Cassazione10

Suprema Corte di Cassazione

sezione lavoro

sentenza 19 novembre 2015, n. 23694

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente

Dott. NOBILE Vittorio – rel. Consigliere

Dott. LORITO Matilde – Consigliere

Dott. GHINOY Paola – Consigliere

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 13052-2010 proposto da:

(OMISSIS) S.P.A. C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato STUDIO (OMISSIS) & PARTNERS, rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS), giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

(OMISSIS) C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS), giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 57/2009 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 13/05/2009 r.g.n. 607/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 24/09/2015 dal Consigliere Dott. VITTORIO NOBILE;

udito l’Avvocato (OMISSIS) per delega verbale (OMISSIS);

udito l’Avvocato (OMISSIS) per delega (OMISSIS);

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GIACALONE Giovanni, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

 

Con sentenza n. 57/2009 la Corte d’Appello di Venezia rigettava l’appello proposto dalla s.p.a. (OMISSIS) nei confronti di (OMISSIS) e confermava le sentenze del Giudice del lavoro del Tribunale di Treviso non definitiva (n. 92/2004) e definitiva (n. 243/2005), con le quali, tra l’altro, rispettivamente, con la prima era stata dichiarata la nullita’ del termine apposto al contratto di lavoro intercorso tra le parti dal 5-10-1998 al 30-1-1999 per “esigenze eccezionali” ex articolo 8 ccnl 1994 come integrato dall’acc. 25-9-97 e succ., con la conseguente esistenza di un rapporto a tempo indeterminato ab origine ed era stata condannata la societa’ al ripristino del rapporto e al pagamento delle retribuzioni dalla messa in mora (6-11-2002), oltre rivalutazione e interessi, e con la seconda la societa’ era stata condannata a pagare alla (OMISSIS) la somma di euro 13.247,94, oltre interessi e rivalutazione dal maturato al saldo.

Per la cassazione della sentenza di appello la societa’ ha proposto ricorso con otto motivi.

La (OMISSIS) ha resistito con controricorso.

Infine la societa’ ha depositato memoria ex articolo 378 c.p.c..

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

 

Con i primi sei motivi la ricorrente, sotto diversi profili di vizi di motivazione e di violazione di legge, censura l’impugnata sentenza nella parte in cui ha ritenuto la nullita’ del termine apposto al contratto de quo in quanto stipulato (per “esigenze eccezionali…”) oltre la scadenza ultima fissata dagli accordi collettivi attuativi dell’acc. az. 25-9-1997 ed all’uopo sostiene la insussistenza di tale scadenza e la natura meramente ricognitiva dei detti accordi, nonche’ la contraddittorieta’ fra la affermazione della ampiezza della autonomia delle parti collettive nella previsione della ipotesi collegata alla ristrutturazione e la configurazione della delimitazione temporale incoerente con i lunghi tempi propri della ristrutturazione stessa, nonche’, inoltre, la erroneita’ della affermazione circa la necessita’ della dimostrazione del nesso causale tra le esigenze generali e la singola assunzione.

Tali motivi, connessi fra loro, risultano infondati e vanno respinti come di seguito.

In base alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, “in materia di assunzioni a termine dei dipendenti postali, la Legge 28 febbraio 1987, n. 56, articolo 23, nel consentire anche alla contrattazione collettiva di individuare nuove ipotesi di legittima apposizione di un termine al contratto di lavoro, ha consentito il ricorso ad assunzione di personale straordinario nei soli limiti temporali previsti dalla contrattazione collettiva, con conseguente esclusione della legittimita’ dei contratti a termine stipulati oltre i detti limiti; resta altresi’ escluso che le parti sociali, mediante lo strumento dell’interpretazione autentica delle vecchie disposizioni contrattuali ormai scadute (volta ad estendere l’ambito temporale delle stesse), possano autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti non piu’ legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita, tanto piu’ che il diritto del lavoratore si era gia’ perfezionato e le organizzazioni sindacali non possono disporre dello stesso.” (v. fra le altre Cass. 16-11-2010 n. 23120).

In particolare, come e’ stato precisato, “con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’articolo 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto il 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente e alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali, fino alla data del 30 aprile 1998.

Ne consegue che deve escludersi la legittimita’ delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998 per carenza del presupposto normativo derogatorio, con l’ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza dell’articolo 1 della legge 18 aprile 1962 n. 230” (v. Cass. 18-11-2011 n. 24281, cfr. Cass. 28-11-2008 n. 28450, 4-8-2008 n. 21062, Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 1-10-2007 n. 20608, Cass. 23-8-2006 n. 18378).

Tanto basta per respingere congiuntamente i primi sei motivi.

Con il settimo motivo la ricorrente, denunciando violazione dell’articolo 112 c.p.c., lamenta che la Corte d’Appello erroneamente ha ritenuto nuova e inammissibile la questione riguardante il risarcimento per i periodi non lavorati tra la messa in mora ed il ripristino del rapporto ed all’uopo rileva che “ovviamente solo nel ricorso in appello si possono censurare le motivazioni poste a base della sentenza impugnata” e che comunque gia’ con la memoria di primo grado aveva invocato il principio di sinallagmaticita’ del rapporto e di corrispettivita’ delle prestazioni, affermando la non spettanza della retribuzione per i periodi non lavorati.

Tale motivo, sorretto da specifico e idoneo quesito di diritto ex articolo 366 bis c.p.c. (che va applicato nella fattispecie ratione temporis) va accolto nei limiti di seguito precisati.

Rilevato, infatti, che il capo risarcitorio dell’impugnata sentenza e’ stato investito da un valido e pertinente motivo di ricorso, osserva il Collegio che (a prescindere da ogni considerazione sulla correttezza o meno della statuizione impugnata in base alla disciplina previgente) nella fattispecie e’ intervenuto lo ius superveniens, rappresentato dalla Legge 4 novembre 2010, n. 183, articolo 32, commi 5, 6 e 7 i quali dispongono che: “5. Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennita’ onnicomprensiva nella misura compresa tra uni minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilita’ dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella Legge 15 luglio 1966, n. 604, articolo 8.

6. In presenza di contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente piu’ rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori gia’ occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell’indennita’ fissata dal comma 5 e’ ridotto alla meta’.

7. Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge. Con riferimento a tali ultimi giudizi, ove necessario, ai soli fini della determinazione della indennita’ di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’articolo 421 del codice di procedura civile”.

Tale disciplina (v. fra le altre Cass. 31-1-2012 n. 1409, Cass. 29-2-2012 n. 3056), applicabile a tutti i giudizi pendenti, anche in grado di legittimita’ (v. gia’ Cass. Ord. 28-1-2011 n. 2112), alla luce della sentenza interpretativa di rigetto della Corte Costituzionale n. 303 del 2011, e’ fondata sulla ratio legis diretta ad “introdurre un criterio di liquidazione del danno di piu’ agevole, certa ed omogenea applicazione”, rispetto alle “obiettive incertezze verificatesi nell’esperienza applicativa dei criteri di commisurazione del danno secondo la legislazione previgente”.

La norma, che “non si limita a forfetizzare il risarcimento del danno dovuto al lavoratore illegittimamente assunto a termine, ma, innanzitutto, assicura a quest’ultimo l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato”, in base ad una “interpretazione costituzionalmente orientata” va intesa nel senso che “il danno forfetizzato dall’indennita’ in esame copre soltanto il periodo cosiddetto “intermedio”, quello, cioe’, che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullita’ di esso e dichiara la conversione del rapporto”, con la conseguenza che a partire da tale sentenza “e’ da ritenere che il datore di lavoro sia indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva” (altrimenti risultando “completamente svuotata” la “tutela fondamentale della conversione del rapporto in lavoro a tempo indeterminato”).

Nel contempo, sempre alla luce della citata pronuncia della Corte Costituzionale, “il nuovo regime risarcitorio non ammette la detrazione dell’aliunde perceptum. Sicche’ l’indennita’ onnicomprensiva assume una chiara valenza sanzionatoria. Essa e’ dovuta in ogni caso, al limite anche in mancanza di danno, per avere il lavoratore prontamente reperito un’altra occupazione”.

Peraltro, “la garanzia economica in questione non e’ ne’ rigida, ne’ uniforme” e, “anche attraverso il ricorso ai criteri indicati dalla Legge n. 604 del 1966, articolo 8, consente di calibrare l’importo dell’indennita’ da liquidare in relazione alle peculiarita’ delle singole vicende.

Cosi’ interpretata, la norma citata, risultata “nell’insieme, adeguata a realizzare un equilibrato componimento dei contrapposti interessi”, ha superato il giudizio di costituzionalita’ sotto i vari profili sollevati, con riferimento agli articoli 3, 4, 11, 24, 101, 102 e 111 Cost. e articolo 117 Cost., comma 1.

Successivamente, e’ stata emanata la Legge 28 giugno 2012, n. 92, (in G.U. n. 153 del 3-7-2012), che all’articolo 1, comma 13, con chiara norma di interpretazione autentica (in senso conforme a quanto gia’ affermato dalla Corte Costituzionale e da questa Corte di legittimita’), ha cosi’ disposto: “La disposizione di cui della Legge 4 novembre 2010, n. 183, articolo 32, comma 5, si interpreta nel senso che l’indennita’ ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro”.

Infine, in attuazione della delega di cui alla Legge n. 183 del 2014, il recente Decreto Legislativo n. 81 del 2015, nel disporre un riordino del contratto di lavoro a tempo determinato dettando una disciplina organica dello stesso, tra l’altro, per quanto qui interessa, all’articolo 28, commi 2 e 3, ha regolato l’indennita’ prevista per i casi di trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato e all’articolo 55, lettera f) ha abrogato della Legge n. 183 del 2010, i commi 5 e 6.

A seguito di tale ulteriore ultimo intervento legislativo si pone, quindi, la questione se nella fattispecie in esame debba trovare applicazione la Legge n. 183 del 2010, articolo 32 ovvero il Decreto Legislativo n. 81 del 2015, articolo 28.

La soluzione di tale questione non puo’ che partire dalla verifica del carattere innovativo (o comunque modificativo) della nuova disciplina, come tale idoneo a configurare una reale ipotesi di successione di leggi e non una mera riformulazione della medesima disciplina pregressa.

Orbene, dalla analisi letterale delle due disposizioni, seppure alcune difformita’ possono ricondursi ad una semplice riformulazione stilistica (ad es. “il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore ” di cui al comma 5, articolo 32 cit., diventa “il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno a favore del lavoratore” nel cit. articolo 28, comma 2) ovvero all’intento di ricomprendere in un unico testo la norma interpretativa sul valore omnicomprensivo dell’indennita’ (gia’ prevista dalla Legge n. 92 del 2012, articolo 1, comma 13, ed ora inserita nell’articolo 28 cit., comma 2, seconda parte), si evincono chiaramente almeno due modifiche sostanziali:

1) l’indennita’ non e’ piu’ commisurata alla “ultima retribuzione globale di fatto “, bensi’ alla “ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto” (in conformita’ al parametro prescelto per il contratto a tutele crescenti di cui al Decreto Legislativo n. 23 del 2015);

2) il rinvio ai contratti collettivi per il riconoscimento della riduzione dell’indennita’ previsto dall’articolo 28, comma 3, non e’ piu’ qualificato come quello gia’ previsto dall’articolo 32, comma 6, (che richiede la stipula con le organizzazioni sindacali comparativamente piu’ rappresentative sul piano nazionale).

Tanto rilevato, atteso che si pone quindi una questione di successione di leggi, deve considerarsi in primo luogo la assenza, nella specie, di una specifica disposizione transitoria, che riconosca espressamente una efficacia retroattiva alla nuova norma di cui all’articolo 28 cit., laddove, invece, la norma pregressa dell’articolo 32 cit. nel comma 7 prevede espressamente la applicabilita’ dei commi 5 e 6 del medesimo articolo 32 a “tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data della entrata in vigore” della Legge n. 183 del 2010.

Vero e’, poi, che il citato comma 7 non e’ stato abrogato dall’articolo 55 del Decreto Legislativo n. 81 del 2015, ma e’ pur vero che lo stesso e’ espressamente riferito e riferibile soltanto ai commi 5 e 6 dell’articolo 32 cit. e non anche alla “nuova” disciplina di cui all’articolo 28 cit..

Inoltre, se si considera che tale ultima norma, riguardante le “tutele” “nei casi di trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato”, ha senza dubbio natura di diritto sostanziale ed e’ inserita nella nuova “disciplina organica” del contratto di lavoro a tempo determinato dettata del Decreto Legislativo n. 81 del 2015, articoli 19 e segg. (cfr. anche articolo 55, lettera b) del citato Decreto Legislativo), deve concludersi nel senso della irretroattivita’ della stessa e della applicabilita’ della nuova disciplina di cui all’articolo 28 cit. soltanto ai contratti di lavoro stipulati dalla data di entrata in vigore del Decreto Legislativo citato (25-6-2015), cosi’ perdurando la applicazione della pregressa disciplina di cui alla Legge n. 183 del 2010, articolo 32, in relazione ai “giudizi pendenti” relativi ai contratti precedenti.

D’altra parte, in mancanza, appunto, di un qualsiasi riferimento nella nuova norma ai “giudizi pendenti” e ad una qualche retroattivita’, stante l’assenza di una qualsiasi disposizione di carattere transitorio, non puo’ in alcun modo ritenersi trasponibile nella nuova disciplina (che riguarda i nuovi contratti a tempo determinato) la previsione del comma 7 dell’articolo 32 cit., che concerne espressamente la “tutela” di cui ai commi 5 e 6 del citato articolo 32 (prevista in relazione ai contratti pregressi). In altre parole, anche la abrogazione dei detti commi 5 e 6 (strettamente correlati al 7), non puo’ che essere riferita ai nuovi contratti.

Del resto anche la interpretazione costituzionalmente orientata conforta tale conclusione, giacche’ ove si riconoscesse alla nuova disciplina (che potrebbe risultare talora meno favorevole al lavoratore) una efficacia retroattiva, tanto da farne applicazione ai giudizi pendenti, dovrebbe comunque esserne vagliata la legittimita’ costituzionale, anche rispetto ai parametri europei, in specie con riferimento all’articolo 6 CEDU, al fine di verificare la sussistenza delle stringenti condizioni cui la giurisprudenza della Corte costituzionale e delle Corti europee subordina la legittimita’ della retroattivita’ in materia civile.

Pertanto, nella fattispecie, ratione temporis, deve applicarsi la Legge n. 183 del 2010, articolo 32, per cui, nei limiti di tale ius superveniens va accolto il settimo motivo, cosi’ risultando assorbito l’ottavo ed ultimo motivo, concernente la asserita mancanza della messa in mora nella comunicazione della richiesta di tentativo obbligatorio di conciliazione (questione ormai assorbita dalla applicazione dello stesso ius superveniens in seguito all’accoglimento come sopra del settimo motivo).

L’impugnata sentenza va pertanto cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte d’Appello di Venezia in diversa composizione, la quale provvedera’ alla determinazione del dovuto Legge n. 183 del 2010 cit., ex articolo 32, statuendo anche sulle spese di legittimita’.

 

P.Q.M.

 

La Corte rigetta i primi sei motivi, accoglie nei limiti di cui in motivazione il settimo motivo, assorbito l’ottavo, cassa l’impugnata sentenza in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’Appello di Venezia in diversa composizione.

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