Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza 12 settembre 2016, n. 17921

Nel caso di licenziamento per mancato superamento del periodo di prova, una volta accertata la nullità di tale clausola – perché il lavoratore era stato già testato a sufficienza con diversi contratti a termine -, la tutela reale od obbligatoria dipende dalle dimensioni dell’azienda, che spetta al datore provare

Suprema Corte di Cassazione

sezione lavoro

sentenza 12 settembre 2016, n. 17921

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MACIOCE Luigi – Presidente
Dott. TORRICE Amelia – Consigliere
Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere
Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere
Dott. TRICOMI Irene – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 27723/2013 proposto da:
(OMISSIS) C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’avvocato ROBERTO COSIO, giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’Avvocato (OMISSIS), giusta delega in calce alla copia del ricorso notificato;
– resistente con mandato –
avverso la sentenza n. 1109/2013 della CORTE D’APPELLO di MESSINA, depositata il 16/07/2013, R.G. N. 1631/2011;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/07/2016 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO;
udito l’Avvocato (OMISSIS);
udito l’Avvocato (OMISSIS);
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA Mario, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1 – La Corte di Appello di Messina, in parziale riforma della sentenza del locale Tribunale, ha integralmente accolto le domande proposte da (OMISSIS) nei confronti del (OMISSIS) e, dichiarata la nullita’ del patto di prova apposto al contratto a tempo indeterminato sottoscritto dalle parti il 28 maggio 2007, ha annullato “la risoluzione del rapporto e l’atto di recesso” condannando l’ente di formazione alla “riammissione in servizio e alla corresponsione delle retribuzioni dalla cessazione del rapporto fino alla effettiva reintegrazione”.
2 – La Corte territoriale ha premesso che nei due anni immediatamente antecedenti la stipula del contratto il (OMISSIS), quale collaboratore a progetto, aveva svolto nei corsi di formazione professionale le medesime mansioni di docente di materie informatiche. Ha, quindi, ritenuto privo di causa il patto di prova, in quanto la sperimentazione era gia’ avvenuta con esito positivo, anche se nel periodo precedente non era stato instaurato un vero e proprio rapporto di lavoro. Dalla nullita’ del patto la Corte, poi, ha fatto discendere la “automatica conversione della assunzione in definitiva sin dall’inizio e la vanificazione degli effetti del recesso”.
3 – Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il Centro Formazione Professionale S. Giovanni Apostolo sulla base di due motivi, illustrati da memoria ex articolo 378 c.p.c.. (OMISSIS) ha depositato procura ed il difensore ha discusso oralmente la causa, concludendo per il rigetto del ricorso ed eccependo anche l’inammissibilita’ del secondo motivo.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.1 – Il primo motivo di ricorso denuncia ex articolo 360 c.p.c., n. 3, “violazione degli articoli 2096, 2697, 2729 c.c.”, e censura il capo della decisione relativo alla ritenuta nullita’ del patto di prova. Sostiene il ricorrente che il patto, in quanto destinato alla verifica non solo delle qualita’ professionali ma anche del comportamento e della professionalita’ complessiva del lavoratore, e’ ammissibile ogniqualvolta risponda ad una “finalita’ apprezzabile”, sussistente nella fattispecie in considerazione della differenza quantitativa e qualitativa delle mansioni svolte sulla base dei contratti, di diversa natura, succedutisi nel tempo. Precisa al riguardo che la collaborazione a progetto aveva riguardato un’unica materia e l’insegnamento era stato reso in corsi destinati ad allievi in possesso della sola licenza media inferiore. Il rapporto di lavoro subordinato, invece, oltre a comportare un maggior impegno in termini temporali, era stato instaurato per l’attivita’ di docenza di sei materie in corsi destinati a studenti che avessero conseguito il diploma di scuola media superiore.
1.2 – Con il secondo motivo si censura la sentenza impugnata per “violazione dell’articolo 1223 c.c., e della L. n. 604 del 1966, articolo 8”. Il ricorrente, richiamando giurisprudenza di questa Corte, evidenzia che la nullita’ del patto di prova non determina “la sanzione risarcitoria di diritto comune” in quanto il licenziamento resta assoggettato alla disciplina sua propria e, quindi, la illegittimita’ comporta, in caso di insussistenza del requisito dimensionale, le conseguenze previste dall’articolo 8 della legge richiamata in rubrica. Aggiunge che il Tribunale di Messina, proprio in considerazione della incontestata inapplicabilita’ della tutela reale, aveva condannato il Centro al pagamento di tre mensilita’.
2 – Il primo motivo e’ infondato, nella parte in cui denuncia la violazione dell’articolo 2096 c.c., ed e’ per il resto inammissibile.
La giurisprudenza di questa Corte e’ consolidata nell’affermare che la causa del patto di prova e’ quella di tutelare l’interesse di entrambe le parti del rapporto a sperimentarne la convenienza, sicche’ detta causa risulta insussistente ove la verifica sia gia’ intervenuta, con esito positivo, per le medesime mansioni, in virtu’ di prestazione resa dal lavoratore, per un congruo lasso di tempo, a favore dello stesso datore di lavoro (in tal senso fra le piu’ recenti Cass. 17.7.2015 n. 15059; Cass. 25.3.2015 n. 6001; Cass. 5.3.2015 n. 4466).
E’ stato anche precisato che il principio e’ applicabile ogniqualvolta il prestatore venga chiamato a svolgere la medesima attivita’, senza che rilevino la natura e la qualificazione dei contratti stipulati in successione (Cass. 29.7.2005 n. 15960) nonche’ la diversa denominazione delle mansioni (Cass. 1.9.2015 n. 17371) e senza che in sede di legittimita’ possa essere censurato l’accertamento di eguaglianza effettiva delle mansioni, in quanto riservato “al sovrano apprezzamento del giudice di merito” (Cass. n. 17371/2015 e Cass. 6001/2015). La sentenza impugnata e’ conforme ai principi di diritto sopra richiamati, dei quali ha fatto corretta applicazione, evidenziando che l’attivita’ di insegnamento affidata al (OMISSIS) negli anni 2005 e 2006, nell’ambito del corso per operatore su computer, era del tutto sovrapponibile a quella oggetto del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato stipulato nell’anno 2007.
Il motivo, nella parte in cui censura detta valutazione, sottolineando le differenze che la Corte territoriale non avrebbe apprezzato, esula dalla denunciata violazione di legge e si risolve nella inammissibile sollecitazione di una diversa valutazione delle risultanze di causa, non consentita in sede di legittimita’.
Al riguardo occorre ribadire che il vizio di violazione di norme di diritto consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa e’ esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura e’ possibile, in sede di legittimita’, sotto l’aspetto del vizio di motivazione, nel rispetto della disciplina applicabile ratione temporis. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi e’ segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, e’ mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. 26.3.2010 n. 7394 e negli stessi termini Cass. 10.7.2015 n. 14468).
Ne discende che per le sentenze pubblicate, come nella fattispecie, dal trentesimo giorno successivo alla entrata in vigore della L. 7 agosto 2012, n. 134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del Decreto Legge 22 giugno 2012, n. 83, la motivazione e’ censurabile in sede di legittimita’ solo nella ipotesi, che qui non ricorre, di “omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che e’ stato oggetto di discussione fra le parti”.
3 – E’, invece, fondato il secondo motivo perche’ erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto che alla nullita’ del patto di prova dovessero conseguire, in modo automatico, la vanificazione degli effetti del recesso, la ricostituzione del rapporto, il risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni maturate dalla data della risoluzione sino a quella della riammissione in servizio.
Va premesso che la censura, con la quale si sostiene, attraverso il richiamo a Cass. 5 marzo 2013 n. 5404, che le conseguenze del licenziamento intimato in presenza di un patto di prova affetto da nullita’, dovevano essere quelle previste dalla L. n. 604 del 1966, articolo 8, applicato dal giudice di primo grado, e non quelle “di diritto comune”, prospetta una questione di diritto e non di fatto, sicche’ la stessa non puo’ essere ritenuta inammissibile per novita’, tanto piu’ che le deduzioni del ricorso sono volte a contrastare la motivazione della sentenza impugnata.
Si e’ detto che il patto di prova tutela l’interesse di entrambe le parti a sperimentare la convenienza del rapporto di lavoro, sicche’, proprio in ragione di detto interesse, l’articolo 2096 c.c., consente il recesso ad nutum che permette al datore di lavoro di recedere dal rapporto, senza alcun obbligo motivazionale, qualora sia insoddisfatto dell’esito della sperimentazione.
A sua volta la L. n. 604 del 1966, articolo 10, nello stabilire che “le norme della presente legge (sui licenziamenti individuali) si applicano nei confronti dei prestatori di lavoro… assunti in prova… dal momento in cui l’assunzione diviene definitiva”, sottrae il rapporto nel quale il patto di prova sia stato validamente inserito alla applicazione della disciplina limitativa del licenziamento, con la conseguenza che “il recesso del datore (licenziamento) durante il periodo di prova rientra cosi’ nella cosiddetta area della recedibilita’ acausale, o ad nutum: il datore e’ titolare di un diritto potestativo, il cui esercizio legittimo non richiede giustificazione” (Cass. S.U. 2.8.2002 n.11633).
Peraltro detta recedibilita’, libera sia pure nei limiti indicati dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimita’, presuppone che il patto di prova sia stato validamente apposto, sicche’ ove difettino i requisiti di sostanza e di forma richiesti dalla legge, la nullita’ della clausola, in quanto parziale, non estendendosi all’intero contratto, determina “la conversione (in senso atecnico) del rapporto in prova in rapporto ordinario… e trova applicazione, ricorrendo gli altri requisiti, il regime ordinario del licenziamento individuale” (Cass. 18.11.2000 n. 14950).
In altri termini il licenziamento intimato per asserito esito negativo della prova, sull’erroneo presupposto della validita’ della relativa clausola o in forza di errata supposizione della persistenza del periodo di prova, in realta’ gia’ venuto a scadenza, non puo’ iscriversi nell’eccezionale recesso ad nutum di cui all’articolo 2096 c.c., bensi’, non trovando applicazione la L. n. 604 del 1966, articolo 10, “consiste in un ordinario licenziamento soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza o meno della giusta causa o giustificato motivo” (Cass. 19.8.2005 n. 17045 e negli stessi termini Cass. 22.3.1994 n. 2728).
Ha, quindi, errato la Corte territoriale nel ritenere che la nullita’ del patto di prova vanificasse gli effetti del recesso determinando, per cio’ solo, la ricostituzione del rapporto, dovendo, al contrario, trovare applicazione la disciplina ordinaria sui licenziamenti e, quindi, in presenza dei requisiti rispettivamente richiesti, la tutela assicurata dalla L. n. 604 del 1966, o dalla L. n. 300 del 1970, articolo 18.
Inoltre, ai fini della applicazione della disciplina concretamente applicabile alla fattispecie, valgono i principi affermati dalla giurisprudenza di questa Corte in merito all’onere della prova gravante sul datore di lavoro, anche in relazione al requisito dimensionale.
La sentenza impugnata va, pertanto, cassata con rinvio alla Corte di Appello di Messina in diversa composizione, che procedera’ ad un nuovo esame attenendosi a quanto sopra indicato ed al principio di diritto di seguito enunciato: “il licenziamento intimato sull’erroneo presupposto della validita’ del patto di prova, in realta’ affetto da nullita’, riferendosi ad un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, non e’ sottratto alla applicazione della disciplina limitativa dei licenziamenti, per cui la tutela da riconoscere al prestatore di lavoro sara’ quella prevista dalla L. n. 300 del 1970, articolo 18, qualora il datore di lavoro non alleghi e dimostri la insussistenza del requisito dimensionale, o quella riconosciuta dalla L. n. 604 del 1966, in difetto delle condizioni necessarie per la applicabilita’ della tutela reale”.
P.Q.M.

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