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Suprema Corte di Cassazione 

sezione lavoro

sentenza n. 7153  del 21 marzo 2013

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte di appello di Genova , con sentenza dei 19 novembre 2008, nel rigettare l’appello proposto da Poste Italiane s.p.a. confermava la decisione del Tribunale di Genova con la quale era stata dichiarata la illegittimità del licenziamento intimato, in data 11.12.2003, da detta società al proprio dipendente P. R. per superamento del periodo di comporto avendo “fatto registrare alla data del 23.11.2002, 730 giorni di assenza per malattia nel quadriennio antecedente ed avendo usufruito del periodo massimo di aspettativa ex art. 40 co. 4° CCNL”.
Ad avviso della Corte territoriale l’art. 40 del CCNL applicabile era da interpretare nel senso che il periodo di comporto dovesse essere superato e non solamente “raggiunto”, come opinato dalla società, e ciò anche in considerazione dei comportamento tenuto dalle parti le quali avevano fatto entrambe riferimento al “superamento” di detto periodo. E, dunque, il recesso, nel caso in esame, poteva essere intimato solo se il giorno 24 novembre 2003 il P. fosse stato assente per malattia, laddove era documentalmente provato che in tale giorno egli era assente per aspettativa.

Per la cassazione di detta sentenza ha proposto ricorso Poste Italiane s.p.a. affidato ad un unico motivo.
Il P. è rimasto intimato.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con l’unico motivo di ricorso si deduce contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
Premesso che dalla documentazione agli atti – oltre che pacifico tra le parti – emergeva che il giorno 24.11.2003 il dipendente non aveva ripreso servizio in ragione del perdurare del suo stato di indisponibilità psico-fisica, si assume che la Corte territoriale, in modo contraddittorio, nel valutare la natura dell’assenza del lavoratore in detta data, aveva ritenuto che la stessa fosse ascrivibile ad aspettativa ritenendo, quindi, illegittimo il recesso. Diversamente, risultando ascrivibile l’assenza del 24.11.2003 a malattia, il periodo di comporto doveva ritenersi superato.
Il motivo è infondato.
Va, in primo luogo, rilevato che la Corte di merito ha correttamente interpretato, con un ragionamento che non è stato oggetto di alcuna censura nel motivo di ricorso, il termine “raggiungere” utilizzato nell’art. 40 punto 2 del CCNL (“Il diritto alla conservazione del posto cessa quando il lavoratore …… . raggiunga il limite di 24 mesi di assenza entro l’arco massimo di 48 mesi lavorativi …,”) nel senso che il periodo di massimo di comporto previsto dovesse essere “superato” e non soltanto “raggiunto”.
Sulla scorta di tale premessa nella impugnata sentenza è stato rilevato che il recesso poteva essere intimato solo se il giorno successivo a quello di raggiungimento dei periodo massimo di comporto, cioè il 24 novembre 2003, il P. fosse stato in malattia, mentre era documentalmente provato che avesse richiesto l’aspettativa, in data 30.10.2002, a decorrere dal 24 novembre senza ottenere risposta alcuna da parte della società.
La Corte di merito con questo rilievo ha evidentemente inteso sottolineare che il motivo addotto a sostegno del licenziamento (l’aver “fatto registrare alla data del 23.11.2002, 730 giorni di assenza per malattia nel quadriennio antecedente ed avendo usufruito del periodo massimo di aspettativa ex art. 40 co. 4° CCNL”) non ricorreva in quanto, alla luce della suddetta
interpretazione della norma contrattuale, al 23 novembre 2002 il periodo di comporto non era stato ancora superato. Ed infatti a tale data doveva farsi riferimento e non alla successiva del 24 novembre, per valutare la sussistenza dei presupposto sul quale è stato fondato il recesso intimato.
Peraltro, nella impugnata sentenza non viene affatto riferito che il giorno 24 novembre il P. fosse assente per malattia ma, in narrativa, si dà atto che il predetto in data 23 novembre 2002 aveva avvertito telefonicamente l’ufficio di non essere in grado di riprendere il lavoro insistendo nella domanda – già presentata – di aspettativa per gravi motivi di disagio personale. Ed è tale dato di fatto che viene ritenuto pacifico tra le parti, non la circostanza che il P. fosse assente per malattia il giorno 24 novembre.
Non ricorre, dunque, alcuna contraddittorietà nella motivazione
dell’impugnata sentenza in quanto le ragioni poste a fondamento della decisione non risultano sostanzialmente contrastanti in guisa da elidersi a vicenda e da non consentire l’individuazione della “ratio decidendi”, e cioè l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione adottata.
Il ricorso va, pertanto, rigettato.
Non si provvede in ordine alle spese del presente grado di giudizio essendo il P. rimasto intimato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, nulla perle spese.
Così deciso in Roma, il 23 gennaio 2013

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