cassazione 8

Suprema Corte di Cassazione

sezione IV

sentenza 9 ottobre 2015, n. 40721

Ritenuto in fatto

1. S.G.M. ricorre, a mezzo dei difensori, avverso la sentenza indicata in epigrafe con la quale la Corte di Appello di Milano, confermando quella pronunciata dal Tribunale di Como, lo ha condannato alla pena ritenuta equa, giudicandolo responsabile dell’infortunio occorso a Sc.Ma.Nu. e delle conseguenti lesioni personali dalla medesima patite.
La ricostruzione dell’accaduto é incontroversa. La Sc. , alle dipendenze della Chaim s.r.l., proprietaria di un negozio di parrucchiera sito nelle (OMISSIS) , il 16.12.2008, nel transitare nell’ingresso dell’edificio, scivolava sul pavimento parzialmente coperto da tappeti mobili e bagnato per l’acqua caduta dall’ombrello chiuso di una cliente che la precedeva.
Ad avviso della Corte di Appello l’infortunio si era determinato a causa del mancato apprestamento di una adeguata copertura del pavimento dell’ingresso delle Gallerie; questo era da reputarsi “ambiente di lavoro” e quindi competeva all’imputato, nella qualità di amministratore delegato della società Bennet s.p.a., proprietaria dell’edificio, che non aveva mai delegato ad altri le funzioni in materia di antinfortunistica, di provvedere a porre in sicurezza il pavimento dell’ingresso.
2. Con il ricorso lo S. articola tre motivi.
2.1. Vizio motivazionale e violazione di legge in relazione alla ritenuta aggravante dell’aver commesso il fatto con violazione di norme per la prevenzione degli infortuni. In primo luogo, osservano gli esponenti, l’imputato non era datore di lavoro dell’infortunata8i, dipendente della Chain s.r.l.; e non sussiste alcun rapporto di appalto tra la Bennet s.p.a. e tale società, avente in locazione alcuni locali all’interno delle Galleria; pertanto non vi é luogo all’applicazione dell’art. 26 d.lgs. n. 81/2008 e non incombevano sull’imputato i doveri in materia di coordinamento che la norma pone in capo al datore di lavoro committente. Conseguentemente non sussiste l’aggravante dell’aver commesso il fatto con violazione di norme per la prevenzione degli infortuni; e pertanto il reato é procedibile a querela, nella fattispecie non proposta. Si aggiunge che il luogo dell’infortunio non può essere definito “ambiente di lavoro”, ai sensi e per gli effetti degli artt. 63 e 64 d.lgs. n. 81/2008.
2.2. Vizio motivazionale: la Corte di Appello ha affermato che i tappeti avrebbero dovuto essere fissi; l’organo di vigilanza ha invece prescritto che essi fossero collocati trasversalmente per il lato più lungo, così come avrebbe dovuto fare l’impresa di pulizia incaricata di collocarli e che non aveva adempiuto alla disposizione, con l’effetto di una interruzione del nesso causale riconducente l’evento alla condotta dell’imputato; più in generale si contesta che i tappeti posti all’ingresso costituissero un apprestamento inadeguato alla bisogna.
2.3. Ancora vizio motivazionale: le grandi dimensioni della organizzazione aziendale delle Gallerie (OMISSIS) e il breve periodo dall’assunzione della carica incidono sulla esigibilità della condotta doverosa e quindi nessun rimprovero per colpa può essere mosso all’imputato.

Considerato in diritto

3. Il ricorso è fondato, nei termini di seguito precisati.
3.1. È del tutto incontroverso che l’imputato era amministratore delegato della società proprietaria dei locali che vanno a costituire il centro commerciale (OMISSIS) e sono concessi in locazione alle diverse imprese che ivi hanno deciso di operare. Parimenti incontroverso è che la Sc. non fosse alle dipendenze della società amministrata dallo S. .
Rilevato che, come ammette lo stesso ricorrente, la questione relativa all’applicabilità dell’art. 26 d.lgs. n. 81/2008 é nella specie priva di reale rilevanza, perché già i giudici di merito hanno escluso che sussistessero le condizioni fattuali per la sua operatività, va anche puntualizzato che la censura che investe il giudizio della Corte distrettuale in merito alla misura prevenzionistica richiesta dalla concreta situazione é assorbita dalla preliminare questione posta dal ricorso, che – anche attraverso la critica alla nozione di ambiente di lavoro assunta dalla Corte di Appello – pone il tema della riconoscibilità e della tipologia di una posizione di garanzia in capo all’imputato, dalla quale discenderebbe l’obbligo di apprestare idonee misure di sicurezza nell’area di ingresso del centro commerciale, teatro dell’infortunio occorso alla Sc. .
Orbene, sul piano generale vale considerare che ogni posizione di garanzia é costituita in relazione alle necessità di governo del rischio, sicché le diverse coordinate (spaziali, temporali, funzionali e soggettive, ad esempio) che concorrono a definire l’area di esplicazione del rischio medesimo devono essere precisamente individuate perché possa tratteggiarsi la fisionomia del garante.
Con riguardo al datore di lavoro, già la nozione normativa [art. 2, lett. b) d.lgs. n. 81/2008], incardinandosi sulla titolarità di poteri decisionali e di spesa e sulla connessa responsabilità dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività (oltre che alla titolarità del rapporto di lavoro, evenienza che nel caso che occupa non rileva), evidenzia la necessità di limitare lo sguardo ricognitivo al perimetro di una determinata organizzazione imprenditoriale, della quale va ricostruita la catena gestionale. Detto altrimenti, nell’accertamento della esistenza di una concreta posizione di garanzia, premessa dell’attribuzione di uno specifico evento concreto, non interessa un qualsiasi soggetto datore di lavoro, ma colui che ne reca le attribuzioni in riferimento alla determinata organizzazione imprenditoriale nel cui ambito presta la propria attività il lavoratore infortunatosi.
Tenuto conto quanto appena esposto, si può venire a considerare, che, a mente dell’art. 62 d.lgs. n. 81/2008, si intendono per “i luoghi di lavoro” “i luoghi destinati ad ospitare posti di lavoro, ubicati all’interno dell’azienda o dell’unità produttiva, nonché ogni altro luogo di pertinenza dell’azienda o dell’unità produttiva accessibile al lavoratore nell’ambito del proprio lavoro”. Proprio il caso in esame rende opportuno rimarcare che, ai fini della individuazione dei soggetti gravati da obblighi prevenzionistici, la identificazione di uno spazio quale luogo di lavoro non può prescindere dalla identificazione del plesso organizzativo al quale lo spazio in questione accede. Lo si ricava dalla definizione; testé riportata, laddove prevede un collegamento di ordine spaziale (“all’interno dell’azienda…”) o almeno pertinenziale tra l’azienda o l’unità produttiva e il luogo di lavoro. E lo implica la logica stessa della normativa prevenzionistica, che attribuisce obblighi securitari a colui che é titolare di poteri organizzativi e decisionali che trovano nei luoghi di lavoro l’ambito spaziale e funzionale di estrinsecazione. Lo stesso Titolo II elenca gli obblighi che il datore di lavoro deve osservare rispetto ai “propri” luoghi di lavoro.
E quindi va puntualizzato che, a differenza di quanto sostenuto dal ricorrente, proprio ogni tipologia di spazio può assumere la qualità di “luogo di lavoro”; a condizione che ivi sia ospitato almeno un posto di lavoro o esso sia accessibile al lavoratore nell’ambito del proprio lavoro (cfr. Sez. 4, n. 2343 del 27/11/2013 – dep. 20/01/2014, S. e altro, Rv. 258435; Sez. 4, n. 28780 del 19/05/2011 – dep. 19/07/2011, Tessari e altro, Rv. 250760). In particolare, può trattarsi anche di un luogo nel quale i lavoratori si trovino esclusivamente a dover transitare, se tuttavia il transito é necessario per provvedere alle incombenze loro affidate. In tal senso già ha avuto modo di esprimersi questa Corte, allorquando ha formulato il principio per il quale nella nozione di “luogo di lavoro”, rilevante ai fini della sussistenza dell’obbligo di attuare le misure antinfortunistiche, rientra non soltanto il cantiere, ma anche ogni altro luogo in cui i lavoratori siano necessariamente costretti a recarsi per provvedere ad incombenze inerenti all’attività che si svolge nel cantiere. Nell’occasione si trattava di infortunio verificatosi su una strada pubblica ed aperta al pubblico transito, esterna al cantiere (Sez. 4, n. 28780 del 19/05/2011 – dep. 19/07/2011, Tessari e altro, Rv. 250760).
Per contro, e qui si rinviene una grave lacuna motivazionale nella sentenza impugnata, non può parlarsi di luogo di lavoro (da preferirsi in questo caso alla locuzione utilizzata dalla Corte di Appello di “ambiente di lavoro”) solo sul presupposto che un qualsiasi soggetto, che é anche prestatore d’opera in favore di taluno, vi si trovi a transitare. Va ribadita la stretta correlazione che esiste tra la nozione di “luogo di lavoro” e la specifica organizzazione imprenditoriale alla quale questo accede in funzione servente; correlazione che deriva dalla necessità che si tratti di ambito spazio-funzionale sul quale possano e debbano estendersi i poteri decisionali del vertice della compagine.
Può quindi essere formulato il seguente principio di diritto: “in materia di responsabilità per violazioni delle norme antinfortunistiche, il datore di lavoro obbligato al rispetto delle prescrizioni dettate dal Titolo II del d.lgs. n. 81/2008 per la sicurezza dei luoghi di lavoro va identificato in colui che riveste tale ruolo nell’organizzazione imprenditoriale alla quale accede il luogo di lavoro medesimo”.
Alla luce di tale puntualizzazione risulta chiaro che l’attribuzione all’odierno ricorrente di una posizione di garanzia tra quelle definite dalla normativa prevenzionistica, e segnatamente quella di datore di lavoro, avrebbe richiesto la preliminare qualificazione dell’area di ingresso del centro commerciale come luogo di lavoro dell’impresa della quale lo S. era amministratore delegato; qualificazione possibile solo a condizione di effettuare il preliminare accertamento che anch’esso costituisse luogo di lavoro nell’ambito dell’organizzazione aziendale della Bennet s.p.a. Diversamente, eventuali obblighi di assicurazione della non pericolosità dell’area potrebbero, farsi discendere unicamente dalla proprietà degli spazi; con esclusione, quindi, della violazione di obblighi datoriali e procedibilità a querela del reato. Come già scritto, tale accertamento non emerge dalla motivazione della sentenza in esame, che anzi menziona – manifestando un evidente fraintendimento – la titolarità del diritto di proprietà sull’immobile quale fondamento della posizione di debitore di sicurezza dell’odierno ricorrente rispetto al preteso “ambiente di lavoro”.
3.2. Prima di ritenere esaurita la trattazione del ricorso occorre ancora operare una puntualizzazione in merito alla possibilità che anche una persona estranea all’organigramma dell’impresa – come la Sc. rispetto alla Bennet s.p.a. – possa beneficiare della tutela apprestata dalla normativa prevenzionistica.
Quando si interroga in merito alla cerchia dei destinatari della tutela prevenzionistica che il datore di lavoro deve apprestare, la giurisprudenza tende a includere in essa anche i soggetti estranei alla categoria dei lavoratori. Si afferma, così, che il datore di lavoro ha l’obbligo di garantire la sicurezza nel luogo di lavoro per tutti i soggetti che prestano la loro opera nell’impresa, senza distinguere tra lavoratori subordinati e persone estranee all’ambito imprenditoriale (Sez. 4, n. 37840 del 01/07/2009 – dep. 25/09/2009, Vecchi e altro, Rv. 245274); che in tema di omicidio colposo ricorre l’aggravante della violazione di norme antinfortunistiche anche quando la vittima è persona estranea all’impresa, in quanto l’imprenditore assume una posizione di garanzia in ordine alla sicurezza degli impianti non solo nei confronti dei lavoratori subordinati o dei soggetti a questi equiparati, ma altresì nei riguardi di tutti coloro che possono comunque venire a contatto o trovarsi ad operare nell’area della loro operatività (Sez. 4, n. 10842 del 07/02/2008 – dep. 11/03/2008, Caturano e altro, Rv. 239402); che in materia di infortuni sul lavoro, l’imprenditore assume la posizione di garante della sicurezza degli impianti non solo nei confronti dei lavoratori subordinati e dei soggetti a questi equiparati, ma anche nei confronti delle persone che – pur estranee all’ambito imprenditoriale – vengano comunque ad operare nel campo funzionale dell’imprenditore medesimo (Sez. 4, n. 6348 del 18/01/2007 – dep. 15/02/2007, P.C. proc. Chiarini, Rv. 236105).
La necessità di rinvenire un criterio di delimitazione della responsabilità del datore di lavoro pare essere presente a tale indirizzo e soddisfatta attraverso la richiesta dell’esistenza di una particolare relazione tra l’estraneo e l’organizzazione di impresa (si tratta di soggetti ora svolgenti comunque prestazioni lavorative, ora a vario titolo funzionalmente collegati a quell’organizzazione, quali fornitori, clienti ecc.).
Non manca un filone interpretativo che identifica i destinatari della tutela senza limitazione alcuna. Si puntualizza che, in materia di prevenzione infortuni, l’art. 1 d.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, espressamente richiamato dal capo 1 d.P.R. 7 gennaio 1956 n. 164 (ed ora trasfuso nell’art. 2, co. 4 del d.lgs. n. 81/2008), allorquando parla di “lavoratori subordinati e ad essi equiparati” non intende individuare in costoro i soli beneficiari della normativa antinfortunistica, ma ha la finalità di definire l’ambito di applicazione di detta normativa, ossia di stabilire in via generale quali siano le attività assoggettate all’osservanza di essa, salvo, poi, nel successivo art. 2, escluderne talune in ragione del loro oggetto, perché disciplinate da appositi provvedimenti. Pertanto, qualora sia accertato che ad una determinata attività siano addetti lavoratori subordinati o soggetti a questi equiparati, ex art. 3, comma secondo, dello stesso d.P.R. n. 547 del 1955, non occorre altro per ritenere obbligato chi esercita, dirige o sovrintende all’attività medesima ad attuare le misure di sicurezza previste dai citati d.P.R. 547 del 1955 e 164 del 1956; obbligo che prescinde completamente dalla individuazione di coloro nei cui confronti si rivolge la tutela approntata dal legislatore. Ne consegue che, ove un infortunio si verifichi per inosservanza degli obblighi di sicurezza normativamente imposti, tale inosservanza non potrà non far carico, a titolo di colpa specifica, ex art. 43 cod. pen. e, quindi, di circostanza aggravante ex art. 589, comma secondo, e 590, comma terzo, stesso codice, su chi detti obblighi avrebbe dovuto rispettare, poco importando che ad infortunarsi sia stato un lavoratore subordinato, un soggetto a questi equiparato o, addirittura, una persona estranea all’ambito imprenditoriale, purché sia ravvisabile il nesso causale con l’accertata violazione (Sez. 4, n. 2383 del 10/11/2005 – dep. 20/01/2006, Losappio ed altri, Rv. 232916; si veda anche Sez. 4, n. 38991 del 10/06/2010 – dep. 04/11/2010, Quaglierini e altri, Rv. 248850, che puntualizza la natura di posizione di “controllo” del datore di lavoro, ovvero di soggetto tenuto a dominare una fonte di pericolo per la tutela di beni da questa pregiudicabili, quali che siano i titolari; per la responsabilità datoriale in caso di decesso della moglie di un operaio per patologie connesse alla esposizioni del marito a polveri di amianto cfr. Sez. 4, n. 27975 del 15/05/2003 – dep. 01/07/2003, Eva, Rv. 226011).
In questa prospettiva il limite della responsabilità datoriale viene individuato nell’ambito della causalità, sostenendosi che il fatto è commesso con violazione delle norme dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro solo che sussista tra siffatta violazione e l’evento dannoso un legame causale, il quale non può ritenersi escluso solo perché il soggetto colpito da tale evento non sia un lavoratore dipendente (o soggetto equiparato) dell’impresa obbligata al rispetto di dette norme ma un estraneo all’attività ed all’ambiente di lavoro, purché la presenza di tale soggetto nel luogo e nel momento dell’infortunio non abbia tali caratteri di anormalità, atipicità ed eccezionalità da far ritenere interrotto il nesso eziologico tra l’evento e la condotta inosservante e purché, ovviamente, la norma violata miri a prevenire incidenti come quello in effetti verificatosi (Sez. 4, n. 11360 del 10/11/2005 – dep. 31/03/2006, P.M. in proc. Sartori ed altri, Rv. 233662).
Orbene, comune ad entrambi gli indirizzi è la tesi della riconducibilità degli estranei alla compagine aziendale al novero dei soggetti destinatari della tutela apprestata dalla normativa prevenzionistica.
Questa Corte ritiene di condividere e di ribadire siffatto assunto, sia per le ragioni esplicitate dalla sentenza in causa Losappio, sia perché l’esame delle il norme prevenzionistiche sembra evidenziare che esse possono essere classificate in almeno due tipologie. Talune impongono misure di carattere oggettivo, ovvero misure i cui contenuti risultano definiti a prescindere da qualsivoglia riferimento ad un particolare destinatario. Così, i requisiti previsti dall’allegato V al d.lgs. n. 81/2008 per le attrezzature di lavoro devono essere osservati solo che si tratti di strumenti dell’attività lavorativa e l’eventuale messa in esercizio di macchinari non conformi non esonera da responsabilità il datore di lavoro solo perché l’infortunato non è un lavoratore: la condotta doverosa non è descritta in modo da implicare una delimitazione alle offese ai soli lavoratori. Al datore di lavoro si chiede un adempimento che ha valore per chiunque venga a contatto con la macchina in questione. Può trattarsi – e per lo più si tratta – di lavoratori; ma può ben trattarsi di persone estranee all’apparato organizzativo che per ragioni varie vengono a trovarsi nello spazio di azione degli organi della macchina.
Nella giurisprudenza si rinvengono puntuali affermazioni in proposito: ad esempio, si è affermato che “in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, la disposizione di cui all’art. 72 del d.P.R. n. 547 del 1955 – che prevede che gli organi pericolosi delle macchine devono essere provvisti di un dispositivo di blocco collegato con i congegni di messa in moto e di movimento della macchina
– intende evitare il rischio che chiunque, addetto o non alle macchine, dipendente o estraneo, per qualunque motivo, possa venire a contatto con le parti pericolose del congegno e riportare danni: la norma dunque non ha come specifico destinatario l’operaio addetto, ma è rivolta alla tutela di chiunque (Sez. 4, n. 14175 del 08/11/2005 – dep. 21/04/2006, Zucchiati, Rv. 233949).
A diverse conclusioni deve giungersi laddove la misura prevenzionistica abbia carattere per così dire soggettivo; ovvero si indirizzi ad una specifica tipologia di soggetti. L’obbligo di sorveglianza sanitaria (artt. 41 e ss. D.lgs. n. 81/2008) è esplicitamente posto a beneficio del lavoratore; ma è l’insieme della disciplina che porta ad escludere che esso si ponga anche a beneficio del soggetto estraneo all’azienda (salvo che questi non venga a trovarsi nella situazione oggettiva caratteristica del lavoratore).
Se ne può derivare che talune regole prevenzionistiche sono dettate a tutela di qualsiasi soggetto che venga a contatto con la fonte di pericolo sulla quale il datore di lavoro ha poteri di gestione; altre sono poste a beneficio precipuo del lavoratore, inteso in senso formale e sostanziale. Nel primo caso, le ragioni per le quali si determina il contatto tra la fonte di pericolo e l’estraneo è del’tutto irrilevante, proprio perché – per usare altra terminologia corrente nella dottrina – la sfera di competenza del titolare dell’obbligo è definita su base eminentemente oggettiva, ovvero in relazione alla fonte di pericolo.
Questa prima conclusione permette di puntualizzare che la qualità di extraneus, nel senso dianzi assunto, non è di per sé incompatibile con l’esistenza di un protettivo dovere di sicurezza datoriale.
4. La sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Milano, la quale dovrà accertare se l’ingresso dell’edificio ove avvenne il sinistro in danno della Sc. sia stato, al tempo, luogo destinato ad ospitare posti di lavoro ovvero luogo accessibile nell’ambito del loro lavoro ai lavoratori dipendenti della Bennet s.p.a..
Ove l’accertamento risulti positivo, occorrerà ancora verificare se sussistevano le condizioni perché la tutela che l’imputato, nella qualità, avrebbe dovuto apprestare a vantaggio dei propri dipendenti, doveva ritenersi estesa anche alla Sc. , alla luce di quanto esplicato in questa sede. I restanti motivi risultano assorbiti.

P.Q.M.

annulla la sentenza impugnata con rinvio, per nuovo esame, alla Corte di Appello di Milano.

 

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