Corte di Cassazione, sezione seconda penale, sentenza 26 marzo 2018, n.13968. Ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 643 cod. pen., deve sussistere un rapporto “squilibrato” fra vittima ed agente

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2.4. La medesima giurisprudenza di legittimità considera, inoltre, inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che si risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e motivatamente disattesi dal giudice di merito, dovendosi gli stessi considerare non specifici ma soltanto apparenti, in quanto non assolvono la funzione tipica di critica puntuale avverso la sentenza oggetto di ricorso (v., tra le tante, Sez. 5, n. 25559 del 15/06/2012, Pierantoni; Sez. 6, n. 22445 del 08/05/2009, p.m. in proc. Candita, Rv. 244181; Sez. 5, n. 11933 del 27/01/2005, Giagnorio, Rv. 231708). In altri termini, è del tutto evidente che a fronte di una sentenza di appello che ha fornito una risposta ai motivi di gravame, la pedissequa riproduzione di essi come motivi di ricorso per cassazione non può essere considerata come critica argomentata rispetto a quanto affermato dalla Corte d’appello: in questa ipotesi, pertanto, i motivi sono necessariamente privi dei requisiti di cui all’art. 581 cod. proc. pen., comma 1, lett. c), che impone la esposizione delle ragioni di fatto e di diritto a sostegno di ogni richiesta (Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Arnone, Rv. 243838).

Sulla base di questi principi va esaminato l’odierno ricorso.

3. Manifestamente infondato è il primo motivo di ricorso.

Come rilevato dal giudice di secondo grado, l’eccezione di nullità per incompetenza del Tribunale di Roma è palesemente infondata atteso che ‘in tema di competenza per i procedimenti riguardanti i magistrati, l’operatività dell’art. 11 cod. proc. pen. è subordinata alla condizione che il magistrato, nel procedimento penale, assuma formalmente la qualità di imputato ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato’ (Sez. F, n. 35729 del 01/08/2013, Agrama e altri, Rv. 256569). Si legge in sentenza: ‘la correttezza di tale opzione esegetica è accreditata tanto dal risultato dell’interpretazione letterale, posto che l’art. 11 cod. proc. pen. collega la deroga alle normali regole di determinazione della competenza del giudice al fatto formale della ‘assunzione’, da parte del magistrato interessato, di una delle tre qualità innanzi indicate; quanto dall’esito della interpretazione logica che suggerisce di limitare l’operatività di tale speciale criterio di determinazione della competenza ad un elemento oggettivo non meramente fattuale, bensì avente carattere giuridico, qual è appunto la formale assunzione da parte del magistrato, nel procedimento penale, della qualità di imputato, di persona offesa o di danneggiato dal reato. D’altro canto, il legislatore codicistico ha previsto altri casi nei quali l’operatività di istituti processuali tesi a garantire le condizioni di indipendenza e di imparzialità del giudice è collegata a situazioni di concreta e non di astratta incompatibilità, derivanti da iniziative processuali che i soggetti interessati possono aver deciso di adottare: così, ad esempio, è pacifico che possono costituire ipotesi di astensione e di ricusazione quelle che vedono una posizione del giudice di cointeressenza o di contrasto diretto o indiretto con soggetti che abbiano acquisito la veste formale di parte del procedimento penale, nel quale, dunque, i medesimi siano direttamente intervenuti…’.

Fermo quanto precede, appare evidente come rimanga del tutto irrilevante ai fini della dedotta incompetenza che una parte processuale rivesta la qualità di congiunto, ancorché prossimo, del magistrato e che il giudizio nel quale il coniuge non magistrato assuma uno delle succitate qualità sia instaurato avanti il medesimo ufficio giudiziario ove, al momento del fatto o all’atto dell’iscrizione del procedimento o nel corso del successivo giudizio di merito, il coniuge magistrato abbia svolto o svolga le proprie funzioni, non potendo il semplice rapporto familiare mettere in dubbio la terzietà e, prima ancora, la trasparenza e serenità dell’organo giudicante, immaginando una – anche solo possibile o indiretta – influenza sulla decisione per la sola ‘presenza esterna’ di un collega.

4. Pari manifesta infondatezza involge il secondo motivo di ricorso.

4.1. Come è noto, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 643 cod. pen., sono necessarie le sottoindicate – e, nella specie, pienamente ricorrenti – condizioni:

a) l’instaurazione di un rapporto ‘squilibrato’ fra vittima ed agente, in cui quest’ultimo abbia la possibilità di manipolare la volontà della vittima, che, in ragione di specifiche situazioni concrete, sia incapace di opporre alcuna resistenza per l’assenza o la diminuzione della capacità critica;

b) l’induzione a compiere un atto che importi per il soggetto passivo o per altri qualsiasi effetto giuridico dannoso;

c) l’abuso dello stato di vulnerabilità, che si verifica quando l’agente, consapevole di detto stato, ne sfrutti la debolezza per raggiungere il suo fine e cioè quello di procurare a sé o ad altri un profitto;

d) la oggettiva esistenza e riconoscibilità all’esterno della minorata capacità, in modo che chiunque possa abusarne per raggiungere i suoi fini illeciti (cfr., Sez. 5, n. 29003 del 16/04/2012, Strino, Rv. 253311).

4.2. E, con specifico riferimento all’elemento materiale del reato, si è precisato che le condotte di abuso e di induzione consistono rispettivamente in qualsiasi pressione morale idonea al risultato avuto di mira ed in tutte le attività di sollecitazione e suggestione capaci di far sì che il soggetto passivo presti il suo consenso al compimento dell’atto dannoso (cfr., Sez. 2, n. 31320 del 01/07/2008, Raniolo, Rv. 240658).

4.3. Ciò premesso, con riferimento al caso di specie, dalla lettura della sentenza impugnata è emersa la prova in ordine alla sussistenza dell’elemento materiale del reato ipotizzato. Invero, l’attività di induzione e di abuso da parte del soggetto agente diretta a determinare o comunque a rafforzare nel soggetto passivo (S.N., persona di ottantaquattro anni all’epoca dei fatti) il proposito di adottare gli atti per sé pregiudizievoli viene logicamente ed inequivocabilmente tratta dai comportamenti tenuti dall’imputato, il quale – come si è detto in premessa – in concorso con altro soggetto, ha indotto la persona offesa a versare a proprio favore la somma di circa 11.000,00 Euro, quale corrispettivo per contrastare asseriti fenomeni satanici dei quali la S. sarebbe stata vittima. Come evidenziato dai giudici di merito, l’imputato, nel contestare la propria responsabilità, si limita a formulare solo delle congetture e dei sospetti sulla capacità della persona offesa di ottenere documentazione di favore (unico elemento – quello cartaceo – che proverebbe lo stato di circonvenibilità della S.), documentazione che il ricorrente non esita a ritenere che possa essere stata formata o ottenuta grazie ai ‘buoni uffici’ del figlio (medico) e della nuora (magistrato). In realtà, il giudizio sulle reali condizioni di salute della vittima si fonda solo in parte su detta documentazione (si tratta di certificazione medica rilasciata da USL Roma (…) in data 25/09/2006 nella quale si dà atto che la S. soffre di disturbi neurocognitivi ed è afflitta da idee subdeliranti con allucinazioni visive), essendo l’anziana vittima comparsa in dibattimento in data 21/01/2011, evidenziando in modo assolutamente chiaro la propria condizione di disorientamento nel tempo e nello spazio, condizione che aveva indotto il pubblico ministero a rinunciare al suo esame: una condizione talmente deteriorata – sia sotto il profilo cognitivo che sotto quello comportamentale – nella sua integrità, da imporre, da parte del giudice tutelare, la nomina del P. quale amministratore di sostegno della stessa. Ad ulteriore comprova di tale simile condizione, vi sono le testimonianze acquisite nel corso del processo che hanno riferito di ‘delirio mistico’, di allucinazioni e di condizione delirante a sfondo religioso (come riferito da una conoscente della S., tale C.L. ). In questo contesto di assoluta debolezza ed incapacità, si innesta il facile intervento del ‘mago (…)’ che, approfittando di detta condizione, vantando una sua ‘capacità di liberazione’ dalle sue molteplici afflizioni, si faceva consegnare dalla donna a più riprese denaro per importi complessivi pari a circa 11.000/12.000 Euro.

5. Alla pronuncia consegue, per il disposto dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che, considerati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro duemila oltre al pagamento delle spese processuali sostenute dalla parte civile P.A., in proprio e quale amministratore di sostegno di S.N., che si liquidano in complessivi Euro 3.510,00 oltre spese forfetarie nella misura del 15%, CPA ed IVA. In caso di diffusione del presente provvedimento si dispone l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi, a norma dell’art. 52 D.Lgs. 196/2003 in quanto imposto dalla legge.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila a favore della Cassa delle ammende nonché alla rifusione a favore della parte civile P.A., in proprio e quale amministratore di sostegno di S.N., delle spese del grado che liquida in Euro 3.510,00 oltre spese forfetarie nella misura del 15%, CPA ed IVA. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell’art. 52 D.Lgs. 196/2003 in quanto imposto dalla legge

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