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Suprema Corte di Cassazione

sezione V

sentenza 9 aprile 2015, n. 14548

Ritenuto in fatto

1. L’11/04/2011, la Corte di appello di Genova riformava la sentenza emessa dal Gup del Tribunale della stessa città in data 08/04/2010 nei confronti di M.G. : l’imputato, condannato in primo grado alla pena di anni 16 di reclusione per il delitto di strage, si vedeva riqualificare l’addebito nei distinti reati di incendio ed omicidio (ex artt. 423, 586 e 589 cod. pen.), con conseguente rideterminazione del trattamento sanzionatorio in anni 10 di reclusione. Il computo della pena, già nella misura inflitta dal primo giudice, risultava anche dal riconoscimento della diminuente prevista dall’art. 89 cod. pen., essendo risultato il M. – all’esito di accertamenti peritali sullo stato di mente all’epoca del fatto – solo parzialmente capace di intendere e di volere.
La vicenda processuale riguardava episodi occorsi il 24/11/2008 presso un circolo privato del capoluogo ligure, dove – secondo l’ipotesi accusatoria – il M. aveva provocato appunto un incendio: egli, già impegnato in un torneo di poker dal quale era stato escluso, si era allontanato dal circolo nel momento in cui gli era stata rifiutata una birra che aveva chiesto di consumare, per poi tornare cospargendo di benzina – a mezzo di una tanica che si era procurato medio tempore – i locali dell’esercizio. Il prevenuto aveva rivelato apertis verbis il proposito di appiccare il fuoco, con tanto di invito ai presenti affinché si allontanassero. All’effettivo scoppiare dell’incendio, tuttavia, due degli astanti – R.S. e Ma.Mi. – non erano riusciti a sottrarvisi, perdendo entrambi la vita; altri soggetti, ivi compreso lo stesso imputato, avevano riportato lesioni.
2. A seguito di ricorso per cassazione promosso dal Procuratore generale territoriale, nonché dalla difesa di parte civile, la pronuncia della Corte di appello di Genova veniva annullata dalla Prima Sezione di questa Corte, con sentenza n. 26876 del 09/05/2012. Il giudice di legittimità osservava che “la riconduzione dei fatti così come ricostruiti nel giudizio di primo grado in termini di strage non è giuridicamente corretta. Il delitto di strage, delitto a forma libera, è connotato dal punto di vista oggettivo dal compimento di atti aventi idoneità a mettere in pericolo la vita e l’integrità fisica della collettività mediante violenza, con la possibilità che dal fatto derivi la morte di una o più persone, mentre dal punto di vista soggettivo occorre il dolo specifico, consistente nella finalità di uccidere un numero indeterminato di persone; è proprio il dolo a costituire l’elemento che consente di differenziare tale delitto da quello di incendio o da altri reati che potrebbero essere integrati dalla condotta dell’agente […]. Delimitato quindi il confine entro il quale può parlarsi di strage, attraverso il dato qualificante del dolo diretto, è più che evidente come il fatto che il M. abbia invitato i presenti ad uscire (sono state riportate nella sentenza di primo grado le frasi pronunciate ai soggetti, presenti nei locali del club, dall’imputato “scappate, scappate che do fuoco a tutto”, “uscite tutti, ho la benzina per bruciare il locale”) segni inequivocabilmente una volontà non diretta – ma al più mediata – alla finalità di uccidere, in quanto chiaramente puntata a incendiare il locale nel quale aveva subito con troppa frequenza l’umiliazione del perdente e dell’escluso. Dunque la Corte territoriale ha correttamente opinato nel dissentire dalla valutazione condotta dal primo giudice che, benché non sottovalutando le frasi pronunciate dall’imputato, evocative di una volontà di fare sfollare i presenti e dunque espressive di un proposito omicidiario solo indiretto, aveva concluso ritenendo integrato il reato di strage. Ciò detto va aggiunto che, seppur partendo da corrette premesse, dopo aver ristabilito la giusta delimitazione tra reato di strage ed altri reati, la Corte a sua volta è incorsa in una palese contraddizione, nel discorso giustificativo sull’inquadramento della condotta causativa delle due morti registrate. Correttamente era stato osservato dal giudice di prime cure che senza ombra di dubbio il M. ebbe a causare l’incendio, avendo cosparso i locali di benzina, e che doveva imputarsi alla sua condotta lo sviluppo del fuoco, visto che cospargere di benzina il pavimento di un locale angusto, all’interno del quale sono presenti più persone, costituisce sicuramente l’elemento materiale del delitto di incendio, anche ammesso e non concesso […] che non sia stato il M. ad aver provocato l’innesco. Dunque riportata all’imputato la condotta di incendio, quanto alla qualificazione della condotta di omicidio, la Corte territoriale ha contraddittoriamente riportato nell’ambito del reato colposo le morti dei due malcapitati, sulla base di un incedere del tutto squilibrato, che accredita invero l’ipotesi del dolo eventuale”.
3. In data 27/02/2013, decidendo quale giudice del rinvio, la Corte di assise di appello di Milano riqualificava ulteriormente l’addebito sub a) – recante l’iniziale contestazione del delitto di strage – ai sensi degli artt. 81, 423, 575, 577 comma 1, n. 4, 61 n. 1 cod. pen., ritenendovi assorbito il reato di tentato omicidio in danno della R. e del Ma. , erroneamente contestato, ed escludendo invece la ravvisabilità dell’omologo tentativo nei riguardi di tutte le altre persone offese, stante la ricostruzione dell’episodio, sul piano dell’elemento soggettivo, come in effetti connotato non già da colpa bensì da dolo eventuale (con la conseguente affermazione dell’incompatibilità di tale forma di dolo rispetto ad ipotesi criminose riconducibili all’art. 56 cod. pen.).
Nel dare contezza della ricostruzione offerta dal M. a propria difesa, la Corte milanese segnalava che a dire dell’imputato “sarebbe stata sua intenzione riposizionarsi al tavolo del poker e giocare col sacco in mano, per verificare se anche così avrebbe egualmente perso; non intendeva uccidere, ma compiere un gesto dimostrativo”; tuttavia, a confutazione di tale assunto, i giudici del rinvio rilevavano – v. pag. 5 della motivazione della sentenza – che “l’imputato, dopo essersi procurato la benzina, ha dato fuoco ai locali invitando sì i presenti ad uscire, ma non ha affatto aspettato che ciò avvenisse, come avrebbe dovuto fare qualora il suo intento fosse stato soltanto quello di porre in essere un’azione dimostrativa. M. agì pertanto rappresentandosi la possibilità dell’evento morte, tenuto altresì conto della conformazione e dell’angustia dei luoghi, della condizione dei presenti (molti dei quali fumavano), del numero degli stessi, dell’unicità e difficoltà della via di fuga, della repentinità della sua azione (sicuramente incompatibile con un congruo tempo per far evacuare gli astanti), della gran quantità di liquido infiammabile disperso. La circostanza che anche l’imputato avesse riportato ustioni poi non esclude l’accettazione del rischio dell’evento: M. era infatti l’unico in grado di controllare le sue azioni; Ma. cercò di osteggiarlo e solo per questo egli si trovò spiazzato, così da non riuscire a sottrarsi del tutto alle fiamme. Si deve osservare al proposito che proprio l’imputato fu il primo a riuscire a fuggire dal circolo, tanto da venire intercettato da una pattuglia prima di giungere sul posto”.
La Corte di assise di appello di Milano confermava quindi il giudizio di prevalenza della diminuente del vizio parziale di mente rispetto all’aggravante dei motivi futili (sul punto, oggetto del ricorso del P.g. genovese, la censura era stata ritenuta assorbita dalla Sezione Prima di questa Corte, perché da correlare all’esito del giudizio di rinvio). Ne derivava la condanna alla pena di anni 14 e mesi 4 di reclusione.
4. Avverso la pronuncia da ultimo ricordata propone ricorso il difensore del M. .
Il motivo di doglianza riguarda un profilo di erronea applicazione della legge penale, non avendo i giudici di merito tenuto conto delle risultanze degli accertamenti compiuti sulla capacità di intendere e di volere dell’imputato. Richiamando precedenti giurisprudenziali di legittimità, la difesa rileva che il dolo eventuale, come “atteggiamento di accettazione del rischio di un certo risultato”, ben può essere compatibile con la semi-infermità mentale, “a meno che non si dimostri in concreto che la malattia incideva su un particolare aspetto di quell’atteggiamento, alterandolo in modo sostanziale”. Alterazione che nella fattispecie deve intendersi ravvisabile, atteso che gli accertamenti psichiatrici avevano fatto emergere come il M. manifestasse:
ampliamento dell’alone interpretativo, in senso persecutorio e di autoriferimento;
– insufficiente capacità di analisi, critica e di giudizio, rispetto ai fatti di causa;
– indicatori di un funzionamento border line di personalità, con difetto di funzione riflessiva e mentalizzazione, nonché bassa capacità di gestire situazioni stressanti;
– limitata efficienza cognitiva e di controllo affettivo;
– carenze nella capacità di astrazione.
Secondo la difesa, solo un soggetto con adeguata capacità di astrazione (e dunque di immaginazione) sarebbe in grado di prefigurarsi un evento possibile ma non certo, mentre nel caso in esame “si trattava di riuscire a rappresentarsi – tra le innumerevoli conseguenze possibili – proprio l’evento morte, accettandone poi il relativo rischio”.

Considerato in diritto

1. Il ricorso non può trovare accoglimento.
1.1 Deve preliminarmente darsi atto che il tema della individuazione del criterio di riferibilità psicologica della condotta all’agente non rientrava fra quelli già risolti dalla Sezione Prima di questa Corte all’atto del ricordato annullamento: con la sentenza n. 26876/2012, in vero, il giudice di legittimità si è limitato a rilevare il vizio motivazionale in cui era incorsa la Corte di assise di appello di Genova nell’invocare (al fine di sostenere l’assunto di una responsabilità per colpa) parametri tipici dell’accertamento di una volontà dolosa. Ergo, non può dirsi che la Prima Sezione abbia certamente ritenuto che nel caso di specie ricorressero gli estremi del dolo (eventuale), invitando invece il giudice del rinvio a risolvere quel profilo di contraddittorietà e – all’esito – a rivalutare se nella fattispecie si potesse effettivamente discutere di responsabilità colposa.
È solo con la pronuncia in epigrafe, pertanto, che si rilevano compiutamente gli elementi a sostegno della ascrivibilità al M. di un fatto doloso, qualificato non più come strage bensì ex art. 575 cod. pen.: e, dinanzi all’affermazione per la prima volta della sussistenza di un omicidio volontario, nella forma del dolo eventuale, appare in linea di principio rituale la censura della difesa nel prospettare la tesi che detta forma di dolo non possa intendersi compatibile con la c.d. seminfermità mentale.
1.2 Nella giurisprudenza di legittimità è stato più volte ribadito che, in linea generale, “il riconoscimento della diminuente del vizio parziale di mente è pienamente compatibile con la sussistenza del dolo, poiché l’imputabilità, quale capacità di intendere e di volere, e la colpevolezza, quale coscienza e volontà del fatto illecito, costituiscono nozioni autonome ed operanti su piani diversi, sebbene la prima, quale componente naturalistica della responsabilità, debba essere accertata con priorità rispetto alla seconda” (Cass., Sez. VI, n. 47379 del 13/10/2011, Dall’Oglio, Rv 251183).
Quanto allo specifico problema in diritto oggi sollevato dalla difesa del M. , deve parimenti registrarsi come sia stata affermata anche la “compatibilità tra il vizio parziale di mente ed il dolo eventuale, poiché i due concetti operano su piani diversi, l’una attenendo alla capacità di intendere e di volere e l’altro alla intensità del dolo” (Cass., Sez. I, n. 39266 del 21/10/2010, Attolico, Rv 248833; v. altresì, negli stessi termini, Cass., Sez. I, n. 8972 dell’11/03/1997, Di Massimo). Nelle pronunce appena ricordate non si rinvengono riferimenti di sorta alla possibile rilevanza, al fine di risolvere il problema dell’anzidetta compatibilità, del peculiare stato patologico da cui risulti affetto l’agente: è solo con un più remoto precedente – evocato dalla difesa nel corpo dell’odierno ricorso – che si segnala invece che “il dolo eventuale – inteso come atteggiamento di accettazione del rischio di un certo risultato – è compatibile con la seminfermità mentale, a meno che non si dimostri in concreto che la malattia incideva su un particolare aspetto di quell’atteggiamento, alterandolo in modo sostanziale” (Cass., Sez. I, n. 8719 del 09/05/1988, Ciancabilla, Rv 179036).
1.3 Ritiene il collegio che non sia possibile aderire alla tesi esposta con la -peraltro risalente – pronuncia appena ricordata, segnatamente perché il principio ivi affermato muove dal presupposto che il dolo eventuale debba intendersi, come appena ricordato, “atteggiamento di accettazione del rischio di un certo risultato”; per converso, non può convenirsi con la tesi difensiva secondo cui il M. , per potersi dire animato da dolo eventuale, avrebbe dovuto intendersi capace di “riuscire a rappresentarsi – tra le innumerevoli conseguenze possibili – proprio l’evento morte, accettandone poi il relativo rischio”.
Come diffusamente spiegato con la recente sentenza delle Sezioni Unite n. 38343 del 24/04/2014 (ric. Espenhahn ed altri), non è più possibile confinare il tema del dolo eventuale ad un mero problema di rappresentazione, e dunque rimanere ancorati alla tradizionale ricostruzione in tema di “accettazione del rischio”. Nel dare contezza degli interventi della giurisprudenza e degli approfondimenti della dottrina a riguardo, il massimo organo di nomofilachia ha infatti ricordato che – secondo la “teoria della rappresentazione” – “il limite dell’imputazione dolosa deve, nel dolo eventuale, ravvisarsi nell’accettazione del rischio: quando l’agente ha accettato la possibilità dell’evento, sia pure come risultato accessorio rispetto allo scopo della sua condotta, si può affermare che esso è voluto”; diversamente, e più correttamente, nelle elaborazioni fondate sulla “teoria della volizione” si è posto l’accento sul rilievo che – nel momento di individuare la linea di demarcazione tra l’area del dolo eventuale e quella della colpa ex art. 61, n. 3, cod. pen. – appare inaccettabile richiamare, quale unico criterio idoneo a definire rigorosamente il meccanismo psicologico della colpa cosciente, una mera “previsione negativa” circa la possibilità che l’evento si realizzi. Ciò in quanto “il codice esige la previsione dell’evento, e non la previsione negativa; il concetto di prova negativa è equivoco e sistematicamente inaccettabile. Sotto il profilo dell’oggetto, la previsione di un non evento finisce col postulare come oggetto del nesso psichico un requisito che non fa parte del fatto tipico: del fatto tipico fa parte l’evento, non la sua negazione”. Con la conseguenza che, così argomentando, si finisce “con l’ascrivere al dolo eventuale un’area che andrebbe invece assegnata alla colpa cosciente”, mentre “il puro stato di dubbio nel quale il soggetto si trovi va ascritto al campo della colpa, sia pure aggravata, non a quello del dolo. Il dubbio non esclude l’esistenza del dolo, ma non è sufficiente ad integrarlo”.
Ricorrendo alle tradizionali e consolidate esemplificazioni della manualistica di diritto sostanziale, le Sezioni Unite evidenziano che “l’automobilista che percorre ad alta velocità le vie del centro sa di rendere più probabile la lesione dell’altrui incolumità. Dunque, se non si vuole correre il rischio di un macroscopico aumento dei casi di responsabilità dolosa, occorre individuare il dolo eventuale, rispetto alla colpa cosciente, non solo con riguardo al profilo rappresentativo ma richiedendo la presenza di elementi psicologici ulteriori”. Analogamente, “accetta un rischio non consentito non solo chi incendia una casa prevedendo la possibilità della morte di una persona, ma anche chi spinge un’auto a velocità eccessiva in una strada affollata […]; nel dolo eventuale vi deve essere quindi qualcosa in più dell’accettazione del rischio. Si afferma così che dolo eventuale si ha quando il rischio viene accettato a seguito di un’opzione, di una deliberazione con la quale l’agente consapevolmente subordina un determinato bene ad un altro”.
Rapportando l’analisi, come doveroso, al dato normativo di cui all’art. 43 cod. pen., la sentenza Espenhahn precisa pertanto che nelle ipotesi di dolo eventuale “l’agente compie anticipatamente un bilanciamento, una valutazione comparata degli interessi in gioco (suoi ed altrui) ed i piatti della bilancia risultano, a seguito di tale valutazione, a livelli diversi: ve n’è uno che sovrasta l’altro. Il risultato intenzionalmente perseguito trascina con sé l’evento collaterale, il quale viene dall’agente concretamente collegato al conseguimento del fine. Non basta, quindi, la previsione del possibile verificarsi dell’evento; è necessario anche – e soprattutto – che l’evento sia considerato come prezzo (eventuale) da pagare per il raggiungimento di un determinato risultato. Anche l’evento collaterale appare, in tal modo, all’agente secondo l’intenzione”.
La casistica giurisprudenziale di maggiore richiamo, soprattutto negli ultimi anni, offre spunti di decisivo interesse, nella disamina compiuta dalle Sezioni Unite: anche nei casi di guida in stato di ebbrezza od alterazione cui sia conseguita la morte di altri utenti della strada, come sempre quando si invochi la categoria del dolo eventuale, “ciò che l’agente deve accettare è proprio l’evento. È il verificarsi della morte che deve essere stato accettato e messo in conto dall’agente, pur di non rinunciare all’azione che, anche ai suoi occhi, aveva la seria possibilità di provocarlo. Occorre quindi accertare, per ritenere la sussistenza del dolo eventuale, che l’agente abbia accettato come possibile la verificazione dell’evento, non soltanto che abbia accettato una situazione di pericolo genericamente sussistente”.
In definitiva, è necessario superare il pur consolidato approccio interpretativo secondo cui l’in sé del dolo eventuale deve essere individuato nell’accettazione del rischio, e riportare invece anche tale forma di riferibilità psichica del fatto all’agente nell’alveo della volizione del fatto-reato; in tutte le ipotesi di dolo “non può mancare la puntuale, chiara conoscenza di tutti gli elementi del fatto storico propri del modello legale descritto dalla norma incriminatrice. In particolare, le istanze di garanzia in ordine al rimprovero caratteristico della colpevolezza dolosa richiedono che l’evento oggetto della rappresentazione appartenga al mondo del reale, costituisca una prospettiva sufficientemente concreta, sia caratterizzato da un apprezzabile livello di probabilità. Solo in riferimento ad un evento così definito e tratteggiato si può istituire la relazione di adesione interiore che consente di configurare l’imputazione soggettiva”.
Premesso dunque che, laddove non si verta in casi di dolo intenzionale o diretto, la ricostruzione della volontà dell’agente non può che muovere, almeno di regola, da un paradigma indiziario, le Sezioni Unite rilevano che tra gli elementi indicativi del dolo vanno ricompresi la durata (e la ripetizione) della condotta (giacché “un comportamento repentino, impulsivo, accredita l’ipotesi di un’insufficiente ponderazione di certe conseguenze illecite”), la condotta successiva al fatto, il fine della condotta medesima (e “la compatibilità con esso delle conseguenze collaterali, cioè la congruenza del prezzo connesso all’evento non direttamente voluto rispetto al progetto d’azione”), la probabilità di verificazione dell’evento, le conseguenze negative o lesive anche per l’agente in caso di verificazione dell’evento medesimo ed il contesto inizialmente lecito od illecito dell’azione criminosa.
1.4 Mutuando tali insegnamenti ai fini della valutazione della fattispecie concreta, non vi sono elementi di sorta per ritenere che lo stato patologico ascritto al M. – per come evidenziato nelle sentenze di merito, tutte convergenti nel riconoscere al ricorrente una condizione di seminfermità mentale – fosse incompatibile con l’ipotesi che egli agì perseguendo il risultato collaterale di cagionare la morte di taluno dei presenti.
Soccorrono a tal fine le stesse considerazioni della Corte di appello di Genova, dove – a dispetto di una conclusione, quanto all’omicidio, ancorata a canoni di responsabilità colposa – per il delitto ex art. 423 cod. pen. si sostenne che “la circostanza che l’imputato abbia agito nella consapevolezza della pericolosità della sua condotta e del rischio cui esponeva i presenti, rischio di cui non poteva non avvedersi anche una persona seminferma di mente, impone condanna a pena elevata, poiché i fatti, pur non potendoli qualificare come strage, rivelano dolo di intensità particolarmente spiccata del reato contro l’incolumità pubblica”. Elementi, questi, ulteriormente enfatizzati dalla pronuncia emessa dal giudice del rinvio, come si legge a pag. 5 nella parte già virgolettata e richiamata in precedenza.
In definitiva, pure ammettendo che sulla comprensione di un contesto rischioso possano incidere negativamente i limiti di un soggetto nella propria capacità di astrazione dal reale, nel caso di specie i giudici di merito hanno già chiarito, da un lato, che il M. non si trovava dinanzi ad “innumerevoli conseguenze possibili” della propria condotta, essendo anzi la morte di uno o più dei frequentatori del circolo un risultato immediatamente percepibile come diretta derivazione di quel comportamento; dall’altro, che egli volle quel risultato, pur agendo in condizioni di ridotta imputabilità. Ciò è dimostrato da una condotta ante delictum non istintiva, ma ragionata ed organizzata (con tanto di allontanamento dai locali del circolo al precipuo scopo di andarsi a procurare il necessario per appiccare il fuoco), da modalità esecutive tali da rendere elevatissime le probabilità di verificazione dell’evento collaterale (ove si pensi alla quantità di combustibile utilizzato) e da una condotta posteriore altrettanto lucida, fino ad essere proprio il M. – nella evidente percezione da parte sua della situazione di pericolo appena cagionata – uno dei primi soggetti ad allontanarsi dal luogo dell’incendio.
2. Il rigetto del ricorso comporta la condanna dell’imputato al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità.
Il M. deve altresì essere condannato a rifondere alla parte civile che ha rassegnato rituali conclusioni (C.P. , figlia della defunta R.S. ) le spese sostenute nel grado, che il collegio reputa equo determinare nella misura di cui al dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso, e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed a rifondere alla parte civile C.P. le spese del grado, che liquida in complessivi Euro 1.500,00, oltre accessori di legge.

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