marchioce

Suprema Corte di Cassazione

sezione V

sentenza 20 marzo 2014, n. 13060

Fatto e diritto

Propone ricorso per cassazione P.A., avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma in data 30 maggio 2012, con la quale è stata confermata quella di primo grado, di condanna in ordine ai reati di frode in commercio e vendita di prodotti industriali con segni mendaci, nonché di contraffazione di segni distintivi di prodotti industriali (articoli 515,517 e 473 c.p.), accertati il 23 maggio 2006.
Risulta che il termine prescrizionale è rimasto sospeso per giorni 60.
La vicenda accertata a carico dell’imputato, titolare di una società esercente l’attività di stoccaggio, confezionamento e stagionatura di formaggi, è stata quella della messa in vendita di prodotti caseari, utilizzando la bollatura sanitaria identificativa di uno stabilimento concorrente e detenendo il relativo marchio contraffatto.
Deduce
1) la erronea applicazione dell’articolo 13 l. n. 283 del 1962, fattispecie capace di assorbire tutti i fatti contestati o, in alternativa, nella stessa ottica, la derubricazione di tutti i fatti in quello qualificato ai sensi dell’articolo 517 cp;
2) la erronea interpretazione degli artt. 62 n. 4 e n. 6 cp, non riconosciti di ufficio dalla Corte d’appello, tenuto conto del modestissimo valore economico della merce interessata dalla vicenda e del fatto che l’imputato si era comunque attivato per sospendere la vendita dei prodotti non in regola.
Il ricorso è fondato nei termini che si indicheranno.
Occorre premettere che la bollatura sanitaria, in esecuzione di Regolamenti CE, concerne gli stabilimenti che manipolano prodotti di origine animale, compresi quelli di latte e a base di latte, da immettere poi sul mercato, ed attesta la provenienza da impianti riconosciuti idonei per la commercializzazione, nell’ambito comunitario: essa, sotto tale profilo, rappresenta una validazione dei requisiti sanitari dell’alimento prodotto.
È costituita dall’impronta di un timbro ovale, nel quale sono contenute, tra l’altro, la indicazione del Paese e del numero di riconoscimento del singolo stabilimento nel quale avviene la manipolazione dell’alimento di origine animale, nonché la sigla CE; il numero di riconoscimento viene rilasciato dalla competente autorità sanitaria (Regione) e sta ad attestare la conformità dello stabilimento, ai requisiti generali e a quelli specifici contenuti negli appositi I Regolamenti (CE) ( v. in particolare il n. 852/2004 e il n. 853/2004).
Ciò posto, va poi rilevato che, all’imputato, è stato addebitato , in primo luogo, in relazione alla riproduzione indebita della detta bollatura sanitaria, il reato di contraffazione di marchio, di cui all’art. 473 cp.
E’ però evidente la estraneità del paradigma normativo evocato, rispetto alla fattispecie accertata.
Come già rilevato dalla giurisprudenza di questa Corte (v. Sez. 2, Sent. n. 36228 del 19/06/2009, Rv. 245594), l’uso indebito del marchio CE non integra le ipotesi criminose di cui agli artt. 473 e 474 cp, le quali fanno riferimento al marchio, inteso come elemento (segno o logo) idoneo a distinguere il singolo prodotto industriale rispetto ad altri (art. 2569 c.c. e R.D. 21 giugno 1942, n. 929, art. 1 e successive modifiche), non il marchio inteso come elemento che serve ad attestare la conformità del prodotto appartenente ad una determinata tipologia o a normative specifiche. In altri termini, la ragione di tutela del marchio consiste nella capacità di questo di distinguere un prodotto dall’altro che, come tale, giustifica il monopolio di un segno e l’esclusività dell’uso; mentre la funzione del marchio “CE” è quella di tutelare interessi pubblici come la salute e la sicurezza degli utilizzatori dei prodotti, appartenenti ad una determinata tipologia, assicurando che essi siano conformi a tutte le disposizioni comunitarie che prevedono il loro utilizzo. La marcatura CE non funge da marchio di qualità o d’origine, ma costituisce un puro marchio amministrativo, che segnala che il prodotto marcato può circolare liberamente nel mercato unico dell’UE.
Se ne inferisce che la sentenza impugnata deve essere annullata, quanto a tale contestazione, senza rinvio, perché il fatto non sussiste.
Peraltro, altra, conforme, giurisprudenza (Sez. 5, Sentenza n. 5068 del 26/10/2012 Rv. 254652) evidenzia, del tutto condivisibilmente, che l’apposizione di una falsa marcatura CE su beni posti in commercio che ne siano privi, se non dà luogo, per le ragioni dette, al reato di cui all’art. 473 cod. pen., integra però il reato di frode nell’esercizio del commercio (art. 515 cod. pen.) , considerato che la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 515 cod. pen. fà riferimento al marchio come elemento che serve, appunto, ad attestare la conformità del prodotto a normative specifiche, ed è posta a tutela degli acquirenti dei beni, siano essi consumatori finali oppure commercianti intermediari nella catena distributiva.
Fà analogamente notare, Sez. 3, Sentenza n. 27704 del 21/04/2010, Rv. 248133, che il detenere merce, anche presso un esercizio commerciale di distribuzione e vendita all’ingrosso, con marcatura “CE” contraffatta, rientra nella sfera di operatività della norma appena citata perchè la presenza della marcatura è finalizzata ad attestare la conformità dei prodotto a standard minimi di qualità.
In motivazione, la sentenza appena menzionata pone in evidenza che la marcatura “CE” è stata istituita dalla normativa comunitaria in quanto, con l’apposizione della stessa, il produttore o il suo legale rappresentante dichiara che è stata certificata la conformità dei suo prodotto con i requisiti essenziali richiesti dal mercato europeo.
La funzione della marcatura “CE”, infatti, è quella di tutelare gli interessi pubblici della salute e sicurezza degli utilizzatoti dei prodotti, assicurando che essi siano adeguati a tutte le disposizioni comunitarie che prevedono il loro utilizzo. Detta marcatura, pur non fungendo da marchio di qualità o di origine, costituisce tuttavia un marchio amministrativo, che segnala che il prodotto marcato può circolare liberamente nel mercato unico dell’Unione Europea (vedi Cass, Sez. 2 18.9.2009, n. 36228, Wang).
Pertanto, la sentenza impugnata, sotto il profilo della ritenuta sussistenza della ipotesi di cui all’art. 515 cp, non merita interventi censori da parte di questa Corte di legittimità.
E tale rilievo è confortato anche dalle seguenti osservazioni.
Si contesta, da parte della difesa, che il reato in questione possa configurarsi anche perché esso non potrebbe concorrere con quello ex art. 517, parimenti addebitato al ricorrente.
Invero, la Corte d’appello, per sostenere il concorso materiale fra tali reati, si è rifatta alla giurisprudenza (sent. n. 43192 del 2008; Conformi: N. 211 del 1967 Rv. 104050, N. 179 del 1969 Rv. 110654, N. 3151 del 1973 Rv. 123881) che lo ammette in linea di principio, osservando che la prima norma protegge contro le azioni di vendita fraudolenta mentre la seconda punisce la semplice messa in commercio o in circolazione di prodotti industriali con segni mendaci.
Anche nella sentenza della Sez. 3, n. 7639 del 25/05/1998, Rv. 211135, si pone in evidenza, sempre in linea generale, che , in tema di elemento oggettivo del delitto di vendita di prodotti industriali con segni mendaci di cui all’art. 517 cod. pen., la condotta descritta con l’espressione “mette altrimenti in circolazione”, che nella fattispecie è alternativa a quella del “porre in vendita”, avuto riguardo all’oggetto giuridico del reato, alla diversità lessicale con l’espressione “mettere in commercio”, presente nella diversa fattispecie di cui all’art. 516 cod. pen., nonché alla finalità del precetto, deve ritenersi riferita a qualsiasi attività con cui si miri a fare uscire a qualsiasi titolo la “res” dalla sfera giuridica e di custodia del mero detentore, così da includere pure le operazioni di immagazzinamento finalizzato alla distribuzione o la circolazione della merce destinata alla messa in vendita, con esclusione solo della mera detenzione in locali diversi da quelli di vendita o del deposito prima dell’uscita della merce dalla disponibilità del detentore.
Nella specie, tuttavia, il problema del concorso materiale non si pone atteso che la condotta accertata è soltanto quella della avvenuta cessione, a terzi rivenditori al dettaglio, di taluni prodotti caseari con marchio CE contraffatto ( consegna dell’aliud pro alio), mentre la ulteriore attività di immagazzinamento, di altri prodotti con le stesse caratteristiche, finalizzato alla distribuzione, o quella della circolazione della merce destinata alla messa in vendita, non emergono dai contenuto della motivazione.
D’altra parte, proprio tale realtà processuale, documentata nel provvedimento impugnato, fà cadere anche il presupposto per la richiesta di derubricazione, della condotta contestata ex art. 517 cp, nella violazione amministrativa ex art. 13 I. n. 283 del 1962.
Tale norma, concernente la pubblicità ingannevole, sancisce, invero, il divieto di offrire in vendita o propagandare a mezzo della stampa ed in qualsiasi altro modo, sostanze alimentari, adottando denominazioni o nomi impropri, frasi pubblicitarie, marchi o attestati di qualita’ o genuinita’ da chiunque rilasciati, nonche’ disegni illustrativi tali da sorprendere la buona fede o da indurre in errore gli acquirenti circa la natura, sostanza, qualita’ o le proprieta’ nutritive delle sostanze alimentari stesse o vantando particolari azioni medicamentose.
Essa, secondo una parte della giurisprudenza (Sez. 3, Sentenza n. 137 del 21/01/1997, Rv. 207771), si pone come speciale rispetto a quella di cui all’art. 517 cod. pen., poiché entrambe le norme puniscono il fatto di porre in circolazione , anche per la vendita,prodotti con denominazioni o nomi idonei ad indurre in errore il compratore sulle qualità o provenienza del prodotto, ma l’art. 13 citata legge n.283 del 1962 prevede in più, come elemento specializzante, che il prodotto offerto sia una sostanza alimentare, sicché, come norma speciale, prevale su quella di cui all’art. 517 cod. pen. in base all’art.15 stesso codice.
Peraltro, proprio la assenza, nel caso di specie, di una condotta individuabile come “messa in circolazione”, diversa ed ulteriore rispetto a quella della accertata cessione dell’aliud pro alio, rende improponibile, oltre alla già evidenziata questione del concorso fra le due norme del codice penale, anche quella posta sul rapporto di specialità fra la norma penale e quella amministrativa, disciplinanti, entrambe, tal genere di comportamento.
In conclusione, oltre all’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, con riferimento alle imputazioni per i reati di cui agli artt. 473 e 517 cp, si impone l’annullamento con rinvio per la rideterminazione della pena in ordine alla fattispecie residua. La delimitazione, della condotta penalmente rilevante, ai soli fatti di vendita della merce con segni distintivi CE contraffatti, comporta la investitura del giudice del rinvio in ordine all’intero tema della quantificazione del trattamento sanzionatorio per tale reato, trattamento, dunque, includente i profili eventualmente rilevanti ai sensi delle attenuanti evocate nel secondo motivo di ricorso.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata, senza rinvio, limitatamente ai reati di cui agli artt. 473 e 517 c.p. perchè i fatti non sussistono.
Annulla altresì la sentenza impugnata in ordine alla determinazione della pena, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Roma, per la rideterminazione in relazione al residuo reato di cui all’art. 515 cp. Rigetta nel resto il ricorso.

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