CASSAZIONE

Suprema Corte di Cassazione

sezione lavoro

sentenza  24 aprile 2014, n. 9292

Svolgimento del processo

La società AEM Service s.r.l. propose opposizione avverso la cartella esattoriale con la quale l’Inps, per il tramite della società di cartolarizzazione SCCI s.p.a. e la società di riscossione ESATRI s.p.a., le aveva intimato il pagamento di somme a titolo di recupero di differenze contributive per disoccupazione involontaria, per malattia, per maternità e per CUAF, per un totale, comprensivo di sanzioni, di Euro 488.294,80, sostenendo l’insussistenza del preteso credito contributivo. L’adito giudice del lavoro del Tribunale di Milano respinse l’opposizione Con sentenza del 12/10/10 – 25/1/11, la Corte d’appello di Milano, investita dall’impugnazione della AEM Service srl, in parziale riforma della gravata decisione, ha accertato l’inefficacia della cartella opposta limitatamente ai contributi per malattia e per maternità, per un totale di Euro 130.940,71 oltre sanzioni accessorie, ed ha confermato nel resto la sentenza di primo grado, compensando tra le parti le spese del doppio grado di giudizio.
La Corte territoriale ha spiegato che il fatto che la società appellante svolgesse un’attività in qualche modo strumentale rispetto al pubblico servizio di erogazione del gas e dell’elettricità era insufficiente per poterle attribuire la natura di esercente un pubblico servizio, essendo venuti meno gli elementi pubblicistici che caratterizzavano, sia sotto il profilo soggettivo che oggettivo, l’azienda municipalizzata AEM. La stessa si era, infatti, trasformata in società per azioni ex art. 22, comma 3, lett. e) della legge n. 142/1990 e dalla AEM s.p.a. era stato scorporato il ramo d’azienda che era servito a costituire la società appellante. Questa era una tipica società di servizi (organizzazione e gestione dei servizi di centralino, di contatti commerciali, di lettura consumi e fatturazione), ma dal suo statuto non appariva necessariamente collegata ad un pubblico esercizio e la sua attività non presentava di per sé alcun profilo pubblicistico. Ha aggiunto la Corte di merito che l’appellante era una società privata e che, in mancanza di un provvedimento ministeriale attestante l’esistenza di condizioni di stabilità di impiego al suo interno, non poteva vantare l’esclusione dalla contribuzione per disoccupazione involontaria e per la mobilità e che, in ogni caso, doveva escludersi che nella fattispecie ricorressero le condizioni di stabilità d’impiego presso la società appellante.
Quanto ai contributi per malattia la Corte d’appello ha chiarito che doveva prendersi atto dello “ius superveniens” rappresentato dall’art. 20, comma 1, del d.l. n. 112/08, convertito nella L. n. 133/08, a norma del quale l’art. 6 L. n. 138/1943 doveva essere interpretato nel senso che quando il trattamento di malattia veniva corrisposto per legge o per contratto collettivo direttamente dal datore di lavoro, con conseguente esonero dell’Inps dall’erogazione dell’indennità, il medesimo non era tenuto al versamento della relativa contribuzione all’istituto previdenziale e che, comunque, restavano acquisite alla gestione le contribuzioni versate prima dell’1.1.2009. La stessa Corte ha, poi, precisato che per quel che concerneva i contributi per maternità aveva ragione l’appellante a dolersi del fatto che non si era tenuto conto della portata assolutamente generale dell’art. 79 del d.lgs. n. 151/2001 che aveva ridotto il contributo per maternità nel settore terziario, servizi, proprietari di fabbricati e servizi di culto allo 0,24%, anche se la decorrenza per tale riduzione era operativa solo dall’1.7.2000. Infine, quanto ai contributi CUAF, la Corte ha affermato che gli stessi erano dovuti in quanto l’art. 3, comma 23, della legge n. 33571995 aveva previsto la loro riduzione solo a compensazione del contestuale aumento della contribuzione al FPLD, mentre in relazione ai dipendenti iscritti all’IVS INPDAP (nel caso in esame quelli provenienti dall’azienda elettrica municipalizzata) l’Inps non aveva beneficiato del corrispondente aumento delle aliquote IVS.
Avverso tale sentenza ricorrono in Cassazione sia la società A2A Energia S.p.A. (già AEM Service s.r.l.), con sei motivi, che l’Inps, anche in rappresentanza della società di cartolarizzazione dei crediti Inps (S.C.C.I.) s.p.a., con un solo motivo.
Entrambe le parti resistono ai rispettivi ricorsi con controricorso.
La società A2A Energia s.p.a. deposita, altresì, memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Rimangono solo intimate la Equitalia Nord s.p.a. e la Equitalia Esatri s.p.a..

Motivi della decisione

Preliminarmente va disposta la riunione dei ricorsi ai sensi dell’art. 335 c.p.c..
1. Con un solo motivo l’Inps deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 78 e 79 del decreto legislativo del 26 marzo 2001, n. 151, nonché un vizio di motivazione.
L’Inps, dopo aver evidenziato che nella fattispecie la controparte pagava la contribuzione I.V.S. per i propri dipendenti all’Inpdap, in quanto il rapporto di lavoro era incardinato con tale istituto previdenziale che era chiamato a gestire la sicurezza sociale dei lavoratori pubblici, adduce che il relativo carico contributivo assolto dai datori di lavoro verso l’Inps era superiore a quello sostenuto nei confronti dell’Inpdap, in quanto nel primo caso la contribuzione era al 32% (art. 3, comma 23, L. n. 335/1995), mentre nel secondo era pari al 23,80% (art. 1, comma 238, della legge 23/12/1996, n. 662). Aggiunge la difesa dell’ente che successivamente l’art. 78 del d.lgs. n. 151/01 aveva previsto al primo comma la riduzione degli oneri contributivi per la maternità a carico dei datori di lavoro nella misura di 0,20 punti percentuali subordinatamente all’adozione dei decreti di cui al comma 2 dell’art. 49 della legge 23/12/1999, n. 488, mentre al successivo secondo comma aveva stabilito che i suddetti oneri a carico dei datori di lavoro del settore dei pubblici trasporti e del settore elettrico erano ridotti dello 0,57%; inoltre, all’art. 79 dello stesso decreto era stato previsto che per la copertura degli oneri derivanti dalle disposizioni del testo unico, relativi al lavoratori ed alle lavoratrici con rapporto di lavoro subordinato privato e in attuazione della riduzione degli oneri di cui all’art. 78, era dovuto dai datori di lavoro un contributo sulle retribuzioni di tutti i lavoratori dipendenti, contributo che veniva fissato in diverse misure a seconda del settore di appartenenza. Tuttavia, secondo la tesi dell’Inps, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d’appello, con la disciplina dettata dai perdetti artt. 78 e 79 del citato decreto non mutavano i termini giuridici della questione, in quanto attraverso tali norme il legislatore si era limitato a fissare dei dati matematici di riferimento, nulla innovando con riguardo alla disciplina fondamentale dettata dal citato art. 3, comma 23, della legge n. 335/95 di cui in premessa.
In definitiva, l’Inps chiede di accertare se il datore di lavoro che paga la contribuzione per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti nella misura del 23,80% presso l’Inpdap, come nel caso di specie la società AEM s.r.l. per i propri dipendenti per i periodi successivi all’entrata in vigore del decreto legislativo n. 151 del 2001, e non presso l’Inps nella misura del 32%, abbia diritto o meno alla riduzione dell’aliquota di finanziamento della contribuzione dovuta per la prestazione di maternità all’Inps.
Il motivo è infondato.
Invero, l’art. 1, comma 23, della legge 8 agosto 1995, n. 335 dispone quanto segue: “Con effetto dal 1 gennaio 1996, l’aliquota contributiva di finanziamento dovuta a favore del Fondo pensioni lavoratori dipendenti è elevata al 32 per cento con contestuale riduzione delle aliquote contributive di finanziamento per le prestazioni temporanee a carico della gestione di cui all’art. 24 della legge 9 marzo 1989, n. 88, procedendo prioritariamente alla riduzione delle aliquote diverse da quelle di finanziamento dell’assegno per il nucleo familiare, fino a concorrenza dell’importo finanziario conseguente alla predetta elevazione”.
In attuazione di tale norma, con il decreto 21 febbraio 1996, pubblicato sulla G.U. – Serie Generale – n. 83 del 9 aprile 1996, emesso dal Ministro del Lavoro e della previdenza sociale, di concerto con il Ministro del Tesoro, sono state adottate le necessarie misure di adeguamento delle aliquote contributive.
L’art. 1 del D.M. in questione dispone, infatti, al comma 1, che a decorrere dal 1 gennaio 1996 l’aliquota contributiva di finanziamento, dovuta a favore del F.P.L.D. gestito dall’INPS, già fissata, al 31 dicembre 1995, per la generalità dei lavoratori nella misura del 27,57 per cento, di cui 8,54 a carico del dipendente (aliquota comprensiva dell’aumento dello 0,60% previsto dal D.M. 15 gennaio 1996, cfr. circolare n. 27 del 19 gennaio 1996), e1 elevata al 32 per cento, di cui 8,54 per cento a carico del dipendente, con un conseguente aumento di 4,43 punti percentuali.
A sua volta, la legge 23 dicembre 1996, n. 662 (G.U. n. 303 Suppl. Ord. del 28/12/1996), contenente misure di razionalizzazione della finanza pubblica, all’art. 1 (Misure in materia di sanità, pubblico impiego, istruzione, finanza regionale e locale, previdenza e assistenza), al comma 238, stabilisce che “a decorrere dal periodo di paga in corso al 1 dicembre 1996 il contributo a carico degli enti datori di lavoro degli iscritti all’Istituto nazionale di previdenza per i dipendenti dell’amministrazione pubblica, gestioni Cassa per le pensioni ai dipendenti degli enti locali, Cassa per le pensioni ai sanitari, Cassa per le pensioni agli insegnanti di asilo e di scuole elementari parificate e Cassa per le pensioni agli ufficiali giudiziari, è elevato al 23,80 per cento della retribuzione imponibile”. Nel successivo comma 239 è previsto, inoltre, che “con la stessa decorrenza di cui al comma 238 le aliquote contributive dovute dai lavoratori dipendenti iscritti alle Casse pensioni di cui al medesimo comma 238 sono stabilite nella misura dell’8,55 per cento, comprensiva degli incrementi contributivi di cui all’articolo 3, comma 24, della legge 8 agosto 1995, n. 335”.
In sostanza dalla lettura congiunta di tali norme si ricava che il contributo elevato al 32% da versare all’Inps è comprensivo della percentuale dell’8,54 a carico del lavoratore dipendente (….è elevata al 32 percento, di cui 8,54 percento a carico del dipendente..), mentre il contributo già elevato al 23,80%, da versare all’Inpdap, è a carico degli enti datori di lavoro degli iscritti all’Istituto nazionale di previdenza per i dipendenti dell’amministrazione pubblica. Nel successivo e distinto comma 239 dello stesso art. 1 della legge n. 662 del 23/12/96 è, infine, stabilito che le aliquote contributive dovute dai lavoratori dipendenti iscritti alle Casse pensioni di cui al medesimo comma 238 sono stabilite nella misura dell’8,55 per cento. Da tutto ciò si deduce, quindi, che è corretta la difesa della società nel punto in cui fa rilevare che non vi è differenza tra le percentuali massime a carico dei soli datori di lavoro nel calcolo del conferimento delle quote contributive da versare all’Inps e all’Inpdap, per cui non ha pregio l’assunto difensivo dell’Inps che contesta la riduzione dell’aliquota di finanziamento della contribuzione dovuta per la maternità, riconosciuta nell’impugnata sentenza a decorrere dall’1.7.2000, basando le proprie censure sull’erronea asserita diversità dell’entità della contribuzione per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti da effettuarsi all’Inps rispetto a quella da corrispondersi all’Inpdap e sulla circostanza che la riduzione sulle contribuzioni cosiddette minori, tra le quali quella per maternità, era stata prevista come contemperamento alla disposta elevazione della sola percentuale da versare all’Inps.
Infatti, come si è appurato in precedenza, l’elevazione della percentuale di contribuzione è stata prevista per entrambe le forme di versamento ai due istituti previdenziali (Inps e Inpdap) ed, inoltre, nel caso del versamento da effettuarsi alla gestione dell’Inps la percentuale elevata al 32% è stata ritenuta comprensiva della quota dell’8,55% a carico del dipendente, mentre nell’ipotesi del versamento da eseguirsi in favore della gestione dell’Inpdap la quota, anch’essa elevata, è stata fissata direttamente a carico della sola parte datoriale nella misura del 23,80%, dopodiché, nel distinto comma 239 dello stesso art. 1 della legge n. 662/1996, è stato precisato che sui lavoratori dipendenti grava, invece, una quota contributiva nella misura dell’8,55%.
la. Col primo motivo di ricorso la società A2A Energia s.p.a. denunzia la violazione e falsa applicazione, con riferimento alla individuazione della figura del soggetto esercente un pubblico servizio, degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché l’omessa o insufficiente motivazione sul punto essenziale della controversia riguardante l’affermazione che la natura strumentale svolta da essa ricorrente rispetto a quella generale del pubblico servizio non vale a qualificarla come impresa esercente un servizio pubblico.
In pratica, la ricorrente sostiene, contrariamente a quanto ritenuto nell’impugnata sentenza, che la sua attività principale di pubblico servizio non poteva che farla divenire partecipe dei caratteri “pubblicistici” rilevanti ai fini della esclusione dalla contribuzione di cui trattasi.
A conclusione del motivo si pone, pertanto, il quesito di diritto teso ad accertare se la natura di soggetto esercente attività di pubblico servizio possa essere riconosciuta indipendentemente dall’esistenza di una partecipazione pubblica totalitaria e, dunque, anche in presenza di partecipazione minoritaria ed anche laddove l’attività stessa possa ritenersi strumentale all’attività principale di esercizio di servizi pubblici. Il motivo è infondato.
Invero, già le Sezioni unite di questa Corte (Sez. Un, n. 7799 del 15/4/2005) avevano affermato che la società per azioni con partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto di diritto privato solo perché il Comune ne possegga, in tutto o in parte, le azioni, atteso che il rapporto tra società ed ente locale è di assoluta autonomia, al Comune non essendo consentito incidere unilateralmente sullo svolgimento del rapporto medesimo e sull’attività della società per azioni mediante l’esercizio di poteri autoritativi o discrezionali, ma solo avvalendosi degli strumenti previsti dal diritto societario, da esercitare a mezzo dei membri di nomina comunale presenti negli organi della società.
Di recente questa stessa Corte (Sez. L, n. 20818 dell’11/9/2013) ha avuto modo di statuire che “in tema di contribuzione previdenziale, le società a capitale misto, ed in particolare le società per azioni a prevalente capitale pubblico, aventi ad oggetto l’esercizio di attività industriali (nella specie, una società per la gestione e la fornitura di servizi agli enti locali in materia di fornitura di acqua, gas ed elettricità) sono tenute al pagamento dei contributi previdenziali previsti per la cassa integrazione guadagni e la mobilità, non potendo trovare applicazione l’esenzione stabilita per le imprese industriali degli enti pubblici, trattandosi di società di natura essenzialmente privata, finalizzate all’erogazione di servizi al pubblico in regime di concorrenza, nelle quali l’amministrazione pubblica esercita il controllo esclusivamente attraverso gli strumenti di diritto privato, e restando irrilevante, in mancanza di una disciplina derogatoria rispetto a quella propria dello schema societario, la mera partecipazione – pur maggioritaria, ma non totalitaria – da parte dell’ente pubblico”. (conf. a Cass. Sez. lav. n. 5816 del 10/3/2010 e a Cass. Sez. lav. n. 14847 del 24/6/2009).
In particolare, con la sentenza n. 14847/2009 di questa Corte si è spiegato che il D.Lgs. n. 869 del 1947, art. 3, comma 1, come sostituito dalla L. n. 270 del 1988, art. 4, comma 1, prevede, per quanto qui specificamente rileva che “Sono escluse dall’applicazione delle norme sulla integrazione dei guadagni degli operai dell’industria:…le imprese industriali degli enti pubblici, anche se municipalizzate, e dello Stato”. La locuzione “imprese industriali degli enti pubblici”, secondo l’assunto della ricorrente, non farebbe riferimento tanto alla proprietà o alla titolarità dell’impresa, quanto invece a “un potere di controllo totale ed effettivo dell’impresa”. Siffatta interpretazione non trova, com’è evidente, alcun riferimento testuale nella norma testé esaminata, laddove, piuttosto, l’equiparazione (soltanto) delle imprese “municipalizzate” (che enti pubblici non sono) a quelle “degli enti pubblici” sta ad indicare che il legislatore ha invece fatto riferimento alla natura pubblica dell’impresa industriale (siccome) svolta dall’ente pubblico.
Nel caso che ne occupa trova poi applicazione, “ratione temporis”, il disposto della L. n. 142 del 1990, art. 22, comma 3, secondo cui: “I comuni e le province possono gestire i servizi pubblici nelle seguenti forme: a) in economia, quando per le modeste dimensioni o per le caratteristiche del servizio non sia opportuno costituire una istituzione o una azienda; b) in concessione a terzi, quando sussistano ragioni tecniche, economiche e di opportunità sociale; c) a mezzo di azienda speciale, anche per la gestione di più servizi di rilevanza economica ed imprenditoriale; d) a mezzo di istituzione, per l’esercizio di servizi sociali senza rilevanza imprenditoriale; e) a mezzo di società per azioni a prevalente capitale pubblico locale, qualora si renda opportuna, in relazione alla natura del servizio da erogare, la partecipazione di altri soggetti pubblici o private. La lett. e) venne poi così modificata dalla L. n. 127 del 1997, art. 17, comma 58: “a mezzo di società per azioni o a responsabilità limitata a prevalente capitale pubblico locale costituite o partecipate dall’ente titolare del pubblico servizio, qualora sia opportuna in relazione alla natura o all’ambito territoriale del servizio la partecipazione di più soggetti pubblici o privati”. Tale disciplina venne quindi sostanzialmente trasfusa, con alcune modifiche, nel D.Lgs. n. 267 del 2000, artt. 112 e 113, per essere poi ridisegnata dalla legislazione successivamente intervenuta in materia. In linea con la propugnata interpretazione del ricordato D.Lgs. n. 869 del 1947, art. 3, comma 1, la ricorrente ritiene pertanto la rilevanza, ai fini de quibus, della influenza dominante sugli assetti organizzativi e sulle finalità societarie da parte del (necessariamente) maggioritario capitale pubblico locale. L’assunto non può tuttavia essere condiviso, posto che, proprio in conformità del disposto del D.Lgs. n. 869 del 1947, art. 3, comma 1, secondo la suesposta interpretazione del medesimo, la mera esperibilità del controllo sulla società a capitale misto da parte del capitale pubblico locale non determina la riconducibilità dell’impresa industriale gestita da tale società nel novero di quelle escluse dall’applicazione delle norme sulla integrazione dei guadagni degli operai dell’industria.
Risulta significativa al riguardo la disposizione di cui alla L. n. 142 del 1990, art. 23, che riconosce all’azienda speciale (di cui all’art. 22, comma 3, lett. c)) natura di “ente strumentale dell’ente locale” e alla istituzione (di cui all’art. 22, comma 3, lett. d)) natura di “organismo strumentale dell’ente locale”, nulla al contrario prevedendo con riferimento alla società per azioni a prevalente capitale pubblico locale (di cui all’art. 22, comma 3, lett. e); dal che discende che la gestione dei servizi pubblici da parte degli enti pubblici territoriali non è di per sé determinativa della natura pubblica dell’organismo attraverso il quale tale gestione viene attuata. Per conseguenza, anche nella fattispecie all’esame, la natura pubblica (o meno) dell’impresa il cui schema societario sia (come nel caso che ne occupa) quello proprio di una persona giuridica privata (nella specie, cioè, una società per azioni), deve essere desunta dall’esistenza o meno del carattere strumentale dell’ente societario rispetto al perseguimento di finalità pubblicistiche ovvero dall’esistenza o meno di una disciplina derogatoria rispetto a quella propria dello schema societario (cfr, Cass., n. 10155/2004). Nella specie il carattere strumentale dell’ente societario rispetto al perseguimento di finalità pubblicistiche deve ritenersi implicitamente escluso dalla già ricordata previsione della L. n. 142 del 1990, art. 23, mentre l’eventuale sussistenza di una disciplina derogatoria rispetto a quella propria dello schema societario non è stata neppure oggetto di specifica allegazione da parte della ricorrente. Per contro già la giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo di precisare che la partecipazione maggioritaria di capitale pubblico, così come l’eventuale erogazione di contributi pubblici, non costituiscono elementi decisivi per decidere della natura pubblica di una compagine costituita secondo il comune modello di una società per azioni (cfr. Cass., SU, n. 107/99; Cass., n. 10155/2004, cit.).
2. a. Col secondo motivo, dedotto per erronea ed insufficiente motivazione su un punto essenziale della controversia, rappresentato dalla esclusione del requisito della stabilità di impiego presso la A2A Energia s.p.a., nonché per violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., è contestata la decisione impugnata nella parte in cui non è stato ritenuto sussistente nella fattispecie il predetto requisito, facendosi rilevare che la società, nata dalla A.E.M. s.p.a., era sorta nel quadro di un riassetto voluto dal legislatore al fine di pervenire alla liberalizzazione del mercato dell’energia elettrica (d.lgs. 16.3.1999, n.79) e di quello del gas naturale (d.lgs. 23.5.2000, n. 164). Al riguardo la ricorrente fa osservare che ciascuna delle società derivate dallo scorporo delle attività nel campo energetico aveva ereditato un ramo d’azienda e che, pertanto, i giudici d’appello avrebbero dovuto prestare attenzione al decreto del 1 agosto 2006, n. 39135 del Ministero del lavoro e della previdenza sociale che prevedeva i casi di esonero dall’obbligo dell’assicurazione contro la disoccupazione involontaria a favore dei lavoratori dipendenti dall’Enel e dalle società che ne erano derivate.
3.a. Col terzo motivo la società ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione degli artt. 51, comma 1, e 21 del CCNL gas – acqua del 17/11/1995, degli artt. 46 e 17 del CCNL 9.7.1996 per i dipendenti da imprese elettriche, delle norme contenute nel Protocollo Federgasacqua del 2003, degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché dell’omessa ed insufficiente motivazione su un punto essenziale della controversia.
In concreto, la ricorrente chiede di accertare se le disposizioni di cui agli artt. 51, comma 1, e 21 del CCNL gas – acqua del 17.11.1995, agli artt. 46 e 17 del CCNL 9.7.1996 per i dipendenti da imprese elettriche ed alle norme contenute nel Protocollo Federgasacqua del 2003 dovevano essere interpretate nel rispetto dei corretti canoni ermeneutici come idonee ad introdurre condizioni più restrittive di recesso rispetto all’ordinaria disciplina legale, facendo sì che potesse dirsi sussistere, per i soggetti ai quali dette norme si applicavano, il requisito della stabilità di impiego, con conseguente esonero per il datore di lavoro dalla contribuzione per disoccupazione involontaria.
Per ragioni di connessione, dovuti alla identica natura della questione ad essi sottesa, il secondo ed il terzo motivo possono essere trattati congiuntamente. Entrambi i motivi sono infondati.
Si osserva, infatti, che le doglianze formulate al riguardo della accertata insussistenza del requisito della stabilità di impiego non superano la decisione della Corte territoriale in ordine alla ravvisata insussistenza, nella fattispecie, di tale condizione all’interno della società, condizione, questa, che è indispensabile ai fini delle esenzioni di cui all’art. 40 n. 2 del R.D.L. n. 1827 del 1935. In realtà, la parte della decisione impugnata che ha accertato l’insussistenza del predetto requisito della stabilità di impiego del personale è basata su motivazione adeguata ed immune da vizi logici e giuridici, come tale esente da rilievi di legittimità.
Infatti, i giudici d’appello hanno ricavato il convincimento della insussistenza del predetto requisito dalla constatata mancanza di un provvedimento ministeriale attestante l’accertamento delle condizioni di stabilità d’impiego presso la società ricorrente, nonché dalla disamina delle norme del contratto collettivo nazionale di riferimento, traendone la conclusione che le stesse non erano più rigorose della ordinaria disciplina limitativa dei licenziamenti.
Né si ravvisa, nell’interpretazione delle norme collettive di riferimento seguita dalla Corte territoriale, alcuna violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, apparendo, al contrario, quella della ricorrente una mera contrapposizione sulla valutazione della portata delle stesse disposizioni.
4.a. Col quarto motivo la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione delle seguenti norme di legge: art. 3, comma 23, L. 8/8/1995 n. 335; artt. 1, 4 e 12 disp. prel. cod. civ.; 5 L. 20/3/1865 n. 2248, Ali. E; d.m. 21/2/1996; artt. 79 e 80 d.p.r. 30/5/1955 n. 797; art. 37 L. 9/3/1989 n. 88; art. 27, co. 2 bis, d.l. 31/12/1996 n. 669 (convertito con modif. nella legge 28/2/1997 n. 30); art. 1, co.238 L. 23/12/1996 n. 662; art. 3, co. 24 L. 8/8/1995 n. 335; art. 5, co. 1, let. A) e b) L. 8/8/1991 n. 274; art. 117 Cost.; artt. 81 e segg. Trattato CE; artt. 3 e 41 Cost..
In concreto, la ricorrente si duole del mancato riconoscimento della riduzione dell’aliquota per la contribuzione del CUAF e sostiene che attraverso il decreto interministeriale del 21.2.1996, che aveva dato attuazione alla riduzione delle aliquote contributive di finanziamento per le prestazioni temporanee di cui all’art. 3, comma 23, L. n. 335/95, si era stabilito che queste non trovavano applicazione per le categorie iscritte ai regimi pensionistici obbligatori diversi dal Fondo Pensioni Lavoratori Dipendenti (c.d. FPLD), con conseguente ingiustificata disparità di trattamento.
In particolare, la ricorrente evidenzia che la riduzione delle aliquote per CUAF e maternità era stata prevista per i dipendenti iscritti all’Inpdai, all’Enpals, ai Fondi sostitutivi gestiti dall’Inps, quali il Fondo Elettrici, il Fondo telefonici, il Fondo Trasporti ed il Fondo Volo, ma non per i soli dipendenti iscritti all’lnpdap, con inspiegabile diversità di trattamento in situazioni identiche.
Viene, pertanto, formulato il seguente quesito di diritto: “Se ai sensi dell’art. 3, comma 23, della legge 8 agosto 1995 n. 335 e del D.M. 21 febbraio 1996, con interpretazione costituzionalmente orientata e rispettosa dei principi comunitari e della ratio legis di riforma previdenziale, la riduzione delle aliquote CUAF e maternità spetta a decorrere dal 1 gennaio 1996 anche per i lavoratori delle aziende municipalizzate privatizzate del settore elettrico che, ex art. 5 co. 1 lett. a) e b) L. 8 agosto 1991 n. 274 hanno optato di restare iscritti all’INPDAP, dovendosi diversamente ritenere che la citata norma di legge sia illegittima per contrasto con gli arti. 3 e 41 Cost., dovendosi dunque disapplicare la citata norma regolamentare di cui al D.M. 21.2.1996 ai sensi degli arti. 1 e 4 e. 1 disp. prel. Cod. civ. e art. 20 L. 20 marzo 1865 n. 2248, all. E”.
5. a. Col quinto motivo la ricorrente si lamenta della violazione e falsa applicazione dell’art. 41 della legge 23.12.1999 n. 488, dell’art. 68 della legge 23.12.2000 n. 388, degli artt. 117, 3 e 41 della Costituzione e degli artt. 81 e segg. del Trattato CE.
Tali doglianze investono la questione del mancato riconoscimento della riduzione delle aliquote CUAF e maternità, anche con riferimento alla richiesta subordinata di riduzione dall’1/1/2000 delle stesse aliquote riguardanti i lavoratori delle aziende municipalizzate privatizzate del settore elettrico che avevano optato per mantenere l’iscrizione all’Inpdap.
A conclusione del motivo è proposto il seguente quesito di diritto: “Se ai sensi dell’art. 41 L. 23 dicembre 1999 n. 488, come interpretata autenticamente dall’art. 68 L. 23 dicembre 2000 n. 388, e dunque con interpretazione costituzionalmente orientata e rispettosa dei principi comunitari e della ratio legis di riforma previdenziale, la riduzione delle aliquote CUAF e maternità spetta a decorrere dall’1 gennaio 2000 anche per i lavoratori delle aziende municipalizzate privatizzate del settore elettrico che ex art. 5 co. 1, lett. a) e b) L. 8 agosto 1991 n. 274, hanno optato per restare iscritti all’INPDAP, dovendosi diversamente ritenere che la citata norma di legge sia illegittima per contrasto con gli arti. 81 e ss. Del Trattato CE e incostituzionale per contrasto con gli artt. 3 e 41 Cost.”.
6. a. Col sesto motivo la A2A Energia s.p.a. denunzia la violazione e falsa applicazione delle seguenti norme di legge: art. 1, comma 238, I. 23/12/1996 n. 662; art. 1, comma 1, lett. a) d.lgs. 24/4/1997 n. 181; art. 1, comma 4, d.lgs. 30/4/1997 n. 18; art. 41, comma 1, L. 23/12/1999 n. 488; art. 1, comma 1, d.l. 28/12/1998 n. 451, conv. con modifiche in L. 26/2/1999 n. 40; d.m. 4/8/1999; art. 1, comma 6, d.lgs. 24/4/1997 n. 164; art. 117 Cost.; artt. 81 e ss. Trattato CE, artt. 3 e 41 Cost..
Oggetto specifico di doglianza è, in questo caso, la motivazione della sentenza impugnata che richiama la discrezionalità del legislatore nella fissazione delle aliquote contributive, per cui si chiede di accertare “se l’art. 1, comma 238, L. 23 dicembre 1996 nella parte in cui non prevede che la riduzione delle aliquote CUAF e maternità spetti a decorrere dall’1 gennaio 1996 anche per i lavoratori delle aziende municipalizzate privatizzate del settore elettrico che ex art. 5, co. 1, lett. a) e b), I. 8 agosto 1991 n. 274 hanno optato di essere iscritti all’INPDAP è illegittimo per contrasto con gli artt. 81 e ss. Trattato CE ed incostituzionale per contrasto con gli artt. 3 e 41 Cost.”.
Il quarto, il quinto ed il sesto motivo possono essere esaminati congiuntamente per ragioni di connessione, posto che attraverso gli stessi è investita, sotto diversi aspetti, la medesima questione del mancato riconoscimento della riduzione delle aliquote per i contributi per CUAF e maternità.
Tali motivi sono infondati, atteso che gli stessi non scalfiscono la correttezza del procedimento logico-interpretativo che ha indotto la Corte di merito a ritenere dovute le differenze pretese dall’Inps con riguardo a tali carichi contributivi.
Invero, la Corte territoriale, dopo aver correttamente spiegato che la riduzione dei contributi per maternità di cui agli artt. 78 e 79 del d.lgs 151/2001 operava, in quanto ormai generalizzata, solo a decorrere dall’1.7.2000 (art. 78 d.lgs. 151/01), ha aggiunto che i contributi per il CUAF erano dovuti in base al ragionamento (valido anche per i contributi di maternità antecedenti all’1.7.00) per il quale l’art. 3, comma 23, della legge n. 335 del 1995 aveva previsto la loro riduzione solo a compensazione del contestuale aumento della contribuzione al Fondo Pensione Lavoratori Dipendenti (FPLD), mentre in relazione ai dipendenti iscritti all’IVS INPDAP (nel caso in esame quelli provenienti dall’azienda elettrica municipalizzata ed a carico dell’odierna società ricorrente) l’Inps non aveva beneficiato del corrispondente aumento delle aliquote IVS. In pratica, come ha ulteriormente spiegato la Corte di merito, era pacifico che la riduzione di cui al menzionato art. 23 della legge n. 335/95 era stata prevista espressamente a compensazione del contestuale aumento al FPLD, tanto che il D.M. del 21/2/1996, che aveva attuato l’aumento e la riduzione delle diverse aliquote come previste dalla legge, aveva escluso dalla riduzione le categorie iscritte a regimi pensionistici obbligatori diversi dal FPLD. I giudici di seconde cure hanno anche tenuto conto della peculiarità del caso riguardante la società appellante che in ordine alla contribuzione IVS aveva dipendenti iscritti sia all’Inps che all’Inpdap (quelli provenienti dall’azienda elettrica municipalizzata), ma nel contempo ha spiegato che in relazione ai dipendenti iscritti alla IVS INPDAP l’Inps non aveva beneficiato del corrispondente aumento delle aliquote IVS, per cui, a fronte di scelte rimesse a monte alla discrezionalità del legislatore in materia finanziaria, non spettava all’autorità giudiziaria surrogarsi in tali valutazioni di carattere squisitamente normativo.
D’altra parte, i dubbi di incostituzionalità prospettati dalla società ricorrente sono manifestamente infondati, posto che non può esservi violazione del principio di uguaglianza – con le connesse pretese ricadute sulla qualificazione giuridica della contribuzione richiesta – laddove vengano ad essere comparate situazione fra loro disomogenee, quali, rispettivamente, la natura pubblica ovvero privatistica delle imprese, e che, al contempo, l’intrinseca ragionevolezza della scelta legislativa di una differenziazione della disciplina contributiva fra l’una e l’altra categoria di tali imprese, siccome dettata dalla sussistenza o meno della loro natura pubblica, esclude la prospettata violazione del principio di libertà dell’iniziativa economica privata, anche sotto il profilo, di rilevanza comunitaria, del rispetto della libera concorrenza.
Pertanto, anche il ricorso della società A2A Energia s.p.a va rigettato.
La reciproca soccombenza delle parti induce la Corte a ritenere interamente compensate tra le stesse le spese del presente giudizio.
Nessuna statuizione sulle spese va adottata nei confronti delle altre parti rimaste solo intimate.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta. Spese compensate. Nulla per le spese nei confronti delle parti rimaste solo intimate.

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