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Suprema Corte di Cassazione

sezione lavoro

sentenza 3 aprile 2014, n. 7818 

Svolgimento del processo

Con sentenza del 22/6/2010 la Corte d’Appello di Firenze ha condannato il Ministero della Difesa a pagare a F.A. , dipendente del Ministero con inquadramento nella VI q.f., Euro 25.000.00 a titolo di risarcimento del danno per l’illegittima dequalificazione subita dalla lavoratrice a seguito del passaggio dalla sezione contratti alla sezione matricola e poi da quest’ultima alla sezione servitù militari svolgendo mansioni poco più che esecutive.
La Corte ha ricordato che la giurisprudenza di legittimità aveva ribadito la necessità che del danno fosse data la prova e che fosse indicato con specifiche deduzioni; che tuttavia occorreva tenere conto dell’esistenza di beni tutelabili e protetti ex art. 41 Cost. e art. 2087 cc rispetto ai quali la verificazione di un danno non era elemento costitutivo poiché l’ordinamento tutelava in sé alcuni valori fondamentali della persona, quali la dignità del lavoro, la libertà di espressione, la libertà di associazione e che in tali casi il danno si identificava con la lesione medesima, come era avvenuto nel caso in esame.
La Corte territoriale ha poi quantificato in Euro 10.000.00 il danno biologico; inoltre, valutata la particolare gravità della dequalificazione e della sua notevole durata e tenuto conto del pregiudizio esistenziale e della lesione della dignità del lavoratore, ha determinato il danno nel suo complesso in Euro 25.000,00.
Avverso la sentenza propone ricorso in Cassazione il Ministero della Difesa formulando tre motivi Si costituisce la F. con controricorso con ricorso incidentale.

Motivi della decisione

Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 112 cpc, e dell’art. 345, 1 comma, cpc.
Rileva che il Tribunale aveva escluso la risarcibilità del danno esistenziale non essendovi stata alcuna a negazione specialmente nelle conclusioni nelle quali la ricorrente aveva chiesto solo il danno a titolo di danno biologico e morale; che il danno esistenziale era stato legato nel ricorso solo al mobbing e che nelle conclusioni non era stato richiesto il danno esistenziale. Rileva che. pertanto, la Corte d’Appello aveva violato il principio della corrispondenza del chiesto e pronunciato.
Con il secondo motivo denuncia violazione dell’art. 2697 cc nel combinato disposto degli artt. 1218,1223 e 2087 cc.
Censura la sentenza nella parte in cui ha proceduto alla liquidazione del danno esistenziale ritenendolo sussistente ex se ogniqualvolta sia lesa l’integrità psico-fisica del lavoratore senza che il danneggiato debba dedurre o provare le ricadute della lesione nella vita di relazione.
Con il terzo motivo denuncia motivazione insufficiente in ordine alla condanna dell’amministrazione al risarcimento del danno esistenziale e contraddittoria in quanto, dopo avere richiamato la giurisprudenza di questa Corte circa la necessità che del danno sia data prova e che non vi siano duplicazioni delle voci di danno aveva poi condannato l’amministrazione al risarcimento del danno esistenziale cumulandolo al danno biologico.
I motivi, stante la loro stretta connessione, vanno esaminati congiuntamente.
Le censure formulate dal Ministero circa la mancanza di una domanda di liquidazione del danno esistenziale devono essere respinte considerato che nel ricorso introduttivo la F. , dopo aver lamentato la crisi ansioso depressiva che l’aveva colpita a seguito del demansionamento e della condotta mobizzante di cui era stata vittima, e dopo aver esposto che detta situazione può dar luogo, oltre al danno biologico, al danno esistenziale,alla vita di relazione ed a danno morale, aveva chiesto l’integrale risarcimento dei danni. Pur dovendosi rilevare la genericità ed imprecisione della domanda dal tenore complessivo della stessa si evince una domanda di risarcimento integrale anche dei danni non patrimoniale tra i quali devono essere compresi il danno morale ed esistenziale.
Il secondo ed il terzo motivo di censura devono invece essere accolti.
La Corte territoriale ha precisato, in definitiva, che il danno non patrimoniale costituisce una categoria ampia e onnicomprensiva nella cui liquidazione il giudice deve tener conto di tutti i pregiudizi concretamente patiti dalla vittima senza duplicare il risarcimento attraverso l’attribuzione di diverse categorie autonomamente valutabili per pregiudizi identici.
La Corte d’appello ha, poi, affermato che “non sfugge al collegio che la giurisprudenza di legittimità – compresa quella da ultimo formatasi con l’intervento delle Sezioni Unite del 2008 – ha ribadito la necessità che del danno sia data la prova e che esso sia indicato con specifiche deduzioni; che in definitiva non vi sarebbe ingresso alla struttura del danno – evento, ma solo a quella del danno-conseguenza”. Fatta tale precisazione la Corte d’appello ha, tuttavia, affermato che “tali categoria sistematiche…..non tengono conto dell’esistenza di beni tutelabili e protetti ex art. 41 Cost. e 2087 cc (quali quelli afferenti la sfera della personalità morale del lavoratore) rispetto ai quali la verificazione di un danno conseguenza non è elemento costitutivo, poiché l’ordinamento tutela in se alcuni valori fondamentali della persona quali la dignità del lavoro, la libertà di espressione, la libertà di associazione, ecc…… il danneggiato non deve dedurre ed offrire alcuna prova delle concrete ricadute della lesione nella vita di relazione presumendosi che una certa diminuzione di capacità comporti una limitazione alla vita personale e sociale”.
Le affermazioni della Corte territoriale non possono essere accolte.
Esse contrastano con i principi affermati da questa Corte che lo stesso giudice di merito ha richiamato ritenendo, però, di non doverne fare applicazione nel caso in esame. Pur dovendosi rilevare che per quanto attiene alla prova del danno, le SS.UU del 2008 (n. 26972), richiamate dalla stessa Corte territoriale, hanno ammesso che essa possa fornirsi anche per presunzioni semplici, deve, tuttavia, escludersi che il danno,sia “in re ipsa” (nello stesso senso Cass. SU n. 6572 del 24 marzo 2006),dovendo essere dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi, che solo dall’interessato possono essere dedotti, si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell’art. 115 c.p.c., a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prova.
Il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, in tutti i casi in cui è ritenuto risarcibile, non può prescindere dalla allegazione da parte del richiedente degli elementi di fatto dai quali desumere l’esistenza e l’entità del pregiudizio. La Corte territoriale non si è attenuta a detti principi.
Con il ricorso incidentale la F. denuncia vizio di motivazione per non avere la Corte esaminato il motivo d’appello con cui lamentava l’erroneità del calcolo delle somme dovute a titolo di risarcimento del danno biologico nonché quello con cui lamentava il mancato rimborso delle spese sostenute per la consulenza tecnica di parte.
È denunciata, come vizio di motivazione, l’omessa pronuncia, da parte del giudice d’appello, su alcuni dei motivi di gravame.
Deve rilevarsi, a riguardo, che costituisce giurisprudenza consolidata di questa Corte il principio secondo cui l’omessa pronuncia su alcuni dei motivi d’appello, risolvendosi nella violazione della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, integra un difetto di attività del giudice di secondo grado, che deve essere fatto valere dal ricorrente non con la denuncia della violazione di una norma di diritto sostanziale ex art. 360 n. 3 cpc o del vizio di motivazione ex art. 360 n. 5 cpc, in quanto siffatte censure presuppongono che il giudice di merito abbia preso in esame la questione oggetto di doglianza e l’abbia risolta in modo giuridicamente non corretto ovvero senza giustificare (o non giustificando adeguatamente) la decisione al riguardo resa, ma attraverso la specifica deduzione del relativo “error in procedendo” – ovverosia della violazione dell’art. 112 cpc, in relazione all’art. 360 n. 4 cpc – la quale soltanto consente alla parte di chiedere e al giudice di legittimità – in tal caso anche giudice del fatto processuale – di effettuare l’esame altrimenti precluso, degli atti del giudizio di merito e, così, anche dell’atto di appello. La mancata deduzione del vizio nei termini indicati. evidenziando il difetto di identificazione del preteso errore del giudice del merito e impedendo il riscontro ex actis dell’assunta omissione, rende, pertanto, inammissibile il motivo. (cfr Cass. n. 28716/2011, n. 1755/2006, n. 1196/2007)
In conclusione, pertanto, la sentenza deve essere cassata in relazione ai motivi accolti ed il giudizio rimesso alla Corte d’Appello di Firenze in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio, che procederà ad un nuovo esame della domanda di liquidazione del risarcimento del danno non patrimoniale.

P.Q.M.

la Corte, riunisce i ricorsi, accoglie il secondo ed il terzo motivo del ricorso principale, rigetta il primo ed il ricorso incidentale;
cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia anche per le spese del presente giudizio alla Corte d’Appello di Firenze in diversa composizione.

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