Corte di Cassazione, sezione quinta penale, sentenza 26 ottobre 2017, n. 49212. Incorre nel reato di bancarotta semplice (articolo 224 legge fall.) l’imprenditore che non adotta con tempestività i provvedimenti previsti obbligatoriamente dal codice civile, quali la convocazione dell’assemblea dei soci in presenza di una riduzione del capitale sociale al di sotto del limite legale e la richiesta di messa in liquidazione

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Devono, pertanto, considerarsi, ai fini del calcolo, i tempi di sospensione del corso della prescrizione ai sensi dell’articolo 159 c.p.p. nella misura di 60 giorni, come stabilito da ultimo dalle Sezioni Unite con la sentenza Sez. U, n. 4909 del 18/12/2014, dep. 2015, Torchio, Rv. 262913, secondo cui il rinvio dell’udienza per legittimo impedimento del difensore per contemporaneo impegno professionale determina la sospensione del corso della prescrizione fino ad un termine massimo di sessanta giorni a far capo dalla cessazione dell’impedimento stesso.
La prescrizione, pertanto, nel caso di specie, non puo’ considerarsi decorsa, dovendosi aggiungere alla data del 22/6/2017, individuata come termine ordinario, a partire da quello di commissione del reato (22/12/2009), i sessanta giorni di sospensione massima previsti dall’articolo 159 c.p.p., comma 3.
3. Quanto all’analisi dei motivi di ricorso, deve anzitutto evidenziarsi, per spiegare l’affermazione iniziale circa la loro inammissibilita’, che essi ripropongono gli stessi motivi gia’ avanzati in appello e tutti versati in fatto, mentre non ci si confronta, se non apoditticamente, con la motivazione del giudice del provvedimento impugnato, sicche’ si incorre senza dubbio nel vizio di genericita’ del ricorso.
Su tale ultimo punto, deve rammentarsi come le stesse Sezioni Unite, con la sentenza Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, Galtelli, Rv. 268822, hanno confermato l’orientamento che impone la necessaria proposizione specifica dei motivi di impugnazione – sia per il ricorso in cassazione che per l’appello – optando per l’inammissibilita’ quando non risultano esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della decisione impugnata.
In relazione alla egualmente inammissibile richiesta di una rivalutazione in fatto delle ragioni argomentative poste alla base della sentenza della Corte d’Appello di Brescia, deve notarsi come sia lo stesso ricorso a fare espresso riferimento alla necessita’ e volonta’ difensiva di ripercorrere la motivazione del provvedimento impugnato in un’ottica di nuovo esame del materiale probatorio posto alla base della decisione, con cio’ consegnando inevitabilmente il gravame ad un giudizio di inammissibilita’ (secondo la pacifica giurisprudenza della Corte di cassazione, non e’ consentita una rivalutazione di merito al giudice di legittimita’: ex multis, cfr. Sez. U, n. 6402 del 30/4/1997, Dessimone, Rv. 207944; Sez. U, n. 16 del 19/6/1996, Di Francesco, Rv. 205621 e, tra le piu’ recenti, Sez. 4, n. 47891 del 28/9/2004, Mauro, Rv. 230568; nonche’ vedi Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, De Vita, Rv. 235507).
Si chiede tale rivalutazione per sostenere la riferibilita’ della decozione societaria ad epoca anteriore al maggio 2007 (anno in cui la conduzione dell’azienda e’ passata al (OMISSIS)) ed alla precedente gestione, facente capo, negli anni, a soggetti diversi dal ricorrente.
La richiesta di nuova verifica fattuale e probatoria viene evidenziata dalla difesa anche per mettere in risalto l’attivismo dell’imputato, finalizzato a risollevare le sorti della societa’, e la sua estrema attenzione alla situazione societaria, una volta assuntane la gestione, con iniziative di verifica e coinvolgimento dei soci nel tentativo di porre rimedio alla situazione di difficolta’ economica, nonche’ per rimarcare alcune condotte concrete, incompatibili con la volonta’ di contribuire a causare il dissesto, quali l’accordo transattivo segui’to ad azione di responsabilita’ promossa dalla curatela fallimentare, con il quale il (OMISSIS) si e’ impegnato a versare alla curatela la somma di 40.000 Euro, ovvero la rinuncia da parte sua ad un credito privilegiato.
In tali attivita’ si individuano, secondo il ricorrente, anche i tratti probatori della dedotta insussistenza dell’elemento psicologico del reato, integrato dalla colpa grave, che mancherebbe nel caso di specie.
Tuttavia, il ricorso devia dall’oggetto della contestazione, perdendola sostanzialmente di vista, ed ignora le ragioni del contestato aggravamento del dissesto, finendo per incentrare l’attenzione solo sulla mancata causazione del dissesto nella sua materialita’ originaria, riproponendo quanto gia’ addotto in sede d’appello e smentito dalla motivazione di secondo grado.
Tale motivazione appare, invece, esaustiva e ben argomentata nel ricostruire la vicenda, inquadrando specificamente il ruolo del ricorrente nel fallimento della societa’ (OMISSIS) s.r.l. e ricollegandolo alla responsabilita’ per il reato di cui all’articolo 224, n. 2, L.F. proprio con riferimento al suo aver determinato un incremento della situazione di grave deficit economico della societa’.
La condotta contestata all’imputato, infatti, e’ non gia’ quella di aver causato o concorso a causare il dissesto della societa’ fallita nella sua misura “originaria”, bensi’ quella di aver omesso di adottare i provvedimenti di cui all’articolo 2482 ter c.c., in qualita’ di amministratore unico da maggio 2007 ad agosto 2009, cosi’ causando un aggravamento del dissesto gia’ creato da altri.
Cio’ di cui si discute, dunque, come correttamente posto in risalto nella premessa motivazionale del provvedimento impugnato, e’ soltanto l’omessa, tempestiva attivazione del ricorrente al fine di impedire l’aggravarsi del dissesto societario dopo la sua formazione; formazione che la stessa sentenza d’appello (cosi’ come quella di primo grado) riconduce a soggetti diversi dall’imputato e ad un periodo antecedente alla sua gestione.
In tale ottica, diventa essenziale la constatazione relativa alla prosecuzione dell’attivita’ da parte dell’imputato ed alle iniziative di investimento intraprese, pur in presenza di un capitale che la sentenza d’appello definisce “ormai azzerato dalle perdite”.
La sentenza impugnata ripercorre, con motivazione congrua e priva di illogicita’, tutti i dati probatori acquisiti e, in particolare, sulla scorta delle risultanze provenienti proprio dalla curatela fallimentare, piu’ volte citata in chiave difensiva nel ricorso, perviene ad affermare la responsabilita’ dell’imputato per le perdite direttamente riconducibili alla sua gestione negli anni 2008-2009, gestione che ha determinato un aggravamento della esposizione debitoria della societa’, in ragione di una malaccorta prosecuzione dell’attivita’ aziendale, nonostante l’azzeramento del capitale a lui noto. Nel provvedimento impugnato si da’ atto, altresi’, dell’attivita’ informativa, effettivamente svolta dal (OMISSIS) e destinata ai soci, circa le condizioni economiche critiche della societa’, e tuttavia si evidenzia che tale condotta non puo’ certo elidere la responsabilita’ per la consapevole prosecuzione della gestione societaria in aggravamento del dissesto, non avendo essa assunto i tempi e le forme dettati dall’articolo 2482-ter c.c..
Quanto, poi, tale prosecuzione diseconomica sia stata non soltanto perseguita con colpa grave ma volontariamente portata avanti dal ricorrente viene desunto logicamente da una serie di elementi di prova inequivoci, quali anche verbali di assemblee societarie, smentendo in tal modo la apodittica affermazione difensiva sulla mancata prova della sussistenza dell’elemento psicologico del reato.
Le procedure da seguire per legge in tali casi (riduzione e aumento contestuali del capitale, richiesta di messa in liquidazione) sono state azionate troppo tardi dall’imputato – secondo quanto spiegato nella logica ricostruzione operata dalla sentenza della Corte d’Appello – in violazione, cosi’, dell’obbligo di tempestivita’ di cui all’articolo 2482-ter c.c., con cio’ direttamente ricollegandosi l’aggravamento del dissesto a tale ritardo e ad una malcelata volonta’ da parte del ricorrente di tentare un’azzardata ed inutile ulteriore gestione di una societa’, che andava, invece, salvaguardata con le forme di garanzia legislativamente previste in caso di dissesto.
In proposito, la giurisprudenza di legittimita’ ha chiarito che, in tema di bancarotta, la convocazione dell’assemblea dei soci ex articolo 2447 c.c.. in presenza di una riduzione del capitale sociale al di sotto del limite legale rientra tra gli “obblighi imposti dalla legge” la cui inosservanza puo’ dar luogo a responsabilita’ penale dell’amministratore ai sensi dell’articolo 224, comma 1, n. 2, della L. Fall., qualora costituisca causa o concausa del dissesto ovvero del suo aggravamento (Sez. 5, n. 8863 del 9/10/2014, dep. 2015, Varratta, Rv. 263421; Sez. 5, n. 154 del 26/5/2005, dep. 2006, Zanchetta, Rv. 233385; Sez. 5, n. 40581 del 26/9/2002, Bussetti, Rv. 223409).
Con tutte le predette ragioni di fatto e di diritto non si confronta realmente il ricorso proposto dall’imputato, che, invece, si limita a ripercorrere nuovamente gli elementi di prova ed a ribadire la propria personale ricostruzione della vicenda, soprattutto rimarcando la circostanza della sua estraneita’ alla causazione del dissesto negli anni cruciali di formazione (2005-2007) e del suo essersi attivato, a partire da un determinato periodo in poi, per gli adempimenti di cui all’articolo 2482-ter c.c..
Tuttavia, tali circostanze non sono in discussione per la stessa Corte d’Appello che, invece, riconduce i profili di colpevolezza del ricorrente alle ragioni di aggravamento del dissesto per l’improvvida prosecuzione dell’attivita’ societaria, ragioni solo apoditticamente e genericamente oggetto dei riferimenti dell’atto di impugnazione.
Appare evidente, dunque, l’inammissibilita’ del ricorso proposto, sicche’, ai sensi dell’articolo 616 c.p.p., si impone la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonche’ di una somma in favore della Cassa delle Ammende a titolo di sanzione pecuniaria, apparendo evidente che egli ha proposto il ricorso determinando la causa d’inammissibilita’ per colpa (v. Corte cost. n. 186 del 2000); tale somma, tenuto conto dell’entita’ di detta colpa, deve determinarsi nella misura di Euro 2.000.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 2.000 a favore della Cassa delle ammende.

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