Corte di Cassazione, sezione seconda civile, ordinanza 15 novembre 2017, n. 27099. È rilevante la questione di legittimità costituzionale sulla sanzione disciplinare della destituzione del notaio ogni qual volta questi, dopo essere stato condannato per due volte alla sospensione per violazione del medesimo art. 147, violi nuovamente la medesima disposizione nei dieci anni successivi

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Cio’ vuol dire che, in tale ipotesi, il trattamento sanzionatorio e’ insensibile alla eventuale “lievita’” in concreto del fatto costituente illecito disciplinare, essendo la sanzione prevista dalla legge in modo inderogabile, sulla base di una presunzione iuris et de iure di gravita’ del fatto.

In altre parole, in presenza della recidiva reiterata infradecennale richiamata dall’articolo 147, comma 2, della legge citata, va sempre applicata la sanzione della destituzione, non potendosi, pur quando ricorrano circostanze attenuanti, addivenirsi alla sostituzione della sanzione della destituzione con quella della sospensione.

Cosi’ configurata la disciplina legislativa, la Corte ritiene non manifestamente infondata la questione di legittimita’ costituzionale della L. 16 febbraio 1913, n. 89, articolo 147, comma 2, in relazione agli articoli 3 e 24 Cost..

E’ costante, nella giurisprudenza costituzionale, la considerazione secondo cui l’articolo 3 Cost. esige che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia nel contempo sia alla funzione di difesa sociale sia a quella di tutela delle posizioni individuali. E la tutela del principio di proporzionalita’, nel campo del diritto penale, ha condotto a “negare legittimita’ alle incriminazioni che, anche se presumibilmente idonee a raggiungere finalita’ statuali di prevenzione, producono, attraverso la pena, danni all’individuo (ai suoi diritti fondamentali) ed alla societa’ sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest’ultima con la tutela dei beni e valori offesi dalle predette incriminazioni” (Corte cost., sentenze n. 341 del 1994 e n. 409 del 1989). In questa prospettiva, va ricordato anche l’articolo 49, n. 3), della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, e che ha ora lo stesso valore giuridico dei trattati, in forza dell’articolo 6, comma 1, del Trattato sull’Unione europea (TUE), come modificato dal Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con L. 2 agosto 2008, n. 130, ed entrato in vigore il 1 dicembre 2009 – a tenore del quale “le pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato”.

Proprio nel settore penale dell’ordinamento, la giurisprudenza costituzionale ha affermato che il principio di proporzionalita’ esige un’articolazione legale del sistema sanzionatorio che renda possibile l’adeguamento della pena alle effettive responsabilita’ personali; tale principio costituisce un limite della potesta’ punitiva statale, svolgendo una funzione di giustizia e anche di tutela delle posizioni individuali, in armonia con il “volto costituzionale” del sistema penale (Corte cost., sentenza n. 50 del 1980), caratterizzato – altresi’ – dalla finalita’ rieducativa della pena prescritta dall’articolo 27 Cost. (Corte cost., sentenza n. 313 del 1990; si vedano anche le sentenze n. 183 del 2011, n. 129 del 2008, n. 251 e n. 68 del 2012; da ultimo, n. 74 e n. 236 del 2016).

E’ noto, peraltro, che il principio della proporzionalita’ della sanzione e il conseguente divieto di automatismo sanzionatorio sono stati estesi, nella giurisprudenza costituzionale, dal campo del diritto penale ad altri campi del diritto e in particolare, per quanto qui rileva, al campo delle sanzioni disciplinari. Cosi’, ad es., in materia di sanzioni disciplinari per i militari (Corte cost., sentenze n. 268 del 2016 e n. 363 del 1996); in materia di sanzioni disciplinari per i magistrati (Corte cost., sentenza n. 170 del 2015); in materia di sanzioni disciplinari per i ragionieri e periti commerciali (Corte cost., sentenza n. 2 del 1999).

Anche nel capo delle sanzioni disciplinari per i notai, la Corte costituzionale ha gia’ avuto occasione di applicare il principio della proporzionalita’ della sanzione e il divieto di automatismo sanzionatorio.

Cosi’, nel dichiarare l’illegittimita’ costituzionale della L. n. 89 del 1913, ormai abrogato articolo 142, u.c., nella parte in cui prevedeva in via disciplinare la destituzione di diritto del notaio che fosse stato condannato per i reati indicati dall’articolo 5, comma 1, n. 3), della medesima legge, la Corte costituzionale ha affermato che “La destituzione di diritto del notaio penalmente condannato per uno dei reati indicati nell’articolo 5, n. 3, della legge notarile, non costituisce un effetto penale della condanna ne’ una pena accessoria, ma una sanzione disciplinare, la cui automatica ed indifferenziata previsione per l’infinita serie di situazioni che stanno nell’area della commissione di uno stesso, pur grave, reato, viola il “principio di proporzione” il quale e’ alla base della razionalita’ che domina il “principio di eguaglianza”. E’ pertanto costituzionalmente illegittimo – per violazione dell’articolo 3 Cost. – la L. 16 febbraio 1913, n. 89, articolo 142, u.c., nella parte in cui prevede che “e’ destituito di diritto” il notaio che ha riportato condanna per uno dei reati indicati nell’articolo 5, n. 3, della stessa legge, anziche’ riservare ogni provvedimento al procedimento disciplinare camerale del Tribunale civile, come per le altre cause enunciate nello stesso articolo 142″ (Corte cost., sentenza n. 40 del 1990).

Orbene, tornando all’esame della norma posta dall’articolo 147 dell’ordinamento del notariato, comma 2 si e’ veduto come essa, nella sua perentorieta’, preveda la destituzione del notaio per il solo fatto che lo stesso, dopo essere stato condannato per due volte alla sanzione della sospensione per la violazione dello stesso articolo 147, contravvenga ancora una volta, nei dieci anni successivi, la medesima disposizione.

Trattasi di una previsione che prescinde del tutto dalla considerazione della condotta posta in essere dal notaio e dalla gravita’ della stessa e che non consente al giudice della disciplina di graduare la sanzione; graduazione che appare oltremodo necessaria considerato che l’articolo 147, al comma 1 (nel punire il notaio che “compromette, in qualunque modo, con la propria condotta, nella vita pubblica o privata, la sua dignita’ e reputazione o il decoro e prestigio della classe notarile; viola in modo non occasionale le norme deontologiche elaborate dal Consiglio nazionale del notariato; fa illecita concorrenza ad altro notaio (…) servendosi di qualunque altro mezzo non confacente al decoro ed al prestigio della classe notarile”) configura fattispecie di illecito disciplinare a forma libera (in questo senso, Cass., Sez. U, n. 25457 del 26/10/2017), che possono avere, nei diversi casi concreti, una gravita’ molto diversa tra loro.

In altre parole, l’articolo 147, comma 2, cit. prevede una sorta di “automatismo sanzionatorio” correlato ad una presunzione iuris et de iure di gravita’ del fatto e di pericolosita’ del recidivo reiterato, che preclude al giudice disciplinare di pervenire – nella fattispecie concreta – a diverse conclusioni mediante il giudizio di bilanciamento con le circostanze attenuanti (anche generiche) eventualmente concorrenti. E secondo la giurisprudenza costituzionale, le presunzioni assolute, quando limitano un diritto della persona, violano il principio di eguaglianza se sono arbitrarie e irrazionali, cioe’ se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit, come avviene tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa (Corte cost., sentenze n. 185 del 2015, n. 232 e n. 213 del 2013, n. 182 e n. 164 del 2011, n. 265 e n. 139 del 2010).

Elevato e’ percio’ il rischio, nel procedimento disciplinare notarile, che il giudice della disciplina si trovi costretto ad infliggere al notaio la sanzione della destituzione per il solo fatto che ricorra la situazione descritta nella richiamata norma di cui all’articolo 147, comma 2, cit., pur quando, nel concreto, tale sanzione risulti di entita’ eccessiva e non sia ragionevole in rapporto al disvalore della condotta.

Sotto tale profilo, appare non manifestamente infondata la questione di legittimita’ costituzionale della L. 16 febbraio 1913, n. 89, articolo 147, comma 2, nel testo attualmente in vigore, innanzitutto in rapporto all’articolo 3 Cost., sia sotto il profilo della violazione del principio di eguaglianza per il fatto di assimilare situazioni che – di volta in volta – possono avere un disvalore molto diverso l’una dall’altra, sia sotto il profilo della violazione del principio di ragionevolezza, impedendo al giudice disciplinare l’adeguamento della sanzione alla gravita’ in concreto dell’illecito commesso.

Ma appare non manifestamente infondata la questione di legittimita’ costituzionale della L. 16 febbraio 1913, n. 89, articolo 147, comma 2, anche in rapporto all’articolo 24 Cost., per il fatto di precludere all’incolpato la possibilita’ di chiedere al giudice di apprezzare la sua condotta in concreto e di pervenire all’irrogazione della sanzione piu’ adeguata al caso.

La soluzione della detta questione di legittimita’ costituzionale risulta rilevante ai fini della decisione del presente ricorso, avendo la ricorrente lamentato proprio che la Corte di Appello ha rifiutato di considerare la concedibilita’ delle circostanze attenuanti generiche sul presupposto che le stesse non avrebbero potuto, nel caso di specie e ricorrendo la fattispecie di cui alla L. n. 89 del 1913, articolo 147, comma 2 escludere l’irrogazione della destituzione quale sanzione prevista inderogabilmente dalla legge.

Va percio’ dichiarata rilevante e non manifestamente infondata, la questione di legittimita’ costituzionale della L. 16 febbraio 1913, n. 89, articolo 147, comma 2, come sostituito dal Decreto Legislativo 1 agosto 2006, n. 249, articolo 30 in riferimento agli articoli 3 e 24 Cost..

Ai sensi della L. 11 marzo 1953, n. 87, articolo 23 alla dichiarazione di rilevanza e non manifesta infondatezza della questione di legittimita’ costituzionale, segue la sospensione del giudizio e l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione:

visti l’articolo 134 Cost. e L. 11 marzo 1953, n. 87, articolo 23; dichiara rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli articoli 3 e 24 Cost., la questione di legittimita’ costituzionale della L. 16 febbraio 1913, n. 89, articolo 147, comma 2, come sostituito dal Decreto Legislativo 1 agosto 2006, n. 249, articolo 30; dispone la sospensione del presente giudizio;

ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata alle parti del giudizio di cassazione, al pubblico ministero presso questa Corte e al Presidente del Consiglio dei ministri;

ordina, altresi’, che l’ordinanza venga comunicata dal cancelliere ai Presidenti delle due Camere del Parlamento;

dispone l’immediata trasmissione degli atti, comprensivi della documentazione attestante il perfezionamento delle prescritte notificazioni e comunicazioni, alla Corte costituzionale.

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