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Suprema Corte di Cassazione

sezione lavoro

sentenza n. 10560 del 7 maggio 2013

 

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Autostrade per l’Italia spa chiede l’annullamento della sentenza della Corte d’appello di Milano, pubblicata il 17 dicembre 2009, che ha rigettato l’appello contro la decisione con la quale il Tribunale di Milano aveva accolto la domanda di G.G..
Il G. ha lavorato in Autostrade per l’Italia spa, impresa utilizzatrice di un contratto di fornitura di lavoro temporaneo stipulato con Adecco spa, per una pluralità di periodi, a cominciare da un primo lavoro a termine iniziato il 15 luglio 2001.
Tribunale e Corte d’appello, accogliendo la domanda del lavoratore hanno ritenuto che la causale del contratto, “casi previsti dai contratti collettivi nazionali della categoria di appartenenza dell’impresa utilizzatrice. Sostituzione”, fosse “del tutto generica ed inidonea ad integrare i requisiti di specificità richiesti dalla L. n. 196 del 1997”. La sentenza impugnata aggiunge che, comunque, non era risultata provata la ricollegabilità dell’assunzione del G. all’assenza di lavoratori in forza all’azienda con contratti a tempo indeterminato, in quanto tale affermazione non trovava riscontro nei prospetti allegati.

I giudici del merito hanno pertanto ritenuto la illegittimità del ricorso al lavoro temporaneo; hanno di conseguenza dichiarato che il rapporto di lavoro è intercorso con l’impresa utilizzatrice e lo hanno convertito in contratto a tempo indeterminato; hanno infine condannato la società a riammettere il lavoratore in servizio e a corrispondergli, per il passato, le retribuzioni a decorrere dalla data di messa in mora, individuata nel 22 luglio 2005.
Autostrade per l’Italia spa propone sei motivi di ricorso, illustrati anche con una memoria. G.G. si difende con controricorso.
Il controricorso si apre con una eccezione di inammissibilità del ricorso per violazione dell’art. 366-bis c.p.c., in quanto la ricorrente non ha formulato i quesiti di diritto. L’eccezione è infondata, perchè la norma invocata non si applica ai ricorsi per cassazione aventi ad oggetto sentenze pubblicate dopo il 4 luglio 2009, data di entrata in vigore della L. n. 69 del 2009.
Con il primo motivo del ricorso si denunzia violazione e falsa applicazione della L. n. 196 del 1997, art. 3, comma 3, lett. a) per avere la Corte considerato che il contratto di lavoro temporaneo deve essere valutato quanto alla specificità della sua causale in relazione al contratto di fornitura e che nel caso di specie la causale del contratto di fornitura) corrispondeva ad uno tre casi consentiti previsti dalla legge all’art. 1, comma 2, sicchè la causale non poteva dirsi generica “salvo non voler ritenere che anche il legislatore sia stato generico” (così il ricorso a pag. 17).
Aggiungeva che, dall’esame dei documenti allegati al ricorso, doveva evincersi che l’esigenza sostitutiva era costituita dall’assenza per ferie di lavoratori dell’azienda con contratto a tempo indeterminato.
Il motivo non è fondato.
La norma di riferimento è la L. n. 196 del 1997, art. 1, comma 2, che consente il contratto di fornitura di lavoro temporaneo solo nelle seguenti ipotesi: “a) nei casi previsti dai ceni della categoria di appartenenza della impresa utilizzatrice, stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi; b) nei casi di temporanea utilizzazione di qualifiche non previste dai normali assetti produttivi aziendali; c) nei casi di sostituzione dei lavoratori assenti, fatte salve le ipotesi di cui al comma 4” (che prevede le situazioni in cui è vietata la fornitura di lavoro temporaneo).
La causale indicata nel contratto di fornitura in esame è la seguente: “casi previsti dai contratti collettivi nazionali della categoria di appartenenza dell’impresa utilizzatrice. Sostituzione”.
Il contratto, pertanto, utilizza una formula più generica del testo legislativo, mentre avrebbe dovuto indicare i contratti collettivi di riferimento e specificare a quali delle ipotesi previste da tali contratti si faceva riferimento. Parimenti del tutto generico è il termine “sostituzione”.
Con il secondo motivo la società denunzia violazione e falsa applicazione della L. n. 196 del 1997, art. 10 per avere i giudici di merito, dalla genericità della causale tratto la conseguenza della imputazione del rapporto all’impresa utilizzatrice e trasformato il contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato.
Anche questo motivo non è fondato. Le legittimità del contratto di fornitura costituisce il presupposto per la stipulazione di un legittimo contratto per prestazioni di lavoro temporaneo. Per scelta legislativa i vizi del contratto commerciale di fornitura tra agenzia interinale e impresa utilizzatrice si riverberano sul contratto di lavoro.
L’illegittimità del contratto di fornitura comporta le conseguenze previste dalla legge sul divieto di intermediazione e interposizione nelle prestazioni di lavoro, e quindi l’instaurazione del rapporto di lavoro con il fruitore della prestazione, cioè con il datore di lavoro effettivo. Infatti, l’art. 10, comma 1, collega alle violazioni delle disposizioni di cui all’art. 1, commi 2, 3, 4 e 5 (violazioni di legge concernenti proprio il contratto commerciale di fornitura), le conseguenze previste dalla L. n. 1369 del 1960, consistenti nel fatto che “i prestatori di lavoro sono considerati, a tutti gli effetti, alle dipendenze dell’imprenditore che effettivamente abbia utilizzato le loro prestazioni”.

In tal senso questa Corte si è espressa, in modo univoco e costante, con una pluralità di decisioni, a cominciare da Cass. 23 novembre 2010 n. 23684; Cass. 24 giugno 2011 n. 13960; Cass. 5 luglio 2011 n. 14714 alle cui motivazioni si rinvia per ulteriori approfondimenti.
Le medesime sentenze hanno precisato che alla conversione soggettiva del rapporto, si aggiunge la conversione dello stesso da lavoro a tempo determinato in lavoro a tempo indeterminato, per intrinseca carenza dei requisiti richiesti dal D.Lgs. n. 368 del 2001 ai fini della legittimità del lavoro a tempo determinato tra l’utilizzatore ed il lavoratore (sul punto, v. anche: Cass. 8 maggio 2012 n. 6933).
L’effetto finale è la conversione del contratto per prestazioni di lavoro temporaneo in un ordinario contratto di lavoro a tempo indeterminato tra l’utilizzatore della prestazione, datore di lavoro effettivo, e il lavoratore.
Pertanto, la conclusione cui sono giunti i giudici di merito è pienamente conforme alla legge ed anche il secondo motivo deve essere rigettato.
Con terzo motivo si denunzia una violazione dell’art. 2697 c.c. e quindi dei principi in materia di onere della prova, per avere la Corte ritenuto non provata la ricollegabilità dell’assunzione del G. all’assenza di lavoratori in forza all’azienda con contratti a tempo indeterminato, in quanto i prospetti prodotti dalla società, secondo il giudizio della Corte, non consentivano di enucleare tale corrispondenza.
Questo motivo non deve essere esaminato perchè concerne una “ratio decidendi” ulteriore rispetto a quella principale costituita dalla genericità della causale e quindi anche un eventuale accoglimento non sposterebbe l’esito della decisione. Peraltro il motivo si muove su di un terreno attinente al merito ed estraneo al giudizio di legittimità.
Con il quarto motivo si denunzia violazione dell’art. 112 c.p.c. in quanto la Corte, compiendo tale valutazione avrebbe “attribuito alla società un onere della prova eccessivamente esteso”. Valgono le medesime considerazioni fatte con riferimento al terzo motivo, alle quali deve aggiungersi che la questione posta non attiene al disposto dell’art. 112 c.p.c..
Gli ultimi due motivi del ricorso denunziano violazione delle norme in materia di messa in mora (quinto motivo) e di aliunde perceptum (sesto motivo), temi concernenti la decisione sul risarcimento dei danni.
Il controricorrente ha eccepito che tali eccezioni non sono state coltivate in sede di appello. In effetti, la sentenza non da conto di motivi di appello specifici sul punto, nè la società ricorrente denunzia vizi di omessa decisione e motivazione su motivi di questo tipo, che peraltro omette di riportare nel ricorso per cassazione (la mancanza è integrale per la questione relativa alla messa in mora, mentre, per quanto attiene all’aliunde perceptum, viene riportato quello che non può essere considerato un motivo specifico di impugnazione, in quanto consiste in un mero richiamo alle eccezioni della memoria difensiva di primo grado e non presenta i requisiti di una censura alle argomentazioni della sentenza del Tribunale, dalla quale prescinde). Il capo relativo al risarcimento del danno è quindi coperto da giudicato, il che rende i due ultimi motivi inammissibili e inammissibile la richiesta di applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32 contenuta nella parte finale del ricorso.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato.
Le spese devono, per legge, essere poste a carico della parte che perde il giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore del controricorrente, che liquida in 50,00 Euro, nonchè 3.500,00 Euro per compensi professionali, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 30 gennaio 2013.

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