Cassazione 4

Suprema Corte di Cassazione

sezione V

sentenza 28 luglio 2015, n. 33274

 

Ritenuto in fatto

1. Il Giudice di pace di Roma, con sentenza confermata dal locale Tribunale, ha ritenuto M.L. responsabile di diffamazione in danno dell’avv. L.P. per aver steso, fuori della finestra della propria abitazione, un lenzuolo raffigurante l’immagine della propria madre con la scritta: “Questa donna è stata truffata dall’avv. Luigi L.”. Per l’effetto, lo ha condannato a pena di giustizia, oltre al risarcimento dei danni in favore della persona offesa, costituitasi parte civile.
2. Ha presentato personalmente ricorso per Cassazione l’imputato lamentando la violazione dell’art. 599 cod. pen., per non essere stata riconosciuta l’esimente della provocazione, di cui, a suo giudizio, sussistono i presupposti, in quanto l’avv. L. aveva assistito civilmente, in anni precedenti, sua madre e, ricevuto dall’assicurazione un assegno di novanta milioni, lo aveva consegnato a suo fratello M. E. (il quale lo aveva, poi, trattenuto per sé), invece che all’avente diritto.

Considerato in diritto

Il ricorso è manifestamente infondato. L’esimente della provocazione è prevista a favore di chi commette uno dei fatti previsti dagli artt. 594 e 595 cod. pen. nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso. Sebbene questa Corte abbia precisato che, nei reati contro l’onore, ai fini dell’integrazione dell’esimente della provocazione, l’immediatezza della reazione deve essere intesa in senso relativo, avuto riguardo alla situazione concreta e alle stesse modalità di reazione, in modo da non esigere una contemporaneità che finirebbe per limitare la sfera di applicazione dell’esimente in questione e di frustarne la “ratio”, occorre comunque, come pure è stato aggiunto, che “l’azione reattiva sia condotta a termine persistendo l’accecamento dello stato d’ira provocato dal fatto ingiusto altrui e che tra l’insorgere della reazione e tale fatto sussista una reale contiguità temporale, così da escludere che il fatto ingiusto altrui diventi pretesto di aggressione alla sfera morale dell’offeso, da consumare nei tempi e con le modalità ritenute più favorevoli” (Cass. n. 30502 del 16/5/2013).
Ragionevolmente è stata esclusa, quindi, nel caso di specie, la contiguità temporale, posto che il “fatto ingiusto”, concretante un errore professionale, era stato commesso vari anni prima e per esso il ricorrente – come sostenuto in ricorso – aveva avviato le opportune azioni legali ottenendo, infine, soddisfazione (la banca ha infine corrisposto l’importo dell’assegno pagato, malamente, a favore del fratello).
II ricorso è pertanto inammissibile. Consegue, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma a favore della Cassa delle ammende, che, in ragione dei motivi dedotti, si reputa equo quantificare in € 1.000.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000 a favore della Cassa delle ammende.

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