.
5. Iniziata l’azione penale nei confronti dell’odierno ricorrente, per i reati di cui agli artt. 323 cod. pen. (CAPO A) e 388 comma 2 cod.pen. (CAPO B), il Tribunale di Enna, assolto il M. dalla prima imputazione, lo ha condannato per l’omessa esecuzione della stabilita reintegra, e la corte distrettuale di Caltanissetta ha confermato la decisione del primo giudice.
6. Il Tribunale, peraltro, nell’assolvere il M. , ex art. 530 capoverso cod. proc. pen., dal delitto ex art. 323 cod. pen., contestatogli al capo A (proscioglimento contestato dal Procuratore generale appellante e confermato dalla corte distrettuale), per difetto di dolo, ha diffusamente chiarito come sul piano oggettivo fosse provata la condotta antigiuridica posta in essere dall’imputato e consistente nel l’aver adottato due delibere di Giunta municipale (delibera di G.M. n. 22 dell’8.3.2004 e n. 26 del 22.3.2004), aventi ad oggetto la modifica della struttura organizzativa del comune di Catenanuova e i conseguenti provvedimenti sindacali [determine sindacali n. 23 del 22.32004, n. 24 del 24.3.2004, n. 28 del 5.4.2004, aventi od oggetto le statuizioni indicate nel capo di imputazione, condotte pacificamente integranti gli estremi della “violazione di norme di legge”, rilevante nel delitto di abuso d’ufficio, considerato:
a) che le delibere di GM. n. 22 dell’8.3.2004 e n. 26 del 22.3.2004 risultano in evidente contrasto con il dettato dell’art. 7 della L.R.S. n. 17/1990 che riserva al Consiglio comunale, le determinazioni sull’ordinamento e l’organizzazione del Corpo di polizia municipale (così come, tra l’altro, statuito nella sentenza T.A.R. Sicilia, n. 589/2006 versata in atti);
b) che le determinazioni n. 23, 24, 28 del 2004 sono del pari illegittime poiché in contrasto sia con l’art. 9 della L. 65/89, sia con l’art. 7, rubricato “Comandante del Corpo di polizia municipale”, laddove si stabilisce che “Il comandante del Corpo di polizia municipale è responsabile verso il sindaco dell’addestramento, della disciplina e dell’impiego tecnico-operativo degli appartenenti al Corpo”… “2. gli addetti alle attività di polizia municipale sono tenuti ad eseguire le direttive impartite dai superiori gerarchici e dalle autorità competenti per i singoli settori operativi nei limiti decloro stato giuridico e delle leggi”;
c) che tale normativa è vigente nel territorio siciliano (stante la competenza esclusiva relativamente al “regime degli enti locali e delle circoscrizioni relative” fissata dall’art. 14 dello Statuto della Regione Siciliana) per l’espresso richiamo contenuto nell’art. 1 della l.r. 17/90, nonché nell’art. 6 di detta legge secondo cui: “2. Il comandante del corpo di polizia municipale è alle dirette dipendenze funzionali ed amministrative del sindaco o dell’assessore all’uopo delegato verso il quale è responsabile della disciplina e dell’impiego tecnico-operativo degli appartenenti al corpo o al servizio”… “3.Il comandante del corpo di polizia municipale, in relazione all’art. 9 della legge 65/89, è collocato al livello apicale dell’ente di appartenenza”;
d) che nella fattispecie le delibere sindacali in questione, revocando al l’I. l’incarico “apicale” di comandante della polizia Municipale, attribuendogli l’incarico della sola area amministrativa della “polizia commerciale, protezione civile e vigilanza strutture commerciali” e conferendo il sovraordinato incarico di coordinamento dei servizi di Polizia Municipale a L.C. , “senza alcuna indicazione delle ragioni” poste a fondamento dell’attribuzione, non solo contrastava la disciplina in materia, ma violava direttamente la previsione contenuta nell’art. 9 della legge regionale che riserva al regolamento comunale la determinazione dell’organico, delle qualifiche e dei profili professionali degli addetti del corpo di polizia municipale.
7. la Corte di appello di Caltanissetta, con la decisione oggi impugnata, e con riferimento alla residua imputazione ex art. 388 cod. pen., contestata al capo B), ha ritenuto che non fosse elemento sufficiente ad escludere l’intenzionalità della condotta del M. la circostanza che si “sarebbe aspettato l’esito del reclamo”, spiegando:
a) che l’essenza stessa dei provvedimenti cautelari impone che gli stessi debbano essere immediatamente eseguiti, al di là del fatto che abbiano o meno carattere definitivamente decisorio (si richiama in proposito cfr. Cass. pen. Sez. 6, 25 ottobre 2004, 65/2005; Cass. pen. 30 novembre 2004, 2603);
b) che nel caso in esame, ai sensi dell’art. 388 comma 2 c.p. si verte in ipotesi di provvedimento del giudice del lavoro posto “a difesa del credito”;
c) che dagli atti non vi era prova che fosse stato restituito all’I. il trattamento economico corrispondente e ricostituita la sua posizione stipendiale, con particolare riferimento alle indennità economiche non corrisposte.
8. Da ciò la conclusione di sussistenza del reato contestato, citandosi, in proposito e a contrariis, proprio in ipotesi di mancata reintegrazione e insussistenza della tutela del diritto di credito, la sentenza 33907/2012 di questa VI sezione (Rv. 253266 imputato Petroli), dal momento che risulterebbe esclusa dalla tutela ex art. 388 comma 2 cod. pen. la sola lesione dei diritti della personalità.

Considerato in diritto

1. Il ricorso, con un unico motivo di impugnazione, prospetta violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo, sostenendo – preliminarmente – che le decisioni del giudice civile di reintegra nel posto di lavoro non possono essere considerate rientranti nella categoria della difesa del credito, vertendosi invece nella specie in una realtà di lesione di un diritto della personalità, di diversa natura rispetto alla nozione dogmatica di credito; inoltre, l’inottemperanza di tale comando assume rilevanza penale se viene esplicitamente indicato altresì il diritto alla retribuzione dovuta.
1.1. In particolare la difesa rileva:
a) che la posizione rivestita dall’I. , a seguito della revoca dall’incarico, non aveva in effetti inciso negativamente sulla sua posizione economica, dato che costui beneficiava oltre che della retribuzione, di emolumenti a titolo di straordinario ed altro, in precedenza non dovuti, in ossequio alla onnicomprensività dell’indennità di posizione, e che dunque garantivano un trattamento economico quasi equivalente a quello precedente: pertanto, a fronte di una situazione retributiva non sperequante e disagiata, sarebbe da escludere la sussistenza dell’ipotesi di reato di cui all’art. 388 cpv. c.p.;
b) che il reintegro nella precedente posizione lavorativa costituisce oggetto di un diritto della personalità, della propria immagine e reputazione professionale, quando il datore di lavoro ne abbia comunque riconosciuto un trattamento retributivo equivalente a quello precedente (si richiama sul punto: Corte di Cassazione Sez. Sesta Pen. 33907/2012);
d) che la condotta di rilievo penale può semmai ravvisarsi in una condotta commissiva diretta ad ostacolare l’esecuzione della pronuncia, e non in un atteggiamento passivo;
e) che, comunque, la condotta elusiva può ritenersi tale, se vengono posti in essere atti ostativi alla esecuzione del provvedimento, realtà questa non verificatasi nel caso de quo, dato che il Sindaco, si attivò immediatamente chiedendo all’Avvocato la scelta da intraprendere.
2. In tale quadro di censure ed osservazioni, il ricorso si duole in particolare che, nell’esposizione della motivazione della sentenza, non vi sia traccia dei risvolti extrapenali della vicenda, così dimenticando che l’elusione presuppone una forma di scaltrezza e raggiro, che si manifesta con un comportamento positivo, e non può consistere nell’inerzia che, comunque, nella vicenda, sarebbe mancata, tenuto conto:
a) che nel caso di un obbligo di fare, assume rilevanza penale il comportamento volto ad impedire il risultato concreto a cui tende il comando giudiziale, non essendo nella specie ravvisabile un comportamento scaltro od espressione di raggiro per disattendere il dettato giudiziale;
b) che non può considerarsi sussistente il dolo dell’imputato, per il semplice fatto che egli ha dichiarato di attendere l’esito del reclamo;
c) che il M. si è attivato immediatamente, e se da un lato vi è un provvedimento cautelare che è per sua natura destinato a produrre effetti in tempi rapidi, dall’altro non va omessa la circostanza che in seno all’area del pubblico impiego e soprattutto all’interno di un comparto amministrativo del tutto modificato, trattandosi altresì di ordine di reintegro, occorreva quantomeno indicare le modalità di attuazione del provvedimento cosa che il giudice del lavoro non ha fatto.
3. Ritiene la Corte che il ricorso non possa essere accolto.
3.1. In tema di applicazione dei disposti dell’art. 388 comma 2 cod. pen., i provvedimenti che prescrivono misure cautelari a difesa della proprietà, del possesso o del credito, sono stati dalla dottrina e dalla giurisprudenza individuati (tra gli altri) in quelli relativi: all’esercizio di azioni possessorie ex art. 1168 c.c. o di denuncia di nuova opera o danno temuto ex artt. 1171 e 1172 c.c., al sequestro giudiziario e conservativo ex art. 670 ss. c.p.c., a quelli di urgenza ex art. 700 c.p.c. se attinenti alle materie indicate.
3.2. Discusso invece è il caso della sentenza provvisoriamente esecutiva oppure del decreto ex art. 700 c.p.c. che abbia ordinato la reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore licenziato (art. 18 Statuto dei lavoratori), risultando controverso se tale misura possa inquadrarsi dogmaticamente nell’area concernente il possesso o il credito:
a) la tesi negativa sostiene che il provvedimento di reintegra non avrebbe natura di misura a difesa del credito, poiché non è in questione il diritto alla retribuzione (in quanto, ove fosse negata anche questa, la risposta dovrebbe essere affermativa: cfr. Cass. VI 17 marzo 1982, Violati, in G. PEN. 1982, 11, 322), e neppure di misura a difesa del possesso, considerato che il posto di lavoro non è compreso fra i diritti reali;
b) la conclusione affermativa si fonda invece sull’assorbente argomentazione che tra le obbligazioni del datore di lavoro ve ne sono altre, diverse da quella del pagamento della retribuzione, che possono fondare un vero e proprio diritto di credito.
3.3. Nella specie, la cotte distrettuale, nell’aderire in punto di diritto alla tesi dell’applicabilità dello schema legale dell’art. 388 cod. pen., ha proprio evidenziato e (correttamente) fatto leva sulla decisiva e determinante circostanza che, dagli atti, non risulta che sia stato restituito all’I. il trattamento economico corrispondente e ricostituita la sua posizione stipendiale, con particolare riferimento alle indennità economiche non corrisposte: realtà questa ammessa dallo stesso ricorrente che parla espressamente di “trattamento economico quasi equivalente”.
3.4. Tanto premesso ritiene questa Corte, pur ammesso che la norma in questione tuteli i diritti di credito “strictu sensu”, e cioè quelli che abbiano un contenuto direttamente patrimoniale, e non ogni situazione in cui un soggetto possa pretendere un certo comportamento da un altro soggetto, anche se da tale condotta possono poi derivare conseguenze patrimoniali (cfr in termini Cass. pen. sez. 6, 3390 del 19 giugno 2012, in ricorso Petroli), che tale rigoroso canone interpretativo debba essere correlato e confrontato con la situazione concreta, che, nella vicenda, è rappresentata da una serie funzionale di violazioni di norme di legge e di regolamento, posta in essere dal sindaco, e finalizzata a privare di precisi diritti patrimoniali l’I. (con vantaggio di altri) ed in particolare della consistente “indennità di posizione”, riconosciuta invece al titolare dei poteri di coordinamento, giusta quanto dianzi argomentato dal giudice di merito, nella narrativa in fatto, in particolare al p. sub 6, lettera “d” cui va fatto integrale riferimento.
3.5. Una situazione in pratica dove appare dominante e risolutivo il consistente diritto di credito, correlato alla posizione “a pica le”, rispetto alla tutela della personalità del lavoratore, anche se l’esito di reintegra comportava “ipso facto et jure” anche la tutela della dignità e della immagine professionale dell’I. nella sua veste di comandante la polizia municipale.
4. Quanto ai profili della “elusione”, pacifica la conclusione (cfr. Sez. U. 36692/2007 Rv. 236937) che l’interesse tutelato dall’art. 388 cod. pen. non è l’autorità in sé delle decisioni giurisdizionali, bensì l’esigenza costituzionale di effettività della giurisdizione, con la conseguenza che il mero rifiuto di ottemperare ai provvedimenti giudiziali previsti dall’articolo 388, comma secondo, cod. pen. non costituisce comportamento elusivo penalmente rilevante, va rilevato che – nella vicenda – l’obbligo richiedeva, per la sua efficace attuazione, la necessaria collaborazione dell’obbligato M. , nella sua qualità di Sindaco del Comune, in quanto “la reintegra dell’I. nella qualifica (apicale) e nelle funzioni di Comandante del Corpo di polizia municipale del Comune di Catenanuova, con la relativa posizione stipendiale” presupponeva necessariamente la revoca dei provvedimenti di ristrutturazione che erano stati illegittimamente adottati, con “riattribuzione” alla polizia municipale, come poi tardivamente avvenuto, della qualità di “unità operativa autonoma”.
4.1. Come più volte precisato da risalente giurisprudenza di questa Corte, la nozione di elusione ha valenza diversa a seconda della natura dell’obbligo imposto: se questo è di non fare, il semplice agire in contrasto realizza l’elusione dell’obbligo; se invece si tratta di obbligo di fare, l’elusione si può realizzare solo con un comportamento volto a impedire il risultato concreto cui tende il comando giudiziale; con l’ulteriore corollario che, se il conseguimento di tale risultato – come nella specie – presuppone la necessaria collaborazione del soggetto obbligato, anche l’inerzia di quest’ultimo concreta l’elusione (cfr. ex plurimis Cass. pen. sez. 6, u.p. u.p. 14 febbraio 2002, Deani e Maccarone; u.p. 17 aprile, 2001 Nespeca 12 novembre 1998, Salini; u.p. 19 ottobre 2000, Roberti).
4.2. In conclusione, nella specie, hanno sostanziato l’elusione richiesta dalla norma solo quei risultati negativi, ricollegabili, in forza dei provvedimenti assunti, alla condotta contra legem dell’obbligato, i cui profili soggettivi risultano efficacemente argomentati dai giudici di merito, con valutazione indenne da censure od invalidità apprezzabili in questa sede.
4.3. Il ricorso pertanto risulta infondato, valutata la conformità del provvedimento alle norme stabilite, nonché apprezzata la tenuta logica e coerenza strutturale della giustificazione che è stata formulata.
Il ricorrente va infine condannato al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione delle spese sostenute in questo grado dalla parte civile Indelicato Gaetano, spese che liquida in Euro 2.600,00 oltre i.v.a. e c.p.a..

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione delle spese sostenute in questo grado dalla parte civile Indelicato Gaetano, spese che liquida in Euro 2.600,00 oltre i.v.a. e c.p.a..

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